Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 20-01-2011, n. 1251 Licenziamento disciplinare Trasferimento del lavoratore

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con ricorso al Tribunale, giudice del lavoro, di Vicenza, depositato in data 3.5.1999, C.O. esponeva di aver lavorato dal 1994 alle dipendenze della Vibo s.n.c. con qualifica di operaia di 3^ livello presso lo stabilimento di (OMISSIS); di aver ricevuto il 17.11.1998 ordine di trasferimento allo stabilimento di (OMISSIS); di aver appreso, dal contenuto della successiva lettera del 30.11.1998, le motivazioni del provvedimento; di essersi rifiutata di prendere servizio presso lo stabilimento di (OMISSIS), ritenendo ingiustificato il trasferimento, e manifestando la propria disponibilità a continuare la prestazione lavorativa presso lo stabilimento di (OMISSIS); di aver ricevuto una prima contestazione di assenza ingiustificata, seguita da un provvedimento disciplinare di due giorni di sospensione, e di aver ricevuto in data 15.1.1999 una seconda lettera di contestazione di assenza ingiustificata; di essersi giustificata con lettera spedita il 19.1.1999 ribadendo di essere a disposizione per prestare la propria attività lavorativa ad (OMISSIS); di essere stata licenziata con lettera del 22.1.1999.

Tutto ciò premesso la C., ritenendo la illegittimità del provvedimento in questione, chiedeva che il giudice adito volesse dichiarare illegittimo il licenziamento sia per violazione della L. n. 300 del 1970, art. 7, stante il mancato rispetto dei termini a difesa, sia per difetto di giustificazione del provvedimento, non sussistendo comprovate ragioni per il trasferimento, con reintegrazione nel posto di lavoro e risarcimento del danno.

Con sentenza n. 105 del 23.3 – 3.5.2000 il Tribunale adito accoglieva il ricorso.

Avverso detta sentenza proponeva appello la società datoriale (trasformatasi in Vibo s.p.a.) lamentandone la erroneità sotto diversi profili e chiedendo il rigetto delle domande proposte da controparte con il ricorso introduttivo; e proponeva altresì appello incidentale la lavoratrice lamentandone la erroneità sotto ulteriori profili.

La Corte di Appello di Venezia, con sentenza n. 192/2001 del 18.9 – 6.10.2001, rigettava l’appello principale proposto dalla società e dichiarava assorbito l’appello incidentale della lavoratrice.

In motivazione la Corte osservava che le ragioni del trasferimento della lavoratrice, specificate dalla società nella lettera del 17.11.1998 e non più modificabili, erano indicate nella necessità di ampliare l’attività svolta presso lo stabilimento di (OMISSIS). Rilevava però che l’istruzione probatoria era stata incentrata esclusivamente sulle lavorazioni svolte presso lo stabilimento di (OMISSIS), mentre nulla era stato provato dal datore di lavoro nè sulla entità dell’ampliamento dello stabilimento di (OMISSIS), nè sulle lavorazioni trasferite da (OMISSIS). Riteneva pertanto che la società non avesse fornito la prova delle comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive che giustificavano il trasferimento della dipendente, sicchè il licenziamento della C., che si era opposta al trasferimento, risultava privo di giustificazione.

Avverso questa sentenza proponeva ricorso per cassazione la Vibo s.p.a. con cinque motivi di impugnazione, cui resisteva con controricorso la lavoratrice intimata, che proponeva a sua volta ricorso incidentale affidato ad un motivo di gravame.

Con sentenza n. 2873 del 14.2.2004 questa Corte di Cassazione, in accoglimento del secondo e terzo motivo del ricorso principale, cassava la sentenza impugnata rinviando per nuovo giudizio alla Corte di appello di Trieste.

In particolare questa Corte, rilevato che dalla lettura degli atti risultava che la lavoratrice aveva espressamente invocato il disposto dell’art. 20 del CCNL di settore alla stregua del quale la disciplina contrattuale sui trasferimenti non trovava applicazione ai trasferimenti che venivano disposti nell’ambito del "comprensorio", evidenziava che la Corte veneziana aveva del tutto "omesso di prendere in considerazione la disposizione contrattuale, nè si è preoccupata di desumere dalla contrattazione collettiva la figura e l’ambito del "comprensorio"; queste valutazioni si rivelano invece decisive ai fini della decisione, in quanto è evidente che ove nella specie non fosse configurabile un "trasferimento" ex art. 2103 cod. civ., non vi sarebbe neppure necessità di provare le ragioni organizzative e tecniche giustificative del provvedimento datoriale.

