Cass. civ. Sez. I, Sent., 24-01-2011, n. 1614 Diritti politici e civili

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. – Con decreto del 25 gennaio 2007, la Corte d’Appello di Campobasso ha accolto la domanda di equa riparazione proposta da T.V. nei confronti del Ministero della Giustizia per la violazione del termine di ragionevole durata del processo, verificatasi in un giudizio di divisione ereditaria promosso dal ricorrente dinanzi al Tribunale di Avezzano.

Premesso che il giudizio presupposto, non ancora conclusosi in primo grado nonostante siano trascorsi ventotto anni dalla proposizione della domanda, presenta aspetti di non scarsa complessità, ha determinato in diciassette anni il periodo eccedente la ragionevole durata, escludendo dal computo il tempo corrispondente ai rinvii di udienza determinati dal mancato espletamento dell’incarico da parte di un primo c.t.u., dalla rinuncia all’incarico di un altro c.t.u. successivamente nominato e dall’attesa del deposito della relazione da parte di un terzo c.t.u., nonchè quello corrispondente ai rinvii determinati da impedimenti dell’ufficio ed agli annuali periodi di sospensione feriale. Ha quindi ritenuto che il predetto ritardo abbia arrecato ansia e sofferenza all’interessato, liquidando il ristoro del danno non patrimoniale in Euro 17.000,00, oltre interessi legali dalla domanda.

2. – Avverso la predetta sentenza il T. propone ricorso per cassazione, affidato ad un solo motivo. Il Ministero della Giustizia resiste con controricorso, proponendo a sua volta ricorso incidentale, articolato in due motivi.

Motivi della decisione

1. – Preliminarmente, va disposta la riunione dei ricorsi, aventi ad oggetto l’impugnazione del medesimo provvedimento.

2. – Con l’unico motivo d’impugnazione, il ricorrente denuncia la violazione e la mancata applicazione della L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 2 degli artt. 1223, 1226, 1227 e 2056 cod. civ. e degli artt. 6, par. 1. e 13 della Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo, nonchè l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia.

Premesso che il ristoro va commisurato all’intera durata del giudizio presupposto, sostiene che la Corte d’Appello ha illegittimamente sottratto da tale durata il tempo corrispondente ai rinvii chiesti dalle parti per adempimenti imposti dal codice di rito, dovendo le parti avvalersi dei mezzi da quest’ultimo previsti per far valere i loro diritti, e non avendo la Corte precisato i periodi presi in considerazione, i rinvii addebitabili alle parti e le ragioni della relativa imputabilità.

Il decreto impugnato ha inoltre sottratto dal predetto termine i periodi di sospensione previsti dalla L. 7 ottobre 1969, n. 742, art. 1 non addebitabili alle parti, ed ha erroneamente attribuito natura complessa al giudizio presupposto, avente invece ad oggetto la divisione di un singolo immobile tra due persone.

La Corte d’Appello si è infine distaccata dai principi enunciati dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, sia nell’individuazione dei parametri per la determinazione della durata ragionevole del giudizio, sia nell’accertamento del danno, determinando in diciassette anni il tempo eccedente la predetta durata senza nulla precisare in ordine all’esclusione del restante periodo, e ritenendo immotivatamente equo l’importo di Euro 1.000,00 per ciascun anno di durata eccessiva.

3. – Le predette censure vanno esaminate congiuntamente al primo motivo del ricorso incidentale, con cui il Ministero deduce la violazione e/o la falsa applicazione della L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 2, sostenendo che la Corte d’Appello ha erroneamente incluso nel termine di ragionevole durata del processo il tempo corrispondente ai rinvii determinati dal ritardo nel deposito della relazione di c.t.u., ancorchè gli stessi fossero stati concordemente richiesti dalle parti, le quali avevano quindi prestato il proprio assenso ad una trattazione non concentrata della causa, e si fossero tradotti in un vantaggio per la parte che aveva la disponibilità del bene da dividersi.

4. – Le censure sono parzialmente fondate.

