Cass. pen. Sez. IV, Sent., (ud. 24-11-2010) 04-01-2011, n. 137 Detenzione, spaccio, cessione, acquisto

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo e motivi della decisione

Il giudice per le indagini preliminari di Rovigo, con sentenza in data 22.9.2009 resa a seguito di giudizio abbreviato, dichiarava A.A. e G.M. responsabili del delitto ex D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 1 bis, loro ascritto. Con sentenza in data 8 giugno 2009 la Corte di Appello di Venezia, in parziale riforma della sentenza del primo giudice, riteneva l’ipotesi del delitto tentato per entrambi gli imputati.

Rilevava la Corte di Appello che sulla base delle intercettazioni ambientali espletate a bordo dell’autovettura in uso all’ A., era emerso che G. e A. si erano incontrati con il venditore D. per concludere l’acquisto di sostanza stupefacente;

e che durante il viaggio di ritorno, commentando l’accaduto, A. diceva all’altro "lo sapevo che ce lo dava il mezzo chilo". Considerava la Corte che il primo giudice, con riferimento ai termini dell’accordo relativo alla partita di droga, aveva evidenziato che G., in sede di interrogatorio di garanzia, aveva dichiarato di avere raggiunto con il venditore un accordo circa il prezzo al grammo. La Corte territoriale richiamava, quindi, il contenuto delle censure dedotte dagli imputati appellanti, evidenziando che entrambi i prevenuti assumevano che il compendio probatorio non consentisse di ritenere dimostrata la conclusione di un accordo tra le parti, circa la quantità, la qualità ed il prezzo della sostanza. La Corte di Appello rilevava che i motivi di gravame non apparivano idonei ad inficiare la ricostruzione del fatto operata dal GUP nè la valutazione del materiale probatorio dallo stesso effettuata, salva la diversa qualificazione giuridica dei fatti in addebito. La Corte di Appello rilevava che secondo un costante orientamento della Corte di Cassazione, la traditio della sostanza stupefacente, come anche il materiale pagamento del prezzo, non costituiscono elementi necessari per il perfezionamento dell’ipotesi illecita di acquisto di sostanze stupefacenti contemplata dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 1 bis, giacchè il reato si perfeziona nel momento in cui interviene l’accordo tra le parti sulla quantità e sulla qualità della sostanza e sul relativo prezzo.

Considerava la Corte di Appello di Venezia che dagli atti del processo emergevano molteplici elementi indiziari per ritenere che i due imputati avessero incontrato D. per trattare una consegna di droga. Osservava che G. aveva confessato l’intervenuto accordo con il venditore, relativo al prezzo al grammo dello stupefacente; e che G. aveva reso dichiarazioni eteroaccusatorie nei confronti di A.. Rilevava la Corte che l’indicazione del prezzo di acquisto della droga fornita da G. risultava peraltro imprecisa.

Avverso la richiamata sentenza della Corte di appello di Venezia ha proposto ricorso per Cassazione A.A. a mezzo del difensore fiduciario, deducendo l’inosservanza e l’erronea applicazione della legge penale in relazione all’art. 56 c.p. e D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 1 bis. Rileva la parte che nel caso non è stata dimostrata la formazione del consenso, tra le parti, sulla quantità, qualità e sul prezzo della sostanza stupefacente, di talchè erroneamente la Corte di Appello ha ritenuto perfezionata la fattispecie del tentativo punibile. Invero, i colloqui intercettati evidenziano, secondo l’esponente, che gli imputati avevano posto in essere meri atti preparatori, rispetto ad un generico acquisto di sostanza stupefacente.

Avverso la richiamata sentenza della Corte di appello di Venezia ha proposto ricorso per Cassazione anche G.M. a mezzo del difensore fiduciario deducendo l’inosservanza e l’erronea applicazione della legge penale e la manifesta illogicità della motivazione. Rileva l’esponente che la Corte di Appello, dopo avere correttamente evidenziato la mancanza di prova circa il perfezionamento di un accordo tra le parti avente ad oggetto la partita di droga indicata nel capo di imputazione, avrebbe dovuto mandare assolto l’imputato, non potendosi configurare l’ipotesi del tentativo dell’accordo. La parte ritiene che la Corte di Appello non abbia tratto dalla effettuata premessa le conseguenti conclusioni logico-giuridiche.

La Procura Generale di Venezia ha proposto ricorso per Cassazione avverso la menzionata sentenza della Corte di Appello di Venezia nei confronti di A.A., deducendo la contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione del provvedimento. Rileva l’esponente che lo sviluppo argomentativo seguito dalla Corte di Appello è viziato da profili di contraddittorietà. Considera, al riguardo, che dopo avere rilevato che il reato de quo si perfeziona nel momento in cui interviene l’accordo, la Corte si sofferma sulla circostanza, non chiarita, relativa alla materiale disponibilità della sostanza da parte del venditore; e che dopo aver affermato che le parti avevano raggiunto l’accordo sul quantitativo di cocaina e anche sul prezzo, la Corte di Appello considera che non si sarebbe trattato di un accordo compiuto e perfetto, pienamente definito in tutti i suoi estremi. Il ricorrente conclude chiedendo l’annullamento con rinvio della impugnata sentenza.

