Cass. civ. Sez. III, Ord., 28-01-2011, n. 2130 Conversione dei rapporti associativi in affitto

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Il tribunale di Sassari, sezione specializzata agraria, con sentenza 28 maggio 2008, in accoglimento della domanda proposta da C.P., C.M.A. e C.G. nei confronti della società Sanna, composta da S.F., S.P., S.V. e S.A. – disattesa l’eccezione di improponibilità della domanda attrice sollevata dalla convenuta tenuto presente che l’originario contratto non si era convertito in affitto, non essendo stata chiesta tale conversione entro quattro anni dalla data di entrata in vigore della L. n. 203 del 1982 – ha dichiarato cessato al 10 novembre 2007 il contratto associativo (soccida) inter partes.

Gravata tale pronunzia in via principale dalla soccombente società e in via incidentale dai concedenti C. la Corte di appello di Cagliari, sezione distaccata di Sassari, sezione specializzata agraria, con sentenza 4 febbraio – 23 marzo 2009, rigettato l’appello principale ha accolto quello incidentale con declaratoria che il rapporto inter partes era cessato il 10 novembre 2005 e che gli appellanti erano, pertanto, tenuti al rilascio dei fondi oggetto di controversia per la data del 10 novembre 2005.

Per la cassazione di tale ultima pronunzia, non notificata, ha proposto ricorso la società Sanna di S.F., S. P., S.V. e S.A., affidato a tre motivi.

Resistono, con controricorso, C.P. e C.M. A..

Non ha svolto attività difensiva in questa sede C. G..

In margine a tale ricorso – proposto contro una sentenza pubblicata successivamente al 2 marzo 2006 e, quindi, soggetto alla disciplina del processo di Cassazione così come risultante per effetto dello modifiche introdotte dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40 – è stata " – depositata relazione (ai sensi dell’art. 380 bis; perchè il ricorso sia deciso in camera di consiglio.

Motivi della decisione

2. La relazione depositata ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c., precisa, nella parte motiva:

2. Il rapporto associativo agrario di cui si discute – ha accertato la pronunzia ora oggetto di ricorso per cassazione – ha avuto inizio, secondo le risultanze di causa, nel 1969 ed è, perciò, anteriore alla L. 3 maggio 1982, n. 203.

L’art. 25 di questa ultima legge – hanno ancora evidenziato quei giudici – prevede che entro quattro anni dalla sua entrata in vigore i contratti di soccida già costituiti sono convertiti in affitto a richiesta delle parti. La parte che intende avvalersi della conversione legale, in particolare, è tenuta a comunicare la propria volontà in tale senso all’altra entro quattro anni dalla data di entrata in vigore della L. n. 203 del 1982 e, quindi, entro il maggio 1986.

Poichè nella specie la società SANNA ha comunicato alla controparte la volontà di avvalersi della conversione unicamente nel 2004, è palese – hanno concluso quei giudici – che una tale comunicazione, inviata dopo 8 (recte: diciotto) anni dalla scadenza del termine ultimo, non può avere l’effetto di convertire in affitto il rapporto in discussione, senza che rilevi, in senso contrario, che la opposizione degli appellati (alla richiesta di conversione) sia successiva ai 90 giorni previsti dalla L. n. 203 del 1982, art. 33 introdotto dalla L. 14 febbraio 1990, n. 29, art. 5.

Assumendo, ancora, la società appellante principale di detenere una parte dei terreni oggetto di controversia in forza di contratto di affitto stipulati con terzi i giudici di appello hanno evidenziato che il documento dal quale risulterebbe che altri hanno concesso in affitto il fondo al foglio 28 è stato prodotto tardivamente, dunque nessun uso può farsene.

3. La ricorrente censura nella parte de qua la sentenza impugnata con tre motivi con i quali denunzia, nell’ordine:

da un lato, violazione e falsa applicazione della L. n. 29 del 1990, art. 5 che ha aggiunto l’art. 33-bis alla L. n. 203 del 1982 (atteso che il contratto inter partes è stato, ex lege, prorogato di sei anni in sei anni sino al 21 luglio 2004, sì che era tempestiva la richiesta di conversione trasmessa a controparte nel 2004, mentre era tardiva l’opposizione a tale richiesta da parte dei concedenti) primo motivo;

dall’altro, violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. Violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunziato. Il giudizio emesso extra e ultra petita è nullo (tenuto presente che le controparti avevano chiesto fosse accertata la non convertibilità del contratto di soccida in discussione esistendo una delle condizioni ostative – il conferimento del bestiame in misura superiore al 20% – e sul punto è mancata qualsiasi pronunzia) secondo motivo;

– da ultimo, violazione dell’art. 2697 c.c. Chi vuoi far valere in giudizio un diritto deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento. Il principio dell’onere della prova, nella fattispecie sub iudice, è stato violato terzo motivo.

Ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c. (essendo oggetto di ricorso una sentenza pronunziata tra il 3 marzo 2006 ma anteriormente al 4 luglio 2009, cfr. L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 58, comma 5) la ricorrente ha formulato, a conclusione dei sopra riassunti motivi, i seguenti quesiti di diritto:

– la L. 14 febbraio 1990, n. 29, art. 5 che ha introdotto l’art. 33 bis della L. 3 maggio 1982, n. 203 può essere applicato ai contratti associativi agrari prorogati L. n. 203 del 1982, ex art. 34 (quanto al primo motivo);

– se il giudice debba comunque e in ogni caso pronunciare sulla domanda dell’atto introduttivo, anche nel caso di rigetto in margine al secondo motivo;

– se la sentenza impugnata, con riferimento alla mancata prova data dai resistenti sul diritto a pretendere il rilascio dei terreni detenuti e posseduti dai ricorrenti, costituisca o meno violazione dell’art. 2697 c.c. Se la produzione della nota – comunicazione del contratto nel primo e del contratto d’affitto nel secondo grado possa essere dichiarata tardiva sul terzo motivo.

4. I riferiti motivi, prima ancora che manifestamente infondati, paiono inammissibili.

Giusta la testuale previsione dell’art. 366-bis c.p.c. introdotto, con decorrenza dal 2 marzo 2006, dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 6 abrogato con decorrenza dal 4 luglio 2009 dalla L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 47 e applicabile, come anticipato sopra, ai ricorsi proposti avverso le sentenze pubblicate tra il 3 marzo 2006 e il 4 luglio 2009 (cfr. L. n. 69 del 2009, art. 58, comma 5) e quindi al presente ricorso, atteso che è stata impugnata una sentenza pubblicata il 23 marzo 2009, nei casi previsti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 1, 2, 3 e 4 l’illustrazione di ciascun motivo si deve concludere, a pena di inammissibilità con formulazione di un quesito diritto.

Il quesito di diritto previsto dall’art. 366-bis c.p.c. (nei casi previsti dall’art. 360 c.p.c., nn. 1, 2, 3 e 4) – in particolare – deve costituire la chiave di lettura delle ragioni esposte e porre la Corte di cassazione in condizione di rispondere a esso con la enunciazione di una regula iuris che sia, in quanto tale, suscettibile di ricevere applicazione in casi ulteriori rispetto a quello sottoposto all’esame del giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata.

In altri termini, la Corte di cassazione deve poter comprendere dalla lettura dal solo quesito, inteso come sintesi logico giuridica della questione, l’errore di diritto asseritamente compiuto dal giudice del merito e quale sia, secondo la prospettazione del ricorrente, la regola da applicare.

La ammissibilità del motivo, in conclusione, è condizionata alla formulazione di un quesito, compiuta e autosufficiente, dalla cui risoluzione scaturisce necessariamente il segno della decisione (Cass., sez. un., 25 novembre 2008, n. 28054; Cass. 7 aprile 2009, n. 8463).

Non può, inoltre, ritenersi sufficiente – perchè possa dirsi osservato il precetto di cui all’art. 366-bis – la circostanza che il quesito di diritto possa implicitamente desumersi dalla esposizione del motivo di ricorso nè che esso possa consistere o ricavarsi dalla formulazione del principio di diritto che il ricorrente ritiene corretto applicarsi alla specie.

Una siffatta interpretazione della norma positiva si risolverebbe, infatti, nella abrogazione tacita dell’art. 366 bis c.p.c. secondo cui è, invece, necessario che una parte specifica del ricorso sia destinata ad individuare in modo specifico e senza incertezze interpretative la questione di diritto che la Corte è chiamata a risolvere nell’esplicazione della funzione nomofilattica che la modifica di cui al D.Lgs. n. 40 del 2006, oltre all’effetto deflattivo del carico pendente, ha inteso valorizzare, secondo quanto formulato in maniera esplicita nella Legge Delega 14 maggio 2005, n. 80, art. 1, comma 2, ed altrettanto esplicitamente ripreso nel titolo stesso del decreto delegato sopra richiamato.

In tal modo il legislatore si propone l’obiettivo di garantire meglio l’aderenza dei motivi di ricorso (per violazione di legge o per vizi del procedimento) allo schema legale cui essi debbono corrispondere, giacchè la formulazione del quesito di diritto risponde all’esigenza di verificare la corrispondenza delle ragioni del ricorso ai canoni indefettibili del giudizio di legittimità, inteso come giudizio d’impugnazione a motivi limitati (Cass. 25 novembre 2008 nn. 28145 e 28143).

Contemporaneamente deve ribadirsi, al riguardo, che il quesito di diritto di cui all’art. 366 bis c.p.c. deve compendiare:

a) la riassuntiva esposizione degli elementi di fatto sottoposti al giudice di merito;

b) la sintetica indicazione della regola di diritto applicata dal quel giudice;

c) la diversa regola di diritto che, ad avviso del ricorrente, si sarebbe dovuta applicare al caso di specie.

