Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 01-12-2010) 04-01-2011, n. 54 Impugnazioni

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Con la sentenza in epigrafe il Giudice di pace di Treviglio dichiarava L.D., nato in (OMISSIS) e così identificato mediante accertamenti A.F.I.S. (Automated Fingerprint Identification System), responsabile del reato di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 10 bis e la condannava alla pena di 4.000,00 Euro di multa, sostituita ai sensi del D.Lgs. n. 274 del 2000, art. 62 bis con l’espulsione per cinque anni dal territorio dello Stato.

2. Ricorre il Procuratore generale della Repubblica presso la Corte d’appello di Brescia e chiede l’annullamento della sentenza impugnata nella parte in cui applica la sanzione sostitutiva dell’espulsione, denunziando violazione di legge e contraddittorietà manifesta della motivazione.

Osserva che risultava che l’imputato, contumace nel processo, era sedicente e sprovvisto di qualsivoglia documento attestante la sua identità e nazionalità. Era pertanto evidente che, a mente del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 14, comma 1, richiamato dall’art. 16 comma 1 del citato decreto, l’espulsione era ineseguibile e non poteva di conseguenza essere disposta, occorrendo procedere ad ulteriori accertamenti su identità e nazionalità.

Motivi della decisione

1. Il Giudice di pace ha disposto, ai sensi del D.Lgs. n. 274 del 2000, art. 62 bis, la sostituzione della ammenda, inflitta per il reato di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 10 bis, con la misura dell’espulsione prevista dall’art. 16, comma 1, del medesimo T.U. (e qui configurata, in termini generali, come discrezionale).

Il Procuratore generale impugna siffatta statuizione denunziando violazione di legge e vizi della motivazione (nonchè degli accertamenti) in punto di insussistenza delle condizioni ostative di cui del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 14, comma 1.

Il problema che va anzitutto posto è, quindi, se siffatta sostituzione della pena pecuniaria incida sulla individuazione del regime delle impugnazioni ai sensi del D.Lgs. n. 274 del 2000, art. 36 (ed eventualmente dell’art. 37).

E, a tale proposito, il Collegio condivide quanto già affermato dalla sentenza n. 20252 del 28.10.2010, P.m. c. El Halawani (a tutt’oggi non massimata), che conclude per l’appellabilità della sentenza di condanna per la contravvenzione di ingresso soggiorno illegale che abbia applicato l’espulsione a titolo di sanzione sostitutiva.

2. Il sottosistema delle impugnazioni istituito dal Capo Sesto del Titolo Primo del D.Lgs. 28 agosto 2000, n. 274 del 2000, in attuazione dei criteri fissati dalla Legge-Delega 24 novembre 1999, n. 468, appare chiaramente ispirato alla ratio di facoltizzare sia la parte pubblica sia l’imputato a proporre appello avverso le sentenze che, in qualsivoglia modo, si discostino dalla mera condanna all’ammenda, irrogando una pena diversa da quella pecuniaria o comunque infliggendo una condanna aggiuntiva, pur se relativa soltanto al risarcimento del danno.

Secondo la Relazione governativa al D.Lgs. n. 274 del 2000, lo specifico criterio di delega, contenuto nell’art. 17, comma 1, lett. n), che espressamente prevedeva l’appellabilità delle sentenze emesse dal giudice di pace, ad eccezione di quelle che applicano la sola pena pecuniaria e di quelle di proscioglimento relative a reati puniti con la sola pena pecuniaria, doveva prevalere rispetto al disposto del successivo art. 18, che aveva sostituito l’art. 593 cod. proc. pen., comma 3, stabilendo, in via generale, l’inappellabilità delle sentenze di condanna relative a reati per i quali era stata applicata la sola pena dell’ammenda. Tale prevalenza era giustificata, sotto il profilo formale, dal carattere speciale della disposizione di delega, e, dal punto di vista sostanziale, "in considerazione della natura, non professionale, del primo giudice e nella particolare semplificazione del procedimento". Epperciò "Di fronte ad un giudizio di primo grado connotato da tali elementi" appariva opportuno, secondo il legislatore delegato, "ampliare le possibilità di appello dinanzi al giudice professionale".

Il diritto di appellare è stato per conseguenza riconosciuto sia all’imputato sia al pubblico ministero vuoi avverso le sentenze di condanna emesse dal giudice di pace che applicano una pena diversa da quella pecuniaria vuoi avverso le sentenze di proscioglimento relative a reati puniti con pena diversa da quella pecuniaria;

all’imputato il diritto di proporre appello è stata inoltre riconosciuto anche contro le sentenze che, pur applicando la sola pena pecuniaria, lo condannano al risarcimento del danno, qualora la sua impugnazione sia estesa a tale capo.

Insomma, il criterio di delega è stato consapevolmente interpretato "nel senso di sottrarre alla garanzia del secondo grado di merito le pronunce che rechino condanna alla sola pena pecuniaria, e non anche quelle nelle quali sia statuita una ulteriore condanna (sia pur relativa all’azione civile)…".

