Cass. civ. Sez. lavoro, Ord., 28-01-2011, n. 2112 Contratto a termine Lavoro a termine Questioni di legittimità costituzionale

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo e motivi della decisione

1. Con ricorso al Tribunale di Pisa C.C. affermava l’illegittimità del termine di durata apposto al contratto del 17 agosto 2000, con cui la s.p.a. Poste italiane lo aveva assunto al lavoro, e la conseguente conversione del negozio in contratto a tempo indeterminato. Egli chiedeva perciò che la società, che si era avvalsa del termine e l’aveva estromesso dall’azienda, fosse condannata a riammetterlo in servizio ed a risarcirgli il danno da sospensione del rapporto di lavoro.

Il Tribunale rigettava la domanda ma la Corte di Firenze, in accoglimento dell’appello del C. , accertava il contratto a tempo indeterminato e condannava la società a riammettere il lavoratore in servizio ed a risarcirgli il danno, pari alle retribuzioni con accessori, a partire dal 26 settembre 2002, ossia dal giorno in cui egli aveva offerto le proprie prestazioni attraverso la comunicazione, anche alla datrice di lavoro, della richiesta del tentativo di conciliazione obbligatoria di cui all’art. 410 c.p.c..

Contro questa sentenza la s.p.a. Poste italiane proponeva ricorso per cassazione mentre il C. resisteva con controricorso.

Col primo motivo la ricorrente lamentava la violazione della L. 28 febbraio 1987, n. 56, art. 23; col secondo la violazione dell’art. 1362 c.c. e segg.; col terzo la violazione degli artt. 1217 e 1223 c.c.. In sintesi, essa rilevava come la Corte territoriale, dopo aver riconosciuto che il contratto a termine era stato concluso in base all’art. 8 c.c.n.l. del 1994, a sua volta stipulato ex L. n. 56 del 1987, avesse ritenuto tuttavia illegittimo il termine poichè l’autorizzazione della contrattazione collettiva all’apposizione era valida fino al 30 aprile 1998. In tal modo, osservava la ricorrente, la Corte non aveva tenuto conto che la citata legge aveva delegato le parti sociali ad individuare ipotesi ulteriori rispetto a quelle previste dalla legge per la stipulazione di contratti di lavoro temporanei e che tale delega era stata attuata dalla serie di contratti collettivi stipulati dal 1994 al 2001. La ricorrente deduceva in subordine che in ogni caso il lavoratore aveva mostrato tacitamente di voler sciogliere il contratto, avendo lasciato trascorrere circa due anni prima di chiederne il mantenimento.

Erroneamente, per di più, la Corte di merito non aveva sottratto all’ammontare del danno quanto percepito da lui per effetto del lavoro prestato nel frattempo per altro datore di lavoro.

RILEVANZA DELLE QUESTIONI DI LEGITTIMITA’ COSTITUZIONALE. 2. I motivi ora detti di ricorso per cassazione non appaiono fondati.

Le relative argomentazioni sono state più volte rigettate da questa Corte, la quale ha notato come l’autorizzazione alla stipula di contratti di lavoro temporanei fosse stata espressa dalle parti sociali, sulla base della L. n. 56 del 1987, art. 23, con c.c.n.l. del 1994, integrato dall’accordo 16 gennaio 1998, che ha posto un termine ultimo al 30 aprile 1998. Il termine apposto ai contratti individuali conclusi dopo questa data deve perciò considerarsi illegittimo ed il rapporto di lavoro opera a tempo indeterminato (ex multis Cass. n. 15331 del 2004). Nel caso di specie pertanto il lavoratore estromesso dall’azienda per la, erroneamente ritenuta, operatività del termine ha diritto al risarcimento del danno da perdita delle retribuzioni, da calcolare secondo le regole di diritto comune, come ha esattamente ritenuto la Corte d’appello sulla base delle norme vigenti nel momento di emissione della sua pronuncia.

Incensurabile è poi la valutazione di fatto espressa dalla stessa Corte, la quale ha negato gli elementi idonei a ravvisare la tacita manifestazione della volontà di risolvere il contratto.

Esattamente, infine, la Corte ha escluso l’aliunde perceptum per genericità del motivo di gravame e per difetto di prova.

