Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 31-01-2011, n. 2153 Lavoro subordinato

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

La Corte di Appello di Messina con sentenza n. 919 del 2006, decidendo in sede di rinvio sull’atto di riassunzione di C. R., in riforma della sentenza del Pretore di Caltagirone, dichiarava, L. n. 300 del 1970, ex art. 18, l’illegittimità del licenziamento intimato in data 22 febbraio 1993 alla predetta C. dalla Associazione Italiana Assistenti Spastici per essersi, nella sua qualità di fisioterapista, rifiutata di svolgere la terapia c.d. guidata e per aver arbitrariamente occupato un box, intralciando l’attività degli altri dipendenti.

La Corte territoriale, premesso che a seguito della sentenza di annullamento della Corte di Cassazione n. 19689 del 2003 non poteva non ribadirsi la ricorrenza di una grave insubordinazione del dipendente,la quale a seguito di sua ritenuta dequalificazione delle mansioni rifiutò di eseguire la prestazione, rilevava che tale principio trovava un limite, pur indicato nella predetta sentenza di annullamento, allorquando la scelta datoriale veniva ad incidere sulle immediate esigenze vitali del lavoratore.

Tanto precisato i giudici del rinvio procedendo, sulla base delle indicazioni fornite dalla citata sentenza della cassazione, ad una nuova valutazione del materiale probatorio, ritenevano dimostrata l’inesigibilità della prestazione richiesta per l’estrema onerosità del percorso, di oltre tre chilometri, da seguire nell’accompagnamento in carrozzella del soggetto disabile.

Conseguentemente affermavano la legittimità del rifiuto della prestazione della C. che restava nei box a disposizione del datore di lavoro non impedendo assolutamente lo svolgimento delle terapie che ivi si praticavano. Di qui la declaratoria d’illegittimità del licenziamento con tutte le conseguenze di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 18.

Tale sentenza con ricorso iscritto al n.7602 dell’anno 2007 del R.G. veniva impugnata dinanzi questa Corte dall’Associazione Italiana Assistenza Spastici sulla base di due censure.

Resisteva con controricorso C.R..

Successivamente con ricorso, iscritto al n. 27833 dell’anno 2009 del R.G., la predetta Associazione ricorreva in cassazione avverso la sentenza n. 61 del 2009 emessa dalla Corte di Appello di Messina con la quale era stata rigettata la domanda di revocazione, ex art. 395 c.p.c., n. 4, proposta dalla menzionata Associazione avverso la sentenza con la quale era stata accolta la domanda della C..

Quest’ultima resisteva con controricorso.

Motivi della decisione

I ricorsi vanno preliminarmente riuniti. Infatti vi è un rapporto di pregiudizialità tra il ricorso avverso la sentenza emessa nel giudizio di revocazione e quello proposto contro la sentenza di merito (Cass. 4 giugno 1998 n. 5480), che impone, in applicazione analogica dell’art. 335 c.p.c., la trattazione dei ricorsi in un unico giudizio (Cass. 29 novembre 2006 n. 25376).

Con il ricorso iscritto al n. 27833 del 2009 del R.G. avverso la sentenza emessa nel giudizio di revocazione, da trattare come sottolineato, in via pregiudiziale, l’Associazione deduce violazione dell’art. 395 c.p.c., n. 4, ex art. 360 c.p.c., n. 5. Allega che la sentenza di appello tende a configurare gli errori denunciati, relativi rispettivamente alla affermazione che la prestazione era stata chiesta solo alla C., che in caso di pioggia la fisioterapista non poteva utilizzare mezzi di trasporto e che il precorso era lungo oltre tre chilometri, come una valutazione fatta dai giudici e non come asserzione di un fatto esistente quando il contrario emerge pacificamente agli atti.

La censura è infondata.

Invero, la Corte territoriale, dopo aver precisato che l’errore di fatto rilevante ai sensi dell’art. 395 c.p.c., n. 4, ricorre allorchè venga supposto un fatto incontrovertibilmente escluso o venga, al contrario, considerato inesistente un fatto positivamente accertato semprechè tale fatto non abbia costituito punto controverso sul quale sia intervenuta adeguata pronuncia, afferma che esula da tale patologia processuale l’ipotesi d’inesatto apprezzamento delle risultanze processuali che si risolve in errore di giudizio denunciabile con ricorso per cassazione ex art. 360 c.p.c., n. 5.