Allo stesso modo è mancato da parte del giudice di appello l’esame delle prove acquisite al fine dell’accertamento della presenza di due distinte unità produttive, ravvisabili alla stregua dei principi fissati in materia dalla giurisprudenza di questa Corte di legittimità. Esame anche questo decisivo ai fini della decisione, poichè la configurabilità o meno di due distinti ed autonomi centri di produzione si riverbera sulla applicabilità del disposto dell’ultima parte dell’art. 2103 cod. civ.".

Procedutosi alla riassunzione del giudizio sia da parte della Vibo s.p.a. che da parte della lavoratrice, la Corte d’appello di Trieste, con sentenza n. 104/06 del 22.6 – 2.9.2006, dichiarava l’illegittimità dei provvedimenti di sospensione dal lavoro e dalla retribuzione adottati dalla società datoriale nonchè del successivo provvedimento di licenziamento, condannando la società predetta alla reintegra della lavoratrice nel posto di lavoro ed al risarcimento del danno mediante il versamento di una indennità pari a cinque mensilità della retribuzione globale di fatto.

Rilevava in particolare la Corte territoriale, con riferimento al concetto di "comprensorio" di cui all’art. 20 del contratto collettivo di settore, che se pur era vero che detta previsione era stata invocata dalla Vibo s.p.a., era altrettanto vero che il rilievo concernente l’esistenza del comprensorio doveva dalla stessa essere provato; invero, avendo l’attrice sempre ricondotto il caso di specie a quello di un "trasferimento", era onere della convenuta fornire la prova del proprio assunto, e cioè che si era trattato di un "non trasferimento" ai sensi dell’art. 20 del contratto collettivo invocato.

Avverso questa sentenza propone ricorso per cassazione la Vibo s.p.a. con quattro motivi di impugnazione.

Resiste con controricorso la lavoratrice intimata.

Motivi della decisione

Col primo motivo di ricorso la società lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 384 c.p.c., comma 1, per manifesta disapplicazione dei principi di diritto enunciati dalla Suprema Corte – Violazione dell’art. 115 c.p.c., con riferimento all’art. 20 CCNL Piccola e media industria metalmeccanica – Errata interpretazione dell’art. 2103 c.c..

In particolare rileva che erroneamente la Corte territoriale aveva ritenuto che la società non avesse fornito la prova dell’esistenza del "comprensorio": ed invero la società aveva sempre fatto riferimento alla circostanza che le due sedi (di (OMISSIS) e di (OMISSIS)) erano ubicate nello stesso comprensorio, e la lavoratrice non aveva mai contestato, nè nel giudizio di primo grado nè in quello di appello, tale circostanza, di talchè il fatto doveva ritenersi incontroverso e come tale non richiedente una prova specifica in proposito. D’altronde la ubicazione delle due sedi predette nella medesima area industriale doveva ritenersi un fatto notorio, e pertanto non richiedente, anche sotto questo profilo, la necessità di una specifica prova.

Col secondo motivo di ricorso la società lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 384 c.p.c., comma 1, per manifesta disapplicazione dei principi di diritto enunciati dalla Suprema Corte – Violazione e falsa applicazione dell’art. 2013 c.c. e dell’art. 115 c.p.c., per errata valutazione delle prove in ordine alla sussistenza di due unità produttive.

In particolare rileva che erroneamente la Corte territoriale aveva attribuito valore di prova – in pregiudizio della società ricorrente – alle difese svolte dalla predetta nei precedenti gradi del giudizio, alla stregua delle quali la società stessa avrebbe affermato che si trattava di due sedi produttive e lavorative, pervenendo quindi all’erronea conclusione che nella fattispecie doveva ritenersi l’esistenza di un vero e proprio trasferimento da una unità produttiva ad altra.

Col terzo motivo di ricorso la società lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 2013 c.c. e dell’art. 115 c.p.c. per errata valutazione delle prove in ordine alla insussistenza di comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive.

In particolare rileva che la Corte di merito aveva completamente travisato le risultanze istruttorie appiattendosi acriticamente sulle motivazioni adottate dal giudice di primo grado il quale aveva rilevato che dopo il trasferimento della C., altri dipendenti avevano svolto presso la sede di (OMISSIS) le mansioni svolte in precedenza dalla stessa (attività di piegatura dei tondini); per contro era chiaramente emerso dalla prova testimoniale assunta che le prestazioni della ricorrente presso la predetta sede di (OMISSIS) erano divenute inutilizzabili per effetto delle innovazioni tecnologiche per cui la suddetta attività di piegatura non era effettuata più manualmente bensì con l’ausilio delle macchine, con la conseguenza che si era reso necessario disporre il trasferimento della lavoratrice presso la sede di (OMISSIS).