3. Tuttavia la sentenza di condanna da essa emanata dovrebbe essere cacata. Infatti durante il giudizio di cassazione è entrato in vigore la L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, che innova in materia di contratto di lavoro a tempo determinato. Il comma 5 stabilisce che, nei casi in cui questo si converta in contratto a tempo indeterminato a causa dell’illegittima apposizione del termine, il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento in favore del lavoratore stabilendo un’indennità "onnicomprensiva" nella misura compresa tra un minimo di 2,5 e un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.

Il comma 6, dimezza questa indennità in presenza di contratti ovvero accordi nazionali, territoriali o aziendali, stipulati con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, che prevedano l’assunzione, anche a tempo indeterminato, di lavoratori già occupati con contratto a termine nell’ambito specifiche graduatorie. Il comma 7, precisa doversi applicare i commi ora detti a "tutti i giudizi, compresi quelli pendenti alla data di entrata in vigore della legge" (24 novembre 2010). Seguono disposizioni per eventuali, ulteriori accertamenti di fatto nella fase di merito.

4. Ritiene questo collegio che la sopra riportata espressione del comma 7 debba essere riferita altresì ai giudizi di cassazione, anche se le disposizioni si riferiscono espressamente al giudizio di merito.

Infatti la soluzione negativa, ossia l’esclusione della fase di cassazione dall’ambito di previsione della norma, equivarrebbe a discriminare tra situazioni diverse in base alla circostanza, del tutto accidentale, di una pendenza della lite giudiziaria (in una od altra fase) tra le parti del rapporto di lavoro. Più precisamente, la situazione sostanziale dei lavoratori sarebbe assoggettata ad un regime risarcitorio diverso, a seconda che i processi pendano nel merito oppure in cassazione. Discriminazione ritenuta illegittima dalla Corte cost. con sent. n. 214 del 2009, e tanto più grave quando si pensi che i lavoratori destinatari della nuova legge potrebbero dover restituire le retribuzioni percepite sulla base della sentenza di merito provvisoriamente eseguita, nella parte eccedente il massimo dell’indennità spettante.

5. Ciò comporta che la sentenza qui impugnata dovrebbe essere cassata con rinvio affinchè il giudice di merito, esercitati i poteri istruttori di cui al comma 7, determini l’indennità spettante, certamente in misura inferiore a quella dovuta ai sensi della normativa previgente, ossia dal 26 settembre 2002 fino alla riammissione al lavoro, che nella specie non risulta essere avvenuta.

Appare pertanto rilevante la questione di legittimità costituzionale dei suddetti commi 5 e 6, in riferimento agli artt. 3, 4, 24, 111 e 117 Cost., per le ragioni che di seguito si espongono.

NON MANIFESTA INFONDATEZZA DELLE QUESTIONI. 6. Sembra doversi anzitutto così ricostruire gli scopi perseguiti dal Legislatore.

A) E’ orientamento consolidato nella giurisprudenza di questa Corte che, nel caso in cui il datore di lavoro si sia avvalso di un termine illegittimamente apposto al contratto ed abbia perciò allontanato il dipendente dal posto di lavoro, così rendendosi inadempiente agli obblighi assunti con lo stesso contratto, non si applica la tutela reale di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 18. Il comportamento del datore non incide sulla continuità del rapporto, che rimane idoneo alla produzione dei propri effetti. Tuttavia, trattandosi di contratto a prestazioni corrispettive, ciò non comporta il diritto del lavoratore alla corresponsione delle retribuzioni che sarebbero maturate dall’inizio del periodo di inattività ma solo il diritto al risarcimento del danno, da determinarsi in base alle regole generali sull’inadempimento delle obbligazioni contrattuali, senza che sia necessaria una formale costituzione in mora del datore, occorrendo tuttavia e pur sempre che il lavoratore non abbia tenuto una condotta incompatibile con la volontà di proseguire il rapporto ed abbia messo a disposizione della controparte le proprie prestazioni lavorative (Cass. Sez. un. 8 ottobre 2002 n. 14381, Sez. lav. 18 febbraio 2003 n. 2392,18 maggio 2006 n. 11670).