Tanto premesso la richiamata Corte in relazione ai punti in contestazione, riguardanti la non alternanza di fisioterapisti nell’accompagnamento della disabile, l’impossibilità di avvalersi in caso di pioggia di apposito veicolo ed il carattere impervio del percorso da seguire, rileva che su di essi si è svolto ampio contraddittorio in esito al quale essa Corte, procedendo ad un esame critico delle risultanze processuali, è pervenuta alle conclusioni censurate. Del resto, precisa la Corte del merito, è la stessa ricorrente che esponendo i fatti elenca gli elementi di segno opposto che hanno indotto il giudice al diverso convincimento rispetto alla versione che ritiene essere veritiera.

Si tratta di una motivazione giuridicamente corretta e sorretta da adeguata motivazione.

Infatti secondo questa Corte non sussiste vizio revocatorio, ai sensi dell’art. 395 c.p.c., n. 4, se la dedotta erronea percezione degli atti di causa – che si sostanzia nella supposizione dell’esistenza di un fatto la cui verità è incontrastabilmente esclusa, ovvero nella supposizione dell’inesistenza di un fatto, la cui verità è positivamente stabilita- ha costituito un punto controverso ed ha formato oggetto di decisione nella sentenza impugnata, ossia è il frutto dell’apprezzamento del giudice delle risultanze processuali (per tutte Cass. S.U. 25 luglio 2000 n. 523).

Orbene i fatti in contestazione, così come ritenuti dalla Corte del merito, in quanto vertenti su contrastanti prove derivano, quindi, da una valutazione del giudice delle emergenze processuali e non costituiscono, quindi, il frutto di una falsa percezione di ciò che emerge dagli atti, bensì il frutto, come sottolineato dalla Corte del merito con riferimento alle stesse allegazioni della ricorrente Associazione, di un apprezzamento di prove non univoche.

Il ricorso avverso la sentenza emessa all’esito del giudizio di revocazione va, in conclusione, respinto.

Può di conseguenza passarsi all’esame del ricorso proposto contro la sentenza di merito.

Con il primo motivo di questo ricorso l’Associazione in epigrafe, deducendo violazione dell’art. 384 c.p.c., denuncia che la Corte territoriale, a seguito della sentenza di rinvio della Cassazione, non poteva sindacare sulla esigibilità della prestazione sul cui punto si era formato il giudicato, ma doveva solo accertare se la prestazione richiesta era dequalificante e, in caso affermativo se la lavoratrice aveva diritto di rifiutarla. Deduce altresì, che la Corte di Messina ha stravolto i limiti fissati dalla sentenza di annullamento anche negando che le modalità del rifiuto costituiscono insubordinazione.

Tanto allegato la predetta Associazione pone ex art. 366 bis c.p.c., il seguente quesito di diritto: "se nel giudizio di rinvio, essendo un processo chiuso che tende ad una nuova statuizione in sostituzione di quella cassata, i limiti e l’oggetto del procedimento fissati dalla sentenza di annullamento, che non può essere nè sindacata nè elusa dal giudice di rinvio neppure in caso di constatato errore, in particolare se il giudice del rinvio, avendo la sentenza della Cassazione ritenuta legittima ed ammissibile la prestazione chiesta dal datore di lavoro, può ritenerla invece illegittima ed inesigibile, e se il giudice del rinvio può ritenere legittimo il comportamento di un lavoratore definito come insubordinazione dalla sentenza di annullamento e consistente nel rifiuto di una prestazione da parte di un fisioterapista che occupa i locali destinati a cure di disabili per disconoscere la disposizione data dal datore di lavoro".

Con la seconda censura del ricorso in parola l’Associazione ricorrente sostenendo violazione dell’art. 116 c.p.c., e vizio di motivazione, asserisce che la Corte del merito ha omesso di considerare punti decisivi ed ha incredibilmente travisato i fatti.

Rileva che non è vero che solo alla C. venne affidato l’incarico della terapia guidata della disabile M.G.L. e che in caso di pioggia la terapista non poteva utilizzare automezzi dell’Associazione. Contesta, poi, la valenza probatoria conferita dalla Corte del merito alla consulenza di parte e la ritenuta acquisita prova della sussistenza della prova in ordine alla inesigibilità della prestazione. Denuncia che non è affatto pacifico che la permanenza nei box della C. non impediva lo svolgimento della terapia.