Col quarto motivo di ricorso la società rileva il diritto della Vibo s.p.a. alla refusione di quanto erogato alla convenuta in esecuzione delle sentenze emesse nei precedenti gradi di giudizio, del riconoscimento degli interessi e della rivalutazione e delle spese legali.

In particolare rileva che la società datoriale, avendo ottemperato alle precedenti sentenze dei giudici di merito, aveva diritto, in caso di accoglimento del ricorso, alla restituzione di tutte le somme corrisposte a titolo di indennità sostitutiva della reintegrazione e di risarcimento del danno, di interessi legali, di rivalutazione monetaria e di spese giudiziali.

La C. ha eccepito la inammissibilità del ricorso ai sensi dell’art. 366 c.p.c., n. 3, per omessa esposizione sommaria dei fatti di causa, nonchè la inammissibilità ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c., per omessa formulazione del quesito di diritto.

Il ricorso è inammissibile.

Trattandosi di ricorso avverso una sentenza pubblicata il 2 settembre 2006, ad esso si applica, ratione temporis, l’art. 366 bis c.p.c. (introdotto dal D.Lgs. n. 40 del 2006 ed applicabile, ex art. 27 del predetto decreto legislativo, ai ricorsi per cassazione avverso le sentenze pubblicate dal 2 marzo 2006). Tale articolo, successivamente abrogato dalla L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 47, comma 1, lett. d), ma applicabile nella fattispecie in esame, dispone che "nei casi previsti dall’art. 360 c.p.c., nn. 1, 2, 3 e 4, l’illustrazione di ciascun motivo sì deve concludere, a pena d’inammissibilità, con la formulazione di un quesito di diritto".

Nell’interpretazione di tale norma questa Corte (ex plurimis: Cass. SS.UU., 5.1.2007 n. 36; Cass., SS.UU., 28.9.2007 n. 20360; Cass. SS.UU., 12.5.2008 n. 11650; Cass. SS.UU., 17.7.2007 n. 15959) ha rilevato come la stessa ponga espressamente a carico di parte ricorrente l’onere di formulare, in maniera consapevole e diretta, rispetto a ciascuna censura, una conferente sintesi logico-giuridica della questione sottoposta al vaglio del giudice di legittimità, sicchè dalla risposta (positiva o negativa), che al quesito medesimo deve essere data, possa derivare la soluzione della questione circa la corrispondenza delle ragioni dell’impugnazione ai canoni indefettibili della corretta applicazione della legge, restando, in tal modo, contemporaneamente soddisfatti l’interesse della parte alla decisione della lite e la funzione nomofilattica propria del giudizio di legittimità.

A siffatto onere non ha ottemperato nel caso di specie parte ricorrente, sicchè il ricorso dalla stessa proposto va dichiarato inammissibile.

E siffatta inammissibilità si ravvisa anche in relazione alle censure afferenti all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. Ed invero la giurisprudenza di questa Corte ha ritenuto che, allorchè nel ricorso per cassazione si lamenti un vizio di motivazione in merito ad un fatto controverso, l’onere di indicare chiaramente tale fatto ovvero le ragioni del vizio di motivazione, imposto dall’art. 366 bis c.p.c., deve essere adempiuto non già e non solo illustrando il relativo motivo di ricorso, ma anche formulando, al termine di esso, una indicazione riassuntiva e sintetica, che costituisca un quid pluris rispetto alla illustrazione del motivo, e che consenta al giudice di valutare immediatamente l’ammissibilità del ricorso (Cass. sez. 3^, 7.4.2008 n. 8897; Cass. SS.UU. 1.10.2007 n. 20603).

Siffatta indicazione non si ravvisa nella fattispecie in esame, in relazione ai dedotti vizi di motivazione circa la configurabilità o meno di due distinti ed autonomi centri di produzione, di talchè anche sotto questo profilo il ricorso proposto va ritenuto inammissibile.

Segue a tale pronuncia la condanna della ricorrente al pagamento delle spese di giudizio che si liquidano come da dispositivo. Deve essere autorizzata la distrazione delle spese suddette in favore del difensore avv. Paolo Landò, antistatario, il quale ha reso la prescritta dichiarazione.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso; condanna la ricorrente alla rifusione delle spese del presente giudizio di cassazione, che liquida in Euro 41,00, oltre Euro 2.000,00 (duemila) per onorari, oltre spese generali, I.V.A. e C.P.A. come per legge; autorizza la distrazione delle spese, come sopra liquidate, in favore dell’avv. Paolo Landò, dichiaratosi antistatario.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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