Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 27-01-2011, n. 1927 Contratto a termine

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con ricorso notificato il 21-28 febbraio 2007, la s.p.a. Poste Italiane chiede con un unico articolato motivo, la cassazione della sentenza depositata il 6 settembre 2006 e notificata il 22 febbraio 2007, con la quale la Corte d’appello di Torino ha confermato la decisione del giudice di primo grado, che aveva condannato la società, a seguito dell’accertamento della nullità del termine apposto – ai sensi dell’art. 8 del CCNL 26 novembre 1994 così come integrato dall’accordo 25 settembre 1997 "per esigenze eccezionali conseguenti alla fase di ristrutturazione e rimodulazione degli assetti occupazionali in corso, in ragione della graduale introduzione di nuovi processi produttivi di sperimentazione di nuovi servizi ed in attuazione del progressivo completo equilibrio sul territorio delle risorse umane" – al contratto di lavoro intercorso con M.D. decorrente dal 22 giugno 1999, a risarcire alla lavoratrice il danno, rapportato alle retribuzioni perdute dal 31 marzo 2004.

In particolare, la società ricorrente deduce la violazione ed erronea applicazione della L. n. 56 del 1987, art. 23; dell’art. 1362 c.c., e segg., nonchè il vizio di motivazione nella interpretazione dell’accordo del 25 settembre 1997, integrativo del C.C.N.L. 26 novembre 1994 e dei verbali di intesa sindacale successivi.

Alle domande della società ha resistito con controricorso la lavoratrice.

Ambedue le parti hanno depositato una memoria.

Motivi della decisione

Il ricorso è infondato.

I giudici di merito hanno infatti motivato il rigetto dell’appello con due considerazioni autonome:

– alla stregua dell’art. 8 del C.C.N.L. del 1994, come integrato dall’accordo nazionale del 25 settembre 1997, le "esigenze eccezionali" giustificherebbero l’apposizione di un termine finale al rapporto di lavoro unicamente nel caso in cui esista – e ne sia data prova in giudizio, in caso di contestazione da parte del lavoratore – un collegamento causale tra il generale processo di ristrutturazione indicato dalle Poste e il singolo contratto di lavoro;

– comunque gli accordi attuativi del 1997 e 1998 citati in sentenza, stabilirebbero un termine finale di efficacia alla causale giustificativa dell’apposizione di un termine al contratto di lavoro – di origine contrattuale collettiva (come consentito dalla L. n. 56 del 1987, art. 23) – relativa alle esigenze legate alla ristrutturazione aziendale, termine che sarebbe scaduto il 30 aprile 1998 e quindi in data antecedente a quella dei contratti di lavoro esaminati.

Va in proposito rilevato che il ricorso investe con le proprie censure unicamente la prima motivazione, limitandosi quanto alla seconda a generici richiami alla erroneità dell’adozione di una motivazione simile da parte della prevalente giurisprudenza.

Con riguardo al secondo argomento, va comunque ricordato che, secondo formai consolidata giurisprudenza di questa Corte (cfr. Cass. S.U. n. 4588/06 e le successive conformi della sezione lavoro, tra le quali, da ultimo, Cass. n. 6913/09), la L. 28 febbraio 1987, n. 56, art. 23, ha operato una sorta di "delega in bianco" alla contrattazione collettiva ivi considerata, quanto alla individuazione di ipotesi ulteriori di legittima apposizione di un termine al contratto di lavoro, sottratte pertanto a vincoli di conformazione derivanti dalla L. n. 230 del 1962, e soggette unicamente ai limiti e condizionamenti contrattualmente stabiliti.

Siffatta individuazione di ipotesi aggiuntive può essere operata anche direttamente, attraverso l’accertamento da parte dei contraenti collettivi di determinate situazioni di fatto e la valutazione delle stesse come idonea causale del contratto a termine (cfr., ad es., Cass. 20 aprile 2006 n. 9245 e 4 agosto 2008 n. 21063). Ne consegue la infondatezza della prima delle due considerazioni autonome poste a fondamento della decisione della Corte territoriale; che non ne comporta comunque la cassazione, in quanto la seconda di tali motivazioni (comunque solo genericamente censurata dalla società) è viceversa pienamente corretta.