Di conseguenza, è inammissibile il ricorso contenente un quesito di diritto che si limiti a chiedere alla S.C. puramente e semplicemente di accertare se vi sia stata o meno la violazione di una determinata disposizione di legge o a enunciare il principio di diritto in tesi applicabile (Cass. 17 luglio 2008, n. 19769);

Conclusivamente, poichè a norma dell’art. 366-bis c.p.c. la formulazione dei quesiti in relazione a ciascun motivo del ricorso deve consentire in primo luogo la individuazione della regula iuris adottata dal provvedimento impugnato e, poi, la indicazione del diverso principio di diritto che il ricorrente assume come corretto e che si sarebbe dovuto applicare, in sostituzione del primo, è palese che la mancanza anche di una sola delle due predette indicazioni rende inammissibile il motivo di ricorso.

Infatti, in difetto di tale articolazione logico giuridica il quesito si risolve in una astratta petizione di principio o in una mera riproposizione di questioni di fatto con esclusiva attinenza alla specifica vicenda processuale o ancora in una mera richiesta di accoglimento del ricorso come tale inidonea a evidenziare il nesso logico giuridico tra singola fattispecie e principio di diritto astratto oppure infine nel mero interpello della Corte di legittimità in ordine alla fondatezza della censura così come illustrata nella esposizione del motivo (Cass. 26 gennaio 2010, n. 1528, specie in motivazione, nonchè Cass., sez. un., 24 dicembre 2009, n. 27368).

Facendo applicazione dei riferiti principi al caso di specie si osserva che i quesiti contenuti nel ricorso a illustrazione dei vari motivi del ricorso si esauriscono – in pratica – affermazioni assolutamente astratte e in alcun modo collegate alla fattispecie.

Specie tenuto presente, nell’ordine:

– da un lato, quanto al primo motivo, che lo stesso non investe la ratio decidendi della sentenza impugnata (questa ultima, infatti, che disatteso le eccezioni della società ricorrente totalmente prescindendo dalla L. n. 29 del 1990, art. 5 ma in puntuale applicazione del non equivoco dettato della L. 3 maggio 1982, n. 203, art. 25 secondo cui entro quattro anni dall’entrata in vigore della presente legge e, pertanto, entro il 6 maggio 1986 i contratti … di soccida con conferimento di pascolo e di soccida parziaria, ove vi sia conferimento di pascolo … sono convertiti in affitto a richiesta di una delle parti, avendo accertato che nella specie la richiesta della società SANNA è intervenuta ben oltre il 6 maggio 1986;

– dall’altro, quanto al secondo, si osserva che accolta la domanda, principale, spiegata dai concedenti era venuto meno qualsiasi loro interesse per l’esame delle difese svolte in via subordinata (all’eventuale accoglimento della eccezione di controparte) sì che era – comunque – precluso ai giudici di merito ogni indagine quanto alla astratta convertibilità del rapporto in questione (nella eventualità la domanda di conversione fosse stata tempestivamente introdotta). E’ vietato, infatti, al giudice compiere indagini dirette a una corretta soluzione di una questione giuridica astratta qualora questa non abbia riflessi pratici sulla soluzione adottata (cfr., ad esempio, Cass. 28 aprile 2006, n. 9877) e nella specie anche nella eventualità l’assunto sul punto dei C. fosse risultato infondato non per questo poteva essere adottata una soluzione, della lite, diversa da quella fatta propria dal primo e dal secondo giudice;

– in margine al terzo motivo, a prescindere dal considerare che in ispregio dell’obbligo di autosufficienza del ricorso per cassazione la società ricorrente ha omesso di trascrivere in ricorso il contenuto dei documenti che i giudici del merito hanno ritenuto tardivamente prodotti, è di palmare evidenza la estrema genericità, e quindi, la inammissibilità del quesito conclusivo. In realtà era onere della ricorrente indicare sia nel corpo del motivo, sia nel quesito conclusivo in quale occasione, cioè in quale udienza, rispetto al complessivo svolgimento del processo, aveva prodotto i documenti in questione.

3. Ritiene il Collegio di dovere fare proprio quanto esposto nella sopra trascritta relazione, specie tenuto presente che non è stata presenta alcuna replica alla stessa.

Il proposto ricorso, conclusivamente, deve essere dichiarato inammissibile, con condanna dei ricorrenti, in solido, al pagamento delle spese di questo giudizio di legittimità liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

LA CORTE dichiara inammissibile il ricorso;

condanna i ricorrenti, in solido, al pagamento delle spese di questo giudizio di cassazione, liquidate in Euro 200,00 oltre Euro 2.000,00 per onorari e oltre spese generali e accessori come per legge, in favore dei controricorrenti.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *