Cass. civ. Sez. I, Sent., 24-01-2011, n. 1616 Diritti politici e civili

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. – Con decreto del 6 giugno 2008, la Corte d’Appello di Campobasso ha rigettato la domanda di equa riparazione proposta da A. N. nei confronti del Ministero della Giustizia per la violazione del termine di ragionevole durata del processo, verificatasi in un giudizio promosso dal ricorrente nei confronti di As.

N. per ottenere il rendiconto ed il risarcimento dei danni per inadempimento di un contratto di società.

Premesso che il giudizio presupposto, introdotto nell’anno 1986 dinanzi al Tribunale di Pescara, si era concluso dinanzi alla Corte d’Appello di L’Aquila nell’anno 2006, la Corte ha ritenuto che, essendo la causa complessa e di non semplice soluzione, il periodo di tempo eccedente la durata ragionevole, non giustificabile in quanto dipendente da problemi organizzativi di carattere generale, fosse stimabile in dodici anni, nove mesi e cinque giorni. Ciò posto, ha ritenuto tuttavia insussistente il danno non patrimoniale, osservando che l’ansia ed il malessere correlati all’incertezza sull’esito della lite erano esclusi nella specie dalla piena consapevolezza del ricorrente in ordine all’infondatezza della pretesa azionata, chiaramente emergente dalle sentenze di primo grado e di appello, con cui la domanda era stata rigettata. Per lo stesso motivo, ha escluso la sussistenza di un danno patrimoniale, dedotto peraltro in termini generici e rimasto comunque indimostrato.

2. – Avverso il predetto decreto l’ A. propone ricorso per cassazione, articolato in tre motivi. Il Ministero della Giustizia resiste con controricorso.

Motivi della decisione

1. – Con il primo motivo d’impugnazione, il ricorrente denuncia la violazione o falsa applicazione della L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 2 osservando che la Corte d’Appello, pur avendo riconosciuto l’irragionevole durata del processo, ha erroneamente escluso la sussistenza del danno in virtù dell’esito della controversia, sfavorevole ad esso ricorrente, laddove l’art. 2 cit. considera del tutto ininfluente, ai fini dell’equa riparazione, che la parte abbia vinto o perso la causa, ove per ottenerne la definizione sia stata costretta ad attendere per un tempo irragionevole.

Essa, inoltre, dopo aver affermato che la causa era complessa e di non semplice soluzione, e pur avendo rilevato che nel corso del giudizio vi era stata la riunione di due procedimenti, era stato disposto un sequestro conservativo ed erano state espletate più c.t.u.. ha ritenuto che la domanda fosse palesemente infondata, pur in assenza di circostanze dalle quali potesse desumersi la temerarietà dell’iniziativa giudiziaria, la cui prova sarebbe stata peraltro a carico del Ministero.

2. – Con il secondo motivo, il ricorrente deduce la violazione o falsa applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 2 censurando il decreto impugnato nella parte in cui ha ritenuto di non dover liquidare alcuna somma a titolo di danno non patrimoniale, sebbene lo stesso debba considerarsi conseguenza normale della violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, a causa dell’incertezza e dello stato di prolungata ansia derivante dall’attesa dell’esito del giudizio.

3. – I due motivi, da esaminarsi congiuntamente per la stretta connessione delle censure sollevate, sono fondati.

Secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, il diritto all’equa riparazione di cui alla L. n. 89 del 2001, art. 2 spetta infatti a tutte le parti del processo, indipendentemente dal fatto che esse siano risultate vittoriose o soccombenti, in quanto l’eccessiva durata del giudizio comporta a carico delle stesse quanto meno ansia e sofferenza, quali riflessi psicologici del perdurare dell’incertezza in ordine alle posizioni giuridiche coinvolte, fatta eccezione per il caso in cui il soccombente abbia promosso una lite temeraria, o abbia artatamente resistito in giudizio al solo fine di perseguire proprio il perfezionamento della fattispecie di cui al richiamato art. 2, e dunque in difetto di una condizione soggettiva di incertezza (cfr.

Cass., Sez. 1^, 20 agosto 2010, n. 18780; 26 aprile 2010, n. 9938).

Al di fuori di queste circostanze (la cui prova è a carico dell’Amministrazione, non essendo sufficiente la deduzione che la domanda della parte sia stata dichiarata manifestamente infondata), l’esito sfavorevole della lite non è di per sè idoneo ad escludere la fondatezza della pretesa indennitaria azionata dalla parte che abbia dovuto sopportare l’eccessiva durata della causa, ma può soltanto incidere in senso riduttivo sulla misura dell’indennizzo, allorchè la domanda sia stata proposta in un contesto tale da renderla, se non temeraria, comunque fortemente aleatoria (cfr.

Cass., Sez. 1, 30 agosto 2010, n. 18875; 13 novembre 2009. n. 24107).

3.1. – Quanto alla prova del danno non patrimoniale, questa Corte ha ripetutamente affermato che esso costituisce una conseguenza normale, ancorchè non automatica e necessaria, della violazione del diritto alla ragionevole durata de processo, di cui all’art. 6 della Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo, e che pertanto, pur dovendo escludersi la configurabilità di un danno non patrimoniale in re ipsa, ossia di un pregiudizio automaticamente e necessariamente insito nell’accertamento della violazione, il giudice, una volta accertata e determinata l’entità della stessa secondo le norme della L. n. 89 del 2001, deve ritenere sussistente il danno in questione, salvo che non ricorrano nel caso concreto circostanze tali da far positivamente escludere che il ricorrente lo abbia subito, come tipicamente avviene, ad esempio, nell’ipotesi in cui la parte sia fin dall’origine consapevole dell’inconsistenza delle proprie tesi, ovvero quando il protrarsi del giudizio appaia rispondente ad uno specifico interesse della parte o sia comunque destinato a produrre conseguenze che la parte stessa percepisce come a sè favorevoli (cfr. Cass., Sez. 1, 26 settembre 2008, n. 24269; 18 giugno 2007, n. 14053).

3.2. – La Corte d’Appello, pur mostrando di conoscere i predetti principi, non vi si è poi attenuta nella decisione, in quanto, dopo aver preso atto dell’eccessiva durala del giudizio presupposto, ha rigettato la domanda di equa riparazione del danno non patrimoniale in virtù della mera constatazione che la domanda giudiziale proposta dal ricorrente era stata rigettata sia in primo grado che in appello.

A fondamento di tale rilievo, dal quale ha desunto che il ricorrente era pienamente consapevole dell’infondatezza della propria pretesa, ha riportato alcuni passaggi delle sentenze emesse nel giudizio presupposto, dai quali però non si evince affatto che la domanda proposta dall’ A. fosse temeraria, ma solo che le sue tesi difensive erano rimaste del tutto sfornite di prova. La stessa Corte d’Appello ha peraltro rilevato che in primo grado il ricorrente aveva chiesto ed ottenuto un sequestro conservativo, poi non convalidato, ma la cui autorizzazione, presupponendo l’accertamento del fumus boni juris, si pone in contrasto con le conclusioni cui è pervenuto il decreto impugnato.

4. – E’ invece infondato il terzo motivo, con cui il ricorrente deduce la violazione o falsa applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 2 censurando il decreto impugnato nella parte in cui ha negato l’equa riparazione del danno patrimoniale, in mancanza della prova del pregiudizio da lui subito, e sostenendo che il diritto all’equa riparazione è ancorato all’accertamento della violazione dell’art. 6, par. 1, della CEDU, la quale si configura come evento ex se lesivo del diritto della persona alla definizione del procedimento in una durata ragionevole.

4.1. – La L. n. 89 del 2001, nel ricollegare l’equa riparazione alla mera constatazione dell’avvenuto superamento del termine di ragionevole durata del processo, attribuisce alla relativa obbligazione natura indennitaria, la quale esclude la necessità di una verifica in ordine all’elemento soggettivo della violazione. non vertendosi in tema di obbligazione ex delicto, ma non comporta alcun automatismo attributivo in favore del soggetto che lamenti l’inosservanza dell’art. 6, par. 1, della CEDU, non configurandosi il pregiudizio indennizzabile come danno evento, riconducibile al fatto in sè dell’irragionevole protrazione del processo, con la conseguenza che al ricorrente incombe l’onere di fornire la prova della lesione della propria sfera patrimoniale prodottasi quale conseguenza diretta ed immediata della violazione, sulla base di una normale sequenza causale (cfr. in riferimento a danno non patrimoniale, Cass., Sez. 1^, 8 maggio 2006. n. 10485; 11 marzo 2006, n. 5386; Cass., Sez. 1^, 30 marzo 2005, n. 6714).

5. – Il decreto impugnato va pertanto cassato, in relazione ai motivi accolli, con il conseguente rinvio della causa alla Corte d’Appello di Campobasso, che provvederà, in diversa composizione, anche alla liquidazione delle spese relative alla presente fase.

P.Q.M.

LA CORTE accoglie il ricorso per quanto di ragione, cassa il decreto impugnato e rinvia alla Corte di Appello di Campobasso. in diversa composizione, anche per la liquidazione delle spese relative alla presente fase.

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