Sulla conformità della scelta operata dal legislatore delegato alla formulazione letterale del principio direttivo recato dalla L. n. 468 del 1999, art. 17, comma 1, lett. n), e agli indirizzi generali della delega in materia di procedimento penale davanti al giudice di pace, si è già per altro espressa, la Corte costituzionale con la sentenza n. 426 del 2008 e, quindi, con l’ordinanza 32 del 2010, evidenziano, fra l’altro: che "il legislatore delegante ha inteso attribuire una portata generale alla previsione dell’appellabilità delle sentenze del giudice di pace, configurando come eccezioni, dunque di stretta interpretazione, le ipotesi di loro inappellabilità", che coerentemente il legislatore delegato ha dato rilievo concreto "al grado di afflittività delle pronunce"; che non poteva istituirsi alcun raffronto con il sistema dell’inappellabilità istituito dall’art. 593 cod. proc. pen., comma 3, perchè "il procedimento penale davanti al giudice di pace configura un modello di giustizia non comparabile con quello davanti al tribunale, in ragione dei caratteri peculiari che esso presenta".

E sebbene le questioni di costituzionalità costituzionale esaminate avevano esclusivo riguardo all’appellabilità delle sentenze recanti condanna al risarcimento del danno, i principi affermati paiono trascendere tali ipotesi e si prestano a servire da canoni interpretativi anche per il caso in esame.

3. Non varrebbe obiettare, rifacendosi all’ordinanza della Corte costituzionale n. 369 del 1999, che, stando al tenore formale del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 16, quella ivi prevista non è una vera e propria "sanzione criminale" sostitutiva, bensì mera misura amministrativa.

Il problema non è infatti di etichette, ma di livello di afflittività e di incidenza sulla libertà della cosiddetta sanzione o misura "sostitutiva".

Pur prescindendo da qualsivoglia rilievo (cfr. C. cost. sent. n. 129 del 1995) sulla esistenza di un confine invalicabile che in ogni caso dovrebbe distinguere espulsione giudiziale ed espulsione amministrativa (se non altro attese le differenze di effetti e, in caso di violazione, di conseguenze sanzionatone), dopo C. cost. n, 105 del 2001, e la "rilettura" in essa contenuta di C cost. n. 62 del 1994, non può invero più dubitarsi che l’espulsione con accompagnamento alla frontiera "inerisce alla materia regolata dall’art. 13 Cost., in quanto presenta quel carattere di immediata coercizione che qualifica, per costante giurisprudenza costituzionale, le restrizioni della libertà personale" e che anche la espulsione coattiva disposta dal giudice in sede di condanna in sostituzione della pena ben "possa costituire in concreto per lo straniero, non già un beneficio, ma una sanzione alternativa dal contenuto ancor più afflittivo di quello proprio di una pena detentiva". Nè può ritenersi un caso che il legislatore abbia recepito nel D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 16, comma 1, esattamente la stessa definizione, di "sanzione alternativa", utilizzata dal giudice delle leggi nella sentenza n. 62 del 1994. 4. Solo in apparenza confligente con la soluzione qui condivisa appare il dictum di S.U., n. 7902 del 3 febbraio 1995, Bonifazi (rv.

201546, massimata nel senso che "l’impugnazione esperibile avverso sentenza di condanna per contravvenzione per la quale sia stata inflitta la sola pena dell’ammenda, in tutto od in parte come sanzione sostitutiva dell’arresto, è l’appello e non il ricorso per cassazione"). La pronuncia delle Sezioni unite fa leva principalmente sulla ricostruzione della portata dell’art. 593 cod. proc. pen., comma 3, mentre nel caso in esame il riferimento va fatto alla disciplina speciale del D.Lgs. n. 274 del 2000, che s’è già detto con quella norma non è comparabile.

La decisione appena ricordata, richiamandosi nel corso della motivazione anche al disposto dell’art. 443 cod. proc. pen., imporrebbe per altro di integrare i rilievi ivi contenuto con le osservazioni di C. cost. n. 288 del 1997 che (a sua volta rifacendosi a C. cost. n. 363 del 1991) significativamente include tra i requisiti giustificativi del sacrificio dell’appello in caso di condanna a pena detentiva sostituita da corrispondente pena pecuniaria, la minore afflittività della sanzione sostitutiva oggetto, in quei casi, di considerazione. Sicchè l’intero costrutto non pare certamente esportabile in ipotesi, quale quella in esame, in cui la misura sostitutiva ha un contenuto afflittivo, concreto, maggiore di quello della pena principale.

5. Il ricorso, con il quale si prospettano anche vizi della motivazione, deve dunque, ai sensi dell’art. 568 cod. proc. pen., comma 5 essere qualificato appello e trasmesso al Tribunale di Bergamo per il giudizio sull’impugnazione.

P.Q.M.

Qualificato il ricorso come appello, dispone la trasmissione degli atti al Tribunale di Bergamo.

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