I ricorsi proposti da A. e G. sono manifestamente inammissibili.

Giova sottolineare che, secondo il consolidato orientamento della Suprema Corte, il vizio logico della motivazione deducibile in sede di legittimità, nelle sue varie e concrete espressioni – contraddittorietà, illogicità, etc. – deve risultare dal testo della decisione impugnata e deve essere riscontrato tra le varie proposizioni inserite nella motivazione, senza alcuna possibilità di ricorrere al controllo delle risultanze processuali; con la conseguenza che il sindacato di legittimità "deve essere limitato soltanto a riscontrare l’esistenza di un logico apparato argomentativo, senza spingersi a verificare l’adeguatezza delle argomentazioni, utilizzate dal giudice del merito per sostanziare il suo convincimento, o la loro rispondenza alle acquisizioni processuali" (in tal senso, "ex plurimis", Cass. Sez. 3A, n. 4115/96, Rv. 203272). Tale principio, più volte ribadito dalle varie sezioni di questa Corte, è stato altresì avallato dalle stesse Sezioni Unite le quali, dopo aver già in passato precisato che "esula dai poteri della Corte di Cassazione quello di una "rilettura" degli elementi di fatto, posti a sostegno della decisione, il cui apprezzamento è riservato in via esclusiva al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali" (Cass. n. 6402/97, imp. Dessimone ed altri, Rv. 207944; Cass. Sez. 4, sentenza n. 32911 del 11/05/2004, Rv. 229268).

Nella concreta fattispecie la decisione impugnata si presenta formalmente e sostanzialmente legittima ed i suoi contenuti motivazionali forniscono – con argomentazioni basate su una corretta utilizzazione e valutazione delle risultanze probatorie – esauriente e persuasiva risposta ai rilievi che erano stati mossi alla sentenza di primo grado. Con le dedotte doglianze i ricorrenti, per contrastare secondo le rispettive prospettive, la solidità delle conclusioni cui è pervenuta la Corte distrettuale, propongono in questa sede considerazioni e deduzioni svolte, all’evidenza, in chiave di puro merito.

Come noto, secondo la giurisprudenza della Suprema Corte ai fini della consumazione del reato di acquisto di sostanze stupefacenti – che viene in rilievo nel caso di specie – la legge non richiede che la droga venga materialmente consegnata al compratore, perfezionandosi tale reato attraverso la formazione del consenso sulla quantità e qualità della sostanza e sul prezzo, senza che occorra la concreta traditio della cosa o il pagamento del corrispettivo (Cass. Sez. 5, sentenza n. 18368 del 2004; si veda anche Cass. Sez. 4, n. 44621 del 10.3.2005).

Ciò premesso, deve rilevarsi che la Corte di Appello di Venezia evidenziava i seguenti elementi di fatto: nelle telefonate e nelle conversazioni intercettate gli imputati avevano fatto riferimento a sostanze di diversa natura; i colloquianti avevano indicato diversi quantitativi di "roba"; l’indicazione del prezzo fornita da G. risultava imprecisa; non risultava chiarito se D. avesse la materiale disponibilità della droga, non vista e non sequestrata dagli operanti. Considerava inoltre il Collegio che la stessa frase "lo sapevo che ce lo dava il mezzo chilo", pronunciata da A., si prestava a diverse interpretazioni, e che la stessa non risultava perciò indicativa dell’avvenuta consegna. Sulla scorta di tali rilievi, la Corte riteneva, secondo un apprezzamento del materiale probatorio immune da ogni censura rilevabile in questa sede di legittimità, che i raccolti elementi inducessero a ritenere che le trattative realizzate dagli imputati integrassero la fattispecie del tentativo, rispetto al delitto in iscrizione, non essendo emerso, oltre ogni ragionevole dubbio, l’intervenuto perfezionamento di un accordo circa l’acquisto della sostanza stupefacente.

Le considerazioni ora svolte evidenziano la fragilità della tesi difensiva, secondo la quale la condotta come realizzata dai prevenuti non integrerebbe neppure l’ipotesi del delitto tentato;

contestualmente, palesano l’inammissibilità anche del ricorso proposto dalla parte pubblica nei confronti di A., stante l’evidenziata incensurabilità in sede di legittimità dell’apprezzamento delle risultanze processuali compiuto dalla Corte territoriale.

P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti A. e G. al pagamento delle spese processuali e ciascuno a quello della somma di Euro 1000,00 in favore della Cassa delle Ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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