B) Quanto alla determinazione quantitativa del danno derivante dall’inadempimento di un contratto di durata, essa dipende da scelte discrezionali dei giudici di merito nell’applicazione degli artt. 1223, 1224, 1226 e 1227 c.c..

In particolare, nel contratto di lavoro subordinato, il danno sopportato dal lavoratore, che non ha percepito la retribuzione per essere stato illegittimamente privato dal datore della possibilità di eseguire la prestazione lavorativa e non gode della tutela dell’art. 18 stat. lav., dev’essere liquidato:

a) attenendosi ai criteri dell’art. 1223 cit., che prescrive di comprendere nel danno la perdita delle retribuzioni, sottraendo però quanto il lavoratore abbia frattanto ed eventualmente percepito per avere eseguito un altro lavoro, in posizione di subordinazione o di autonomia (c.d. aliunde perceptum). La prova dell’esecuzione di quest’altro lavoro è a carico del datore, tenuto al risarcimento. b) Essendo il danno pari alle retribuzioni non percepite, per le parti di retribuzione legate a prestazioni effettive e meramente eventuali (ad es. per prestazioni saltuarie, per lavoro straordinario, ecc), il danno, solamente ipotetico, non può che essere limitato alla perdita della possibilità di guadagno (perte de chance), da liquidare con valutazione equitativa (art. 1226 cit.) e perciò variabile a seconda dei giudici. c) Il danno è dovuto a partire dal momento in cui il lavoratore abbia posto a disposizione del datore le proprie energie lavorative ossia dal momento in cui abbia offerto formalmente la propria prestazione, potendo nascere incertezze interpretative in ordine alla concreta idoneità della forma, d) Trattandosi di azione di nullità del termine apposto al contratto di lavoro e quindi di azione imprescrittibile, il lavoratore, prima dell’entrata in vigore dell’art. 32 cit., comma 3, lett. d., poteva prolungare sine die il tempo dell’azione di nullità e per dieci anni (art. 2946 c.c.) quello dell’azione risarcitoria; dopo la entrata in vigore del comma 3 ora cit., entro il termine di decadenza ivi previsto. Egli può così aumentare la misura del danno, esponendosi bensì all’eccezione di concorso del creditore nel fatto colposo (art. 1227 cit.), il cui ammontare verrebbe però ad essere ridotto dal giudice secondo criteri discrezionali e perciò, ancora una volta, variabili. Tutto ciò può dar luogo, per l’impresa obbligata a centinaia di risarcimenti, ad esborsi di misura non prevedibile e perciò ad incertezza sui bilanci preventivi, che si traduce in un grave pregiudizio patrimoniale. A questa incertezza sembra aver voluto porre rimedio il legislatore del 2010, unificando il criterio di liquidazione del danno dovuto ai lavoratori. Ancora, la legge sembra destinata, come altre precedenti nella materia, ad arginare l’eccessivo ampliamento di organico delle imprese, dovuto alla conversione a tempo indeterminato di numerosi contratti di lavoro a termine.

7. Considerate queste rationes legis, non pare potersi seguire la tesi, proposta da una parte della dottrina, secondo cui l’indennità in questione non escluderebbe il (ma anzi dovrebbe aggiungersi al) risarcimento del danno, sopportato dal datore e da liquidare secondo le sopra dette regole di diritto comune. Anche l’espressione "onnicomprensiva", adoperata dal Legislatore, acquista significato solo escludendo qualsiasi altro credito del lavoratore, indennitario o risarcitorio.

8. E’ ancora da premettere che la liquidazione di un’indennità contenuta in poche mensilità retributive non sembra contrastare con l’art. 3 Cost., comma 1, a causa del trattamento sfavorevole riservato al lavoratore precario, unico contraente spogliato della pienezza dei rimedi previsti dalla disciplina generale dei contratti.

Le sopra dette ragioni dell’intervento legislativo in questione bastano a giustificare la diversità di trattamento ossia il sacrificio imposto alla parte del contratto a termine.

Il comma 5 in questione non contrasta neppure con l’art. 36 Cost., comma 1, poichè esso ha per oggetto un’indennità, sia pure misurata sull’ammontare della retribuzione, ma non una retribuzione da corrispondere per lavoro effettivamente prestato.