I motivi, che in quanto logicamente e giuridicamente collegati vanno trattati congiuntamente, sono infondati.

E’ necessario premettere, ai fini dello scrutinio delle censure in esame, che i limiti dei poteri attribuiti al giudice di rinvio sono diversi a seconda che la sentenza di annullamento abbia accolto il ricorso per violazione o falsa applicazione di norme di diritto, ovvero per vizi di motivazione in ordine a punti decisivi della controversia, ovvero per l’una e per l’altra ragione: nella prima ipotesi, il giudice di rinvio è tenuto soltanto ad uniformarsi, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 1, al principio di diritto enunciato dalla sentenza di cassazione, senza possibilità di modificare l’accertamento e la valutazione dei fatti acquisiti al processo; nella seconda ipotesi, il giudice non solo può valutare liberamente i fatti già accertati, ma può anche indagare su altri fatti, ai fini di un apprezzamento complessivo in relazione alla pronuncia da emettere in sostituzione di quella cassata, tenendo conto, peraltro, delle preclusioni e decadenze già verificatesi;

nella terza ipotesi, la "potestas iudicandi" del giudice di rinvio, oltre ad estrinsecarsi nell’applicazione del principio di diritto, può comportare la valutazione "ex novo" dei fatti già acquisiti, nonchè la valutazione di altri fatti, la cui acquisizione sia consentita in base alle direttive impartite dalla Corte di cassazione e sempre nel rispetto delle preclusioni e decadenze pregresse (Cass. 5 marzo 2009 n. 5316 e Cass. 3 ottobre 2005 n. 19305 cui adde Cass. 6 aprile 2004 n. 6707).

La giurisprudenza di questa Corte, ha inoltre precisato, che allorquando la Cassazione annulli la sentenza impugnata per insufficienza di motivazione su un punto decisivo della controversia, non viene emesso alcun principio di diritto vincolante per il giudice di rinvio, il quale è tenuto unicamente a riesaminare i fatti oggetto di discussione ai fini di un nuovo apprezzamento complessivo adeguato ai rilievi contenuti nella sentenza di cassazione, sicchè le prescrizioni dettate al riguardo dal giudice di legittimità hanno valore meramente orientativo e non valgono a circoscrivere in un ambito invalicabile i poteri del giudice di rinvio, il quale resta libero di accertare nuovi fatti e decidere la controversia anche in base a nuovi presupposti oggettivi. I limiti all’ammissione delle prove nel giudizio di rinvio riguardano infatti l’attività delle parti, e non si estendono ai poteri del giudice, il quale, pertanto, dovendo riesaminare la causa nel senso indicato dalla sentenza di annullamento, può ben avvertire la necessità di disporre, secondo le circostanze, una consulenza tecnica d’ufficio, salva la sola ipotesi in cui la consulenza si ponga, piuttosto che come elemento di valutazione, come mezzo di acquisizione delle prove (Cass. 5 marzo 2009 n. 5316 cit., Cass. 7 febbraio 2006 n. 2605, Cass. 2 settembre 2004 n. 17686 e Cass. 7 novembre 1989 n.4644).

Tanto precisato e passando al controllo dell’uniformazione del giudice di rinvio al dictum enunciato dalla Corte di Cassazione nella sentenza di annullamento, nell’ambito del quale il giudice di legittimità deve interpretare la propria sentenza in relazione alla questione decisa (Cfr. Cass. 21 aprile 2006 n. 9395), rileva il Collegio che nella sentenza di rinvio n. 19689 del 2003 questa Corte ha annullato la sentenza impugnata per violazione di legge e per vizio di motivazione (ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5) rinviando alla Corte di Appello di Messina al fine di procedere, "per non essere state considerate o erroneamente valutate nella motivazione della sentenza impugnata" specifiche circostanze, al riesame della controversia uniformandosi ai seguenti principi di diritto: 1. "il lavoratore, a seguito di sua ritenuta dequalificazione delle mansioni, non può rendersi inadempiente non eseguendo la prestazione lavorativa nei modi e nei termini precisati dal datore di lavoro in forza del suo potere direttivo quando lo stesso assolva a tutti gli altri propri obblighi(omissis), in quanto una parte può rendersi inadempiente e invocare l’art. 1460 c.c., soltanto se è totalmente inadempiente l’altra parte e non, invece, se l’asserito inadempimento sia fatto dipendere da una pretesa dequalificazione professionale sulla base di una non condivisa scelta organizzativa aziendale – che, come tale, non può essere sindacata dal lavoratore ove essa non incida sulle sue immediate esigenze vitali; 2. configura grave insubordinazione – e come tale, passibile del provvedimento disciplinare del licenziamento per giusta causa – il comportamento del lavoratore che si renda inadempiente secondo le modalità dinanzi precisate e che non può pretendere di eseguire la prestazione lavorativa in modo da – lui – stesso stabilito (e cioè, in un modo diverso rispetto alle direttive datoriali)".

Orbene ritiene il Collegio che il giudice del rinvio si sia pienamente attenuto ai su riportati principi di diritto. Infatti detto giudice ha valutato la legittimità del rifiuto di eseguire la prestazione, non con riferimento alla prospettata dequalificazione delle mansioni rispetto alla quale questa Corte, nella sentenza di annullamento, ne aveva escluso la legittimità a fronte dell’adempimento da parte del datore di lavoro dei suoi obblighi non potendo, in questo caso, il lavoratore sindacare la relativa scelta aziendale, ma in relazione alla allegata onerosità della chiesta prestazione e della sua incidenza sulle immediate esigenze vitali e, tanto, in conformità del richiamato principio di diritto che, appunto, non escludeva la legittimità del predetto rifiuto ove l’attività lavorativa da espletare finiva per incidere sulle immediate esigenze vitali del lavoratore.

Nè la Corte del merito si è discostata dall’ulteriore principio secondo il quale costituisce grave insubordinazione la pretesa del lavoratore di eseguire la prestazione in modo da lui stesso stabilito. Invero, siffatto comportamento è stato valutato, non in relazione alla allegata dequalificazione delle mansioni, rispetto alla quale anche detto principio è stato affermato come si desume dal testuale riferimento, nella formulazione del relativo principio, "alle modalità dinanzi precisate", ma in riferimento alla incidenza della chiesta prestazione sulle "immediate esigenze vitali" del lavoratore rispetto alle quali vi è espressa salvezza, nel principio di diritto, della legittimità del rifiuto e della stessa sindacabilità della scelta aziendale.

Risulta, quindi, del tutto infondato l’assunto dell’Associazione ricorrente secondo la quale la Corte del merito non poteva sindacare sulla esigibilità della prestazione sul cui punto si era formato il giudicato, ma doveva solo accertare se la prestazione richiesta era dequalificante e, in caso affermativo se essa aveva diritto di rifiutarla. Così come è destituito di qualsiasi fondamento l’allegazione della predetta Associazione che la Corte di Messina ha stravolto i limiti fissati dalla sentenza di annullamento anche negando che le modalità del rifiuto costituiscono insubordinazione.

Non coglie nel segno, pertanto, il quesito di diritto di cui al primo motivo del ricorso in quanto la sua formulazione muove dall’errato presupposto che il tema decidendum oggetto del rinvio fosse limitato alla valutazione della legittimità o meno del rifiuto di eseguire la prestazione in relazione alla allegata natura dequalificante delle mansioni da espletare.

Nè può ritenersi che il giudice del rinvio, cui sia demandato il riesame della controversia in ragione del vizio di motivazione della sentenza impugnata, nell’ambito della sua discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell’apprezzamento dei fatti possa considerarsi vincolato, se non nei limiti del dovere di tenere conto anche delle emergenze istruttorie ritenute in sede rescindente trascurate, da eventuali indicazioni circa il significato da attribuire ad alcuni elementi di prova avendo siffatte indicazioni valore meramente orientativo che non valgono a circoscrivere in una sfera invalicabile i poteri del giudice di rinvio, rimanendo egli libero nella valutazione delle risultanze processuali competendo allo stesso gli stessi poteri del giudice di merito che ha pronunciato la sentenza cassata con l’unica limitazione consistente nell’evitare di fondare la decisione sugli stessi elementi del provvedimento annullato, ritenuti illogici, e con necessità, a seconda dei casi, di eliminare le contraddizioni e sopperire ai difetti argomentativi riscontrati (Cfr. Cass. 5 marzo 2009 n. 5316 cit. e Cass. 23 febbraio 2006 n. 4018).