Ed invero, con l’accordo sindacale del 25 settembre 1997, sottoscritto dai tre maggiori sindacati nazionali, era stata introdotta nel testo dell’art. 8, comma 2 del C.C.N.L. del 1994, quale ulteriore ipotesi di legittima apposizione del termine al contratto di lavoro (oltre quelle originariamente previste ai sensi della L. n. 56 del 1987, art. 23) il caso di "esigenze eccezionali conseguenti alla fase di ristrutturazione e rimodulazione degli assetti occupazionali in corso, quale condizione per la trasformazione della natura giuridica dell’ente ed in ragione della graduale introduzione di nuovi processi produttivi di sperimentazione di nuovi servizi e in attesa dell’attuazione del progressivo e completo equilibrio sul territorio delle risorse umane".

Inoltre, in pari data, le medesime parti collettive avevano stipulato un accordo attuativo, col quale si davano atto che fino al 31 gennaio 1998 l’impresa versava nelle condizioni legittimanti la stipula del contratto a termine per affrontare il processo di ristrutturazione e con successivi accordi attuativi avevano accertato che tali condizioni erano proseguite fino al 30 aprile 1998.

Orbene, con numerose sentenze questa Corte suprema (cfr., per tutte, Cass. 14 febbraio 2004 n. 2866, 28 novembre 2008 n. 28450 e 20 marzo 2009 n. 6913), decidendo in ordine a fattispecie analoghe alla presente, coinvolgenti l’interpretazione delle norme contrattuali collettive indicate, ha ripetutamente confermato, con orientamento ormai consolidato (anche in sede di diretta interpretazione delle norme del contratto collettivo nazionale di lavoro, in forza della disciplina introdotta dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40), le decisioni dei giudici di merito che hanno dichiarato illegittimo il termine apposto dopo il 30 aprile 1998 a contratti di lavoro stipulati in base alla previsione di cui all’accordo integrativo del 25 settembre 1997 e cassato le poche decisioni di segno opposto.

Pur negando, sulla base della considerazione dell’autonomia delle ipotesi aggiuntive la cui previsione è affidata ai contraenti collettivi indicati, la necessità che quella di cui all’accordo in questione debba essere istituzionalmente contenuta in limiti temporali predeterminati, questa Corte ha ritenuto corretta l’interpretazione dei giudici di merito secondo cui, con riferimento al distinto accordo attuativo sottoscritto in pari data e ai successivi accordi attuativi sottoscritti in data 16 gennaio 1998 e in data 27 aprile 1998, le parti avevano convenuto di limitare il riconoscimento della sussistenza della situazione descritta nell’accordo integrativo unicamente fino al 31 gennaio e poi fino al 30 aprile 1998, per cui, per far fronte alle esigenze in tale sede indicate, l’impresa poteva procedere ad assunzioni di personale con contratto a tempo determinato unicamente fino al 30 aprile 1998, con la conseguente illegittimità dei contratti stipulati successivamente a tale data.

Tale uniforme giurisprudenza di questa Corte ha infatti rilevato che siffatta interpretazione:

– non viola il canone ermeneutico che rimanda al significato letterale degli accordi, laddove questo è stato valutato dai giudici di merito come evidente ed univoco e quindi non necessitante di un più diffuso ragionamento al fine della ricostruzione della volontà delle parti;

– è comunque rispettosa del canone di cui all’art. 1367 c.c., a norma del quale, nel dubbio, il contratto o le singole clausole devono interpretarsi nel senso in cui possano avere qualche effetto, anzichè in quello secondo cui non ne avrebbero alcuno, in quanto ritenendo che gli accordi attuativi non avrebbero inteso introdurre limiti temporali alla deroga, essi risulterebbero privi di un qualunque utile effetto;

– appare altresì corretta laddove ha ritenuto irrilevante, nella ricostruzione della volontà delle parti, l’accordo del 18 gennaio 2001 in quanto stipulato dopo oltre due anni dalla scadenza dell’ultima proroga e quindi quando il diritto del lavoratore alla stabilità del rapporto si era già perfezionato.

Da tali conclusioni della giurisprudenza non vi è ora ragione di discostarsi, in quanto le opposte valutazioni sviluppate nelle difese della ricorrente sono sorrette da argomenti ripetutamente scrutinati nelle molteplici occasioni ricordate e non appaiono comunque talmente evidenti e gravi da esonerare la Corte dal dovere di fedeltà ai propri precedenti (ancorchè non intesi nel caso di specie in senso tecnico, trattandosi della interpretazione di contratti collettivi di diritto comune, il cui controllo in sede di legittimità non è diretto, come poi stabilito per le sentenze depositate successivamente al 1 marzo 2006 dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 2 e art. 27, comma 2), sul quale si fonda per larga parte l’assolvimento della funzione ad essa affidata di assicurare l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge.