9. Non è, per contro, manifestamente infondato il dubbio di contrasto fra i commi 5 e 6, della L. n. 183 del 2010, art. 32, ed i principi di ragionevolezza nonchè di effettività del rimedio giurisdizionale, espressi nell’art. 3 Cost., comma 2, artt. 24 e 111 Cost.. Le dette disposizioni delle legge sembrano anche ledere il diritto al lavoro, riconosciuto a tutti i cittadini dall’art. 4 Cost..

Il danno sopportato dal prestatore di lavoro a causa dell’illegittima apposizione del termine al contratto è pari almeno alle retribuzioni perdute dal momento dell’inutile offerta delle proprie prestazioni e fino al momento dell’effettiva riammissione in servizio. Fino a questo momento, spesso futuro ed incerto durante lo svolgimento del processo e non certo neppure quando viene emessa la sentenza di condanna, il danno aumenta col decorso del tempo ed appare di dimensioni anch’esse non esattamente prevedibili. Il rimedio apprestato dall’art. 32, commi 5 e 6, in questione non può essere assimilato all’indennità prevista dalla L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 8, ed alternativa all’obbligo di riassunzione. L’ipotesi dell’art. 8 non riguarda il ristoro di un danno derivante dalla non attuazione di un rapporto di durata, ossia di un danno di un ammontare che aumenta col trascorrere del tempo, giacchè il diritto all’indennità esclude il diritto al mantenimento del rapporto.

La liquidazione di un’indennità eventualmente sproporzionata per difetto rispetto all’ammontare del danno può indurre il datore di lavoro a persistere nell’inadempimento, eventualmente tentando di prolungare il processo oppure sottraendosi all’esecuzione della sentenza di condanna, non suscettibile di realizzazione in forma specifica. Nè verrebbe risarcito il danno derivante da una sopravvenuta impossibilità della prestazione lavorativa, causata dal rifiuto del datore.

Tutto ciò vanifica il diritto del cittadino al lavoro (art. 4 Cost.) e nuoce all’effettività della tutela giurisdizionale, con danno che aumenta con la durata del processo, in contrasto con il principio affermato da quasi secolare dottrina processualista, oggi espresso dall’art. 24 Cost., e art. 111 Cost., comma 2, e che esige l’esatta, per quanto materialmente possibile, corrispondenza tra la perdita conseguita alla lesione del diritto soggettivo ed il rimedio ottenibile in sede giudiziale.

10. Sembra altresì sussistere un contrasto con l’art. 117 Cost., comma 1, per violazione dell’obbligo internazionale assunto dall’Italia con la sottoscrizione e ratifica della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, il cui art. 6, comma 1, nel volere il diritto di ogni persona al giusto processo, impone al potere legislativo di non intromettersi nell’amministrazione della giustizia allo scopo di influire sulla decisione di una singola controversia o su un gruppo di esse. La Corte costituzionale con sent. n. 311 del 2009 ha escluso che l’incidenza di una norma retroattiva su processi in corso si ponga automaticamente in contrasto con la Convenzione cit..

Tuttavia nella medesima sentenza la Corte ha precisato, sulla base della giurisprudenza della Corte EDU, che detta incidenza può ritenersi giustificata solo da ragioni imperative di interesse generale. Ciò avviene quando il legislatore nazionale sia indotto all’emanazione di una norma di interpretazione autentica e perciò retroattiva, destinata ad operare anche nei processi pendenti e dettata dall’esigenza di accertare l’originaria intenzione del legislatore; oppure dalla necessità di ristabilire la parità di trattamento di situazioni analoghe nei rapporti di lavoro pubblico; o ancora, di rimediare ad un’imperfezione tecnica della legge interpretata (vedi anche Corte cost. sent. n. 1 del 2011).

A questo collegio sembra, anche in considerazione delle rationes legis qui indicate nel par. 6, che le disposizioni legislative ora impugnate possano bensì ritenersi dettate da motivi di opportunità economica, ma non da ragioni "imperative" di interesse generale. Nè vi sono necessità parificatrici in rapporti di lavoro pubblico, giacchè le disposizioni sono di applicazione generale in ambito privatistico. Non erano infine di dubbia interpretazione o tecnicamente imperfette le norme di diritto comune in tema di risarcimento del danno subito dal lavoratore, come costantemente interpretate dalla giurisprudenza lavoristica.

