Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 15-12-2010) 04-01-2011, n. 18

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

La Corte di appello di Firenze, con sentenza in data 12 gennaio 2009, confermava la sentenza del Tribunale di Pistoia, in data 26 maggio 2009, appellata da C.G., dichiarato colpevole del reato di truffa aggravata per avere approfittato delle precarie condizioni di salute di B.G., facendole credere di poterla guarire dalle sue condizioni di depressione che derivavano dal malocchio, facendosi consegnare la somma complessiva di Euro 4000 e condannata alla pena di anni uno, mesi sei di reclusione e Euro 600 di multa.

Proponeva ricorso per cassazione il difensore dell’imputata deducendo i seguenti motivi:

a) violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), per carenza di motivazione in relazione al reato di truffa aggravata, stante le contraddizioni nelle dichiarazioni della persona offesa e gli esiti degli accertamenti bancari e postali disposti sui conti del padre della persona offesa che non hanno fornito dati univoci e precisi sulla riferibilità delle operazioni eseguite;

b) violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e) con riferimento alla mancanza di motivazione in punto di commisurazione della pena.

Motivi della decisione

Il ricorso è manifestamente infondato e va dichiarato inammissibile.

1) Con riferimento al primo motivo, a fronte di una motivazione congrua, logica e non contraddittoria (si vedano le pagine da 3 a 6 dell’impugnata sentenza) la ricorrente si limita a fornire una diversa interpretazione dei fatti, generica e apodittica.

La Corte territoriale riconosce che il contenuto della testimonianza dibattimentale della parte offesa non è risultato coerente con quanto dichiarato nel corso delle indagini preliminari, tuttavia attribuisce valore alle dichiarazioni della B. considerando che, nonostante la sindrome depressiva da cui è affetta, la "sostanza" delle dichiarazioni della donna è rimasta integra nel corso delle diverse deposizioni, avendo confermato l’incontro con la prevenuta a cui aveva raccontato i suoi malanni, la promessa della donna di poterla guarire, i successivi incontri con richieste di danaro e rottura di uova sul selciato stradale il cui esito avrebbe dimostrato che spiriti maligni si erano impossessati della B., con richiesta di altri soldi per togliere il malocchio.

Anche gli accertamenti bancari hanno evidenziato diversi prelevamenti di danaro in coincidenza con gli incontri con la prevenuta e le narrate dazioni di danaro all’imputata dalla parte offesa, ritenendo provata la disponibilità di denaro in capo a quest’ultima, nei giorni in cui la B. ha dichiarato di aver effettuato le varie consegne all’imputata.

Sul punto appare utile ribadire – oltre a richiamare i principi di questa Corte – che l’indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di Cassazione essere limitato a riscontrare l’esistenza di un logico e complessivo apparato argomentativo sui vari punti della decisione impugnata, senza possibilità di verificare l’adeguatezza o l’inconferenza fattuale delle argomentazioni di cui il Giudice di merito si sia avvalso per sottolineare il suo convincimento ovvero la loro rispondenza alle acquisizioni processuali, e ciò al fine di evitare che il controllo demandato alla Cassazione, anzichè "sui requisiti minimi di esistenza, completezza e logicità della motivazione", si eserciti muovendo dagli atti del processo sul contenuto della decisione (cfr.

Cass. Sez. 3^, sent. 12657 del 2006, Coppolino). Per tale ragione, la motivazione può essere censurata quando essa sia mancante, contraddittoria ovvero manifestamente illogica e tali vizi devono risultare dal testo del provvedimento impugnato ovvero da altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame.

Nel caso di specie, invece, le argomentazioni della Corte appaiono coerenti e logiche e sono, quindi, incensurabili in sede di legittimità. 2)La ricorrente si duole, col secondo motivo, di una presunta carenza della motivazione in ordine all’entità della pena inflitta, ritenuta eccessiva. La Corte di appello di Firenze chiarisce che la pena inflitta all’imputata appare coerente con la gravità del fatto che è stato commesso, ponendo in risalto anche la notevole capacità criminale e la pericolosità sociale dell’imputata.

Quindi anche su questo punto la Corte ha giustificato adeguatamente la scelta della pena, peraltro mite, rispetto alla valutazione dei fatti.

Sul punto il S. C. ha più volte affermato che la determinazione della misura della pena tra il minimo e il massimo edittale rientra nell’ampio potere discrezionale del giudice di merito, il quale assolve il suo compito anche se abbia valutato intuitivamente e globalmente gli elementi indicati nell’art. 133 c.p. (Sez. 4, sentenza nr. 41702 del 20/09/2004 Ud – dep. 26/10/2004 – Rv. 230278).

Ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., con il provvedimento che dichiara inammissibile il ricorso, l’imputata che lo ha proposto deve essere condannata al pagamento delle spese del procedimento, nonchè – ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità – al pagamento a favore della Cassa delle ammende della somma di mille Euro, così equitativamente fissata in ragione dei motivi dedotti.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro mille alla Cassa delle ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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