Diversamente opinando si finirebbe, invero, con l’ammettere che al giudice di legittimità è consentito un apprezzamento dei fatti che, invece, gli è precluso in quanto la deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata con ricorso per cassazione conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico – formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, dando, così, liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti (salvo i casi tassativamente previsti dalla legge) (ex plurimis: Cass., sez. un., 27 dicembre 1997 n. 13045). In caso contrario, invero, il motivo di ricorso ex art. 360 c.p.c., n. 5, si risolverebbe in una inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti del giudice di merito, e, perciò, in una richiesta diretta all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, sicuramente estranea alla natura e alle finalità del giudizio di cassazione ( Cass. 20 aprile 2006 n. 9233).

E’ corretta in diritto, pertanto, la sentenza della Corte di Appello di Messina, in questa sede impugnata, che procedendo ad una nuova valutazione dei fatti di causa e tenendo conto degli elementi istruttori ritenuti, in sede rescindente, dal giudice di legittimità erroneamente trascurati o mal valutati perviene ad una soluzione diversa da quella auspicata, oggi, dalla parte ricorrente sulla base d’indicazioni fornite dal giudice di legittimità aventi valore meramente orientativo. Nè l’apprezzamento operato dal giudice del rinvio, quale giudice del merito, delle risultanze istruttorie, al quale spetta, e giova ribadirlo, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, può essere in questa sede sindacato risultando sorretto da congrua e corretta motivazione in punto di ritenuta legittimità del rifiuto opposto dal lavoratore di eseguire la prestazione in ragione della accertata incidenza della stessa immediate esigenze vitali della lavoratrice e della conseguente non insubordinazione del comportamento del prestatore consistito nel mettere a disposizione del datore di lavoro le proprie energie sostando nei boxs e non impedendo assolutamente lo svolgimento delle terapie che ivi si praticavano.

D’altro canto il dedotto travisamento dei fatti e l’allegata erronea valutazione delle emergenze istruttorie, si risolve, in sostanza nella prospettazione di una diversa valutazione dei fatti, che come tale non può trovare ingresso in questa sede di legittimità a fronte di una sentenza, ed è opportuno rimarcarlo, adeguatamente motivata il cui iter logico-giuridico è strettamente concatenato.

Infatti la Corte territoriale evidenzia come dalla emergenze istruttorie risulta che il percorso richiesto, quotidianamente e nella stagione invernale, alla C., nell’accompagnamento della disabile in carrozzella, era lungo oltre tre chilometri, in zona periferica, in parte in salita ed a tratti privo di marciapiede con, all’ingresso della contrada Semini, dove si trovava l’abitazione della disabile, un ponte sulla Ferrovia, privo di passaggio pedonale o per carrozzelle come evidenziato dalle deposizioni testimoniali, oltre che dalla consulenza di parte, la quale nell’economia della argomentazione della Corte territoriale, viene considerata, quanto alla descrizione dei luoghi, solo ed in quanto confermata dai testi escussi, e, quindi, non in contrasto con quanto rilevato dalla Cassazione nella sentenza rescindente.

L’onerosità della prestazione è inoltre, accuratamente, rilevata dalla Corte del merito riguardo alla indisponibilità,come desunta dalle emergenze istruttorie, in caso di pioggia, degli automezzi dell’Associazione per coprire il percorso assegnato. Nè la predetta Corte manca di sottolineare che la c.d. terapia guidata della disabile affidata alla C. non venne mai svolta da altro fisioterapista prima e, dopo, solo per una volta da altro dipendente, ovvero per percorsi diversi molto più brevi ed agevoli. Si tratta,pertanto, di una motivazione congrua, priva di salti logici e giuridicamente corretta. Sulla base delle esposte considerazioni, nelle quali tutte le altre eccezioni o obbiezioni devono considerarsi assorbite, in conclusione, anche questo ricorso va rigettato.

Le spese del giudizio di legittimità seguono la h soccombenza.

P.Q.M.

La Corte riuniti il presente ricorso e quello iscritto al n. 27833 dell’anno 2009 del R.G., li rigetta e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità liquidate in Euro 32,00 per esborsi, oltre Euro 3.000,00 per onorario, spese, IVA e CPA. Così deciso in Roma, il 10 dicembre 2010.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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