E’ vero che alcune delle imprese private, come quella attualmente in causa, possono rendere un servizio di interesse generale, ma rimane dubbio che perdite economiche derivate da un comportamento illegittimo dell’imprenditore possano essere legittimamente concentrate sui lavoratori dipendenti.

11. Il contrasto delle disposizioni legislative in questione col diritto del cittadino al lavoro, di cui all’art. 4 Cost., è reso manifesto anche dalla non aderenza di esse alla giurisprudenza comunitaria. La sproporzione fra la tenue indennità ed il danno, che aumenta con la permanenza del comportamento illecito del datore di lavoro, sembra contravvenire all’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, concluso il 18 marzo 1999 ed allegato alla direttiva 1999/70, che impone agli Stati membri di "prevenire efficacemente l’utilizzazione abusiva di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato… ossia misure che devono rivestire un carattere non soltanto proporzionato, ma anche sufficientemente effettivo e dissuasivo per garantire la piena efficacia delle norme adottate in attuazione dell’accordo quadro" (Corte CE sent. e. 212/04, Adeneler) "Ne consegue che, qualora si sia verificato un ricorso abusivo a contratti di lavoro a tempo determinato successivi, si deve poter applicare una misura che presenti garanzie effettive ed equivalenti di tutela dei lavoratori al fine di sanzionare debitamente tale abuso ed eliminare le conseguenze della i violazione del diritto comunitario" (Corte CE sent. da C 378/07 a C 380/07, Angelidaki).

12. A rafforzamento degli argomenti sopra svolti sembra opportuno ricordare che l’art. 614 bis c.p.c., – che sanziona la non attuazione degli obblighi di fare infungibile o di non fare giudizialmente accertati attraverso una condanna al pagamento di una somma di denaro, dovuta per ogni violazione o inosservanza successiva ovvero per ogni ritardo nell’esecuzione del provvedimento giudiziale – è stato assai severamente criticato dalla dottrina nella parte in cui esso è dichiarato espressamente non applicabile alle controversie di lavoro, ed alle critiche si è potuto contrapporre da altra dottrina solamente il regime di tutela reale disposto dalla L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 18, sufficiente a tutelare il lavoratore che abbia ottenuto una sentenza di condanna ad un fare infungibile, a carico del datore di lavoro. Ivi è infatti prevista, in conseguenza della dichiarazione di inefficacia o di nullità, oppure di annullamento, del licenziamento, la condanna del datore alla reintegrazione del lavoratore ed al risarcimento del danno attraverso un’indennità commisurata alla retribuzione dal giorno del licenziamento fino "al momento dell’effettiva reintegrazione". Ebbene, i commi 5 e 6, i questione escludono ogni tutela reale e lasciano così la possibile, grave sproporzione fra indennità e danno effettivo, connesso al perdurare dell’illecito.

13. Con riferimento alla controversia qui in esame, facente parte di una nutrita serie, la limitazione dell’indennità a dodici mesi,o meno (vedi comma 6), non sembra poter trovare giustificazione nel fine, perseguito dal Legislatore, di evitare la perdita patrimoniale che deriverebbe all’impresa dal risarcimento di danni di notevole entità a numerosi lavoratori. L’entità del danno dev’essere imputata alla stessa impresa, che avrebbe potuto attenuarlo attraverso l’esecuzione delle sentenze di condanna ai sensi dell’art. 431 c.p.c., e, nei casi in cui era possibile con la prova dell’aliunde perceptum.

Nei casi, poi, in cui il lavoratore non abbia potuto trovare un’altra occupazione, ossia un’altra fonte di reddito, il danno personale e familiare, tanto più grave, non appare suscettibile di bilanciamento.

P.Q.M.

La Corte di cassazione dichiara non manifestamente infondate le questioni di legittimità costituzionale della L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, commi 5 e 6, con riferimento agli artt. 3, 4, 24, 111 e 117 Cost.

Dispone la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale e sospende il giudizio in corso.

Dispone che la presente ordinanza sia notificata alle parti, al Presidente del Consiglio dei ministri ed ai Presidenti della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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