La decisione impugnata, relativa all’accertata illegittimità della clausola appositiva del termine al contratto di lavoro della resistente per la causale indicata, in quanto stipulati successivamente alla data del 30 aprile 1998, si sottrae pertanto alle censure svolte dalla ricorrente, sopra riassunte.

Con la memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c., la società ricorrente, invoca, in via subordinata, quanto alle conseguenze economiche della dichiarazione di nullità della clausola appositiva del termine, l’applicazione dello ius superveniens, rappresentato dalla L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, commi 5, 6 e 7, in vigore dal 24 novembre 2010, del seguente tenore:

"Nei casi di conversione del contratto a tempo determinato, il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del lavoratore stabilendo una indennità omnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nella L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 8.

In presenza di contratti ovvero accordi collettivi nazionali, territoriali o aziendali, stipulati con le OO.SS. comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, che prevedano l’assunzione, anche a tempo indeterminato, di lavoratori già occupati con contratto a termine nell’ambito di specifiche graduatorie, il limite massimo dell’indennità fissata dal comma 5 è ridotto alla metà.

Le disposizioni di cui ai commi 5 e 6 trovano applicazione per tutti i giudizi, ivi compresi quelli pendenti alla data di entrata in vigore della presente legge. Con riferimento a tali ultimi giudizi, ove necessario, ai soli fini della determinazione della indennità di cui ai commi 5 e 6, il giudice fissa alle parti un termine per l’eventuale integrazione della domanda e delle relative eccezioni ed esercita i poteri istruttori ai sensi dell’art. 421 cod. proc. civ.".

Con riguardo alla richiesta della società, contrastata dalla difesa dell’intimata e a prescindere dall’esame delle obiezioni da quest’ultima svolte in ordine alla problematica relativa alla possibilità di ricomprendere tra i giudizi pendenti cui il comma 7 ora riportato applica i precedenti commi 5 e 6 anche il giudizio di cassazione, va premesso che costituisce condizione necessaria per poter applicare nel giudizio di legittimità lo ius superveniens che abbia introdotto, con efficacia retroattiva una nuova disciplina del rapporto controverso, il fatto che quest’ultima sia in qualche modo pertinente rispetto alle questioni oggetto di censura nel ricorso, in ragione della natura del controllo di legittimità, il cui perimetro è circoscritto dagli specifici motivi di ricorso (cfr. Cass. 8 maggio 2006 n. 10547).

In particolare, con riferimento alla disciplina qui invocata, la necessaria sussistenza della questione ad essa pertinente nel giudizio di cassazione presuppone che i motivi di ricorso investano specificatamente le conseguenze patrimoniali dell’accertata nullità del termine, in quanto il rigetto dei motivi inerenti la questione della ritenuta nullità del termine e della conversione del contratto a tempo indeterminato determina la stabilità delle statuizioni di merito relative a tali conseguenze.

Nè può fondatamente sostenersi che il motivo di ricorso per cassazione avente ad oggetto la nullità del termine apposto al contratto di lavoro ed il conseguente diritto del lavoratore al risarcimento del danno impedisca la formazione del giudicato e perciò comporti la possibilità di decidere nuovamente sul capo di sentenza, pur non investito da specifica impugnazione, avente ad oggetto l’ammontare del danno.

Questo capo di sentenza non impugnato è ormai immutabile quanto all’ammontare del debito, mentre l’accoglimento dell’impugnazione concernente il diritto al risarcimento avrebbe comportato soltanto l’automatica caducazione di detto capo. Nell’eventualità in cui venga accolta l’impugnazione sull’an debeatur, si parla infatti di giudicato apparente sul capo impugnato (Cass. 26 aprile 1997 n. 3724, 31 gennaio 2006 n. 2125). Si tratta dunque di capo di sentenza distinto, ancorchè dipendente nei sensi dell’art. 336 c.p.c.. In questa sede rileva soltanto l’immutabilità del quantum debeatur, vale a dire l’inapplicabilità in ogni caso della L. n. 183 del 2010, art. 32.

La sopravvivenza della questione sul quantum presuppone in conclusione che nel caso in esame non può essere invocata la nuova disciplina retroattiva contenuta nelle norme citate della L. n. 183 del 2010.

Concludendo, il ricorso va pertanto respinto, con ogni conseguenza di legge, anche in ordine al regolamento delle spese di questo giudizio di cassazione, come operato in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente a rimborsare alla resistente le spese di questo giudizio, liquidate in Euro 15,00 per esborsi ed Euro 2.000,00, oltre accessori di legge, per onorari.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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