Benvero, contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, l’indennizzo dovuto per la lesione del diritto alla ragionevole durata del processo deve essere determinato, ai sensi della L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 2, tenendo conto non già dell’intero arco temporale in cui si è svolto il giudizio presupposto, ma del solo periodo eccedente la durata ritenuta ragionevole; tale modalità di calcolo, infatti, pur risultando difforme da quella adottata dalla Corte EDU, non tocca la complessiva attitudine della legge citata ad assicurare l’obiettivo di un serio ristoro, e risulta pertanto compatibile con gli impegni internazionali assunti dalla Repubblica italiana attraverso la ratifica della CEDU e con il pieno riconoscimento, da parte dell’art. 111 Cost., comma 2, (nel testo introdotto dalla Legge Costituzionale 23 novembre 1999, n. 2), del canone di cui all’art. 6, par. 1, della Convenzione medesima (cfr.

Cass., Sez. 1^, 6 maggio 2009, n. 10415; 22 gennaio 2008, n. 1354; 19 dicembre 2007, n. 23844).

Peraltro, secondo l’orientamento ormai consolidato della giurisprudenza di legittimità, la durata ragionevole del processo, ai fini dell’accertamento della violazione dell’art. 6, par. 1 della CEDU, dev’essere individuata tenendo conto del suo intero svolgimento, dalla sua introduzione fino al momento della sua definizione o della proposizione della domanda di equa riparazione, ovverosia mediante una valutazione sintetica e globale del giudizio, da considerarsi nella sua complessiva articolazione (ivi compresi, quindi, i periodi di sospensione eventualmente previsti dalla legge), alla stregua dei parametri di ordine generale fissati dalla L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 2 (cfr. Cass., Sez. 1^, 10 maggio 2010, n. 11307; 15 novembre 2006, n. 24356; 23 agosto 2005, n. 11307).

In particolare, a fronte di una cospicua serie di differimenti disposti dal giudice istruttore, anche su richiesta della parte o comunque senza la sua opposizione, si deve distinguere, come impone l’art. 2 cit., comma 2 tra ritardi ascrivibili alle parti e ritardi addebitabili allo Stato per la loro evidente irragionevolezza, e pertanto, salvo che siano evidenziate particolari circostanze riconducibili alla fisiologia del processo o una vera e propria strategia dilatoria della parte, idonea ad impedire l’esercizio dei poteri di direzione del processo propri del giudice istruttore, occorre individuare la durata irragionevole comunque ascrivibile all’ufficio giudicante o ai suoi ausiliari e collaboratori, ferma restando la possibilità che la frequenza ed ingiustiticatezza delle istanze di differimento incida sulla valutazione del patema indotto dalla durata, e conseguentemente sulla misura dell’indennizzo da riconoscere (cfr. Cass. Sez. 1, 25 gennaio 2008. n. 1715).

Tali principi non risultano correttamente applicati dal decreto impugnato, ne quale la Corte d’Appello ha provveduto alla determinazione del ritardo nella definizione della controversia ed alla valutazione delle ragioni della sua addebitabilità senza procedere alla previa individuazione della durata ragionevole, in base ai parametri di cui all’art. 2: essa si è infatti limitata a sottrarre dalla durata complessiva del giudizio i periodi di stasi nella trattazione e nell’istruzione a suo avviso ascrivibili a disfunzioni dell’ufficio giudicante ed al ritardo nell’espletamento della c.t.u., e ad escludere la detraibilità di quelli corrispondenti alla sospensione feriale annuale, senza valutare il comportamento processuale delle parti e senza accertare se la durata residua del giudizio, pari a circa undici anni, fosse interamente giustificata dalle esigenze della trattazione e dell’istruzione, anche alla luce dell’affermata complessità della controversia.

5. – Sono invece inammissibili le ulteriori censure sollevate dal ricorrente in ordine alla liquidazione del danno non patrimoniale.

E’ pur vero, infatti, che, come ripetutamente affermato da questa Corte, il giudice nazionale, se da un lato non può ignorare, nella liquidazione del ristoro dovuto per la lesione del diritto alla ragionevole durata del processo, i criteri applicati dalla Corte EDU, dall’altro può apportarvi le deroghe giustificale dalle circostanze concrete della singola vicenda, purchè motivate e non irragionevoli.

E’ stato tuttavia precisato che, ove non emergano clementi concreti in grado di far apprezzare la peculiare rilevanza del danno non patrimoniale, l’esigenza di garantire che la liquidazione sia satisfattiva di un danno e non indebitamente lucrativa comporta, alla stregua della più recente giurisprudenza della Corte di Strasburgo, che la quantificazione di tale pregiudizio dev’essere, di regola, non inferiore a Euro 750,00 per ogni anno di ritardo, in relazione ai primi tre anni eccedenti la durata ragionevole, e non inferiore a Euro 1.000,00 per quelli successivi, in quanto l’irragionevole durata eccedente il periodo indicato comporta un evidente aggravamento del danno (cfr. Cass.. Sez. 1^, 30 luglio 2010. n. 17922; 14 ottobre 2009, n. 21840).

A tali parametri si è sostanzialmente attenuta la Corte d’Appello, la quale, non avendo riscontrato la sussistenza di elementi tali da evidenziare una particolare intensità del patema d’animo conseguente all’irragionevole durata del giudizio, ha liquidato il danno non patrimoniale in Euro 1.000,00 per ciascun anno di ritardo, riconoscendo quindi, per il primo triennio, un importo addirittura maggiorato rispetto a quello risultante dai criteri enunciati dalla Corte EDU. Il ricorrente lamenta l’insufficienza di tale liquidazione e l’inadeguatezza della motivazione fornita a sostegno della stessa, senza tuttavia precisare gli elementi, non presi in considerazione dalla Corte d’Appello, in base ai quali essa sarebbe dovuta pervenire al riconoscimento di un importo più elevato. In tal modo, egli dimostra di volere in realtà sollecitare, attraverso l’apparente denuncia della violazione di legge e del vizio di motivazione, un diverso apprezzamento del materiale probatorio, non consentito in sede di legittimità, non spettando a questa Corte il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico-formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice del merito, al quale soltanto spetta di individuare le fonti del proprio convincimento e, all’uopo, valutare le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza, e scegliere tra le risultanze probatorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione (cfr. ex plurimis, Cass., Sez. lav., 23 dicembre 2009, n. 27162; 11 luglio 2007, n. 11489).

6. – E’ parimenti inammissibile il secondo motivo del ricorso incidentale, con cui l’Amministrazione deduce l’omessa, insufficiente e/o contraddittoria motivazione del decreto impugnato in ordine all’entità della posta in gioco ed alla lesione di un apprezzabile interesse, osservando che il giudizio presupposto aveva ad oggetto una vicenda ben delimitata sotto il profilo economico, che solo il comportamento della parte aveva reso di difficile soluzione, in quanto la divisione traeva origine da una successione apertasi oltre venti anni prima della proposizione della domanda, e riguardava un fondo il cui aumento di valore era stato determinato da circostanze sopravvenute.

Il giudizio di comparazione tra la natura e l’entità della pretesa patrimoniale azionata nel giudizio presupposto (c.d. posta in gioco) e la condizione socioeconomica della parte, che, evidenziando l’impatto della violazione del termine di ragionevole durata del processo sulla psiche del richiedente, consente di discostarsi, nella determinazione dell’indennizzo, dai parametri indennitari fissati dalla Corte EDU, in senso sia migliorativo che peggiorativo, costituisce intatti una valutazione di merito, non sindacabile in sede di legittimità, se congruamente motivata (cfr., Cass., Sez. 1, 24 luglio 2009. n. 17404; 2 novembre 2007, n. 23048).

Tale valutazione nella specie viene contestata sulla base di elementi asseritamente non presi in considerazione dalla Corte d’Appello, senza tuttavia che venga specificato se gli stessi siano stati oggetto di allegazione nel giudizio di merito e senza che venga individuata la relativa sede, in contrasto con il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, il quale impone alla parte che intenda far valere il vizio di motivazione del provvedimento impugnato non solo di allegare l’avvenuta deduzione della questione dinanzi al giudice di merito, ma anche di indicare in quale specifico atto lo abbia fatto, per dar modo a questa Corte di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione prima di esaminare nel merito la questione.

7. – Il decreto impugnato va pertanto cassato, nei limiti segnati dalle censure accolte, e la causa va rinviata alla Corte d’Appello di Campobasso, che provvederà, in diversa composizione, anche alla liquidazione delle spese relative alla presente fase.

P.Q.M.

LA CORTE riunisce i ricorsi, li accoglie entrambi, nei sensi di cui in motivazione, cassa il decreto impugnato e rinvia alla Corte di Appello di Campobasso in diversa composizione, anche per la liquidazione delle spese relative al presente giudizio.

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