Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 19-11-2010) 04-01-2011, n. 14 Detenzione, spaccio, cessione, acquisto

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo e motivi della decisione

La Corte di Assise di Napoli con sentenza del 27.10.2006, emessa nei confronti di D.B.A., D.L.M., L.M. D., A.A. e P.S., riconosceva i primi quattro colpevoli del delitto di associazione mafiosa di cui al capo A) della rubrica accusatoria, esclusa l’aggravante di cui all’art. 416 bis. c.p., comma 6 ma riconosciuta la qualità di capo e promotore nei confronti del D.B.; il D.B. e il D.L. inoltre, dei reati in materia di armi di cui al capo 14), dei reati di omicidio in danno di C.P. e di tentato omicidio in danno di Z.L. aggravati dalla premeditazione e dai motivi abietti, di cui al capo 17A), e dei connessi reati in materia di armi di cui al capo 17B); il D.B., il D.L. e il P., dei reati di cui agli artt. 648 e 423 c.p., (capi 17D) e 17E), aggravati D.L. n. 152 del 1991, ex art. 7 riguardanti la ricettazione e il successivo incendio della FIAT Punto utilizzata in occasione dell’omicidio e del tentato omicidio; dichiarava altresì il D. B., il L.M. e A.A. colpevoli dei reati in materia di armi di cui al capo 18), aggravati D.L. n. 152 del 1991, ex art. 7; il D.B. e il L.M. del reato di detenzione illegale di sostanze stupefacenti di cui al capo 44), ritenuta l’ipotesi di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 4 con l’aggravate D.L. n. 152 del 1991, ex art. 7; il solo D.B., infine, dei reati in materia di armi di cui ai capi 12), 15) e 19B) e del reato di detenzione illegale di sostanze stupefacenti di cui al capo 45), entrambi aggravati D.L. n. 152 del 1991, ex art. 7;

unificati per ciascuno degli imputati, i reati agli stessi ascritti, sotto il vincolo della continuazione, condannava il D.B. alla pena dell’ergastolo e di Euro 30.000,00 di multa con l’isolamento diurno per la durata di quattro mesi; il D.L. alla pena dell’ergastolo ed Euro 2000,00 di multa con l’isolamento diurno per la durata di quattro mesi; il L.M. alla pena di anni tredici di reclusione ed Euro settemila di multa; l’ A. alla pena di anni dieci di reclusone ed Euro ottocento di multa, il P. alla pena di anni cinque di reclusione ed Euro seicento di multa; tutti al pagamento delle spese processuali e alle pene accessorie conseguenti alle condanne; ordinava infine la confisca di quanto in sequestro e la distruzione del munizionamento.

La Corte di Assise assolveva invece gli imputati dagli altri reati agli stessi ascritti per non avere commesso il fatto o perchè il fatto non sussiste.

Sull’appello del PM e degli imputati, la Corte di Assise di Appello, con sentenza del 18.1.2010, confermava l’assoluzione del L. M. dal reato di omicidio e reati connessi di cui ai capi 17A) e ss.; del L.M. e del D.B. dai reati in materia di armi di cui al capo 20); e del P. dal reato associativo; in riforma della sentenza di primo grado, assolveva invece D.L. S. dai reati di omicidio e tentato omicidio e connessi reati in materia di armi di cui ai capi 17A) e 17B) della rubrica, rideterminando nei suoi confronti la pena per i reati residui, unificati per continuazione sotto il reato associativo di cui al capo A1), ritenuto più grave, in complessivi anni dodici di reclusione.

Confermava per il resto integralmente la sentenza appellata nei confronti di A.A., D.B.A., L.M. D. e P.S.G..

I giudici di appello premettevano che i fatti erano riferibili alla faida che opponeva il clan Crimaldi di Acerra, all’interno del quale il D.B. avrebbe assunto un ruolo dominante, al clan De Sena, per il controllo della attività criminali sul territorio.

Nel quadro di questa contrapposizione, i due gruppi rivali avevano stretto alleanze con cosche dei centri vicini; in particolare, i Crimaldi si sarebbero alleati al L.M.; i De Sena ai Castaldo.

In sostanza, anche i reati fine si sarebbero inseriti in questo contesto, risultando tutti funzionali al disegno strategico del D. B., volto all’affermazione del proprio primato criminale.

Quanto alle fonti di prova a sostegno dell’articolato giudizio di responsabilità risultante nei confronti di ciascuno degli imputati dalle due sentenze di merito, esse consistono essenzialmente nelle dichiarazioni di vari collaboratori di giustizia (tra i quali soprattutto Da.Fa., D.L.T. e M. G., quest’ultimo sentito in appello in sede di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale), e nel contenuto di intercettazioni telefoniche e ambientali, ritenute dai giudici di merito riferibili agli imputati di volta in volta interessati sulla base di varie indicazioni di prova, tra le quali quelle provenienti dal verbalizzante S. sull’identificazione vocale di alcuni interlocutori.

Hanno proposto ricorso tutti gli imputati, per mezzo dei rispettivi difensori.

Con il ricorso in favore di D.B.A., la difesa eccepisce preliminarmente il mancato esame, da parte dei giudici territoriali, dei motivi svolti con l’atto di appello, che tra l’altro indugiavano particolareggiatamente, riguardo ai fatti omicidiari, sulle discrasie tra le testimoniane oculari e i risultati della perizia autoptica; e segnalavano le numerose incongruenze e contraddizioni nelle dichiarazioni degli imputati di reato connesso.

Nel ricorso sono sinteticamente ricostruiti i percorsi argomentativi delle due sentenze di merito, ed è contenuta un’ampia trascrizione dei motivi di appello.

Con specifico riferimento alla sentenza di appello, il difensore deduce il difetto di motivazione, sub specie di motivazione apparente, anzitutto in ordine alla valutazione dell’attendibilità dei vari collaboranti, sottolineando il travisamento da parte dei giudici del gravame, delle deduzioni difensive relative al contributo del Da., nient’affatto implicanti il riconoscimento della generica credibilità dello stesso dichiarante.

Ma la Corte territoriale avrebbe inoltre sostenuto le proprie argomentazioni con il riferimento a prove inutilizzabili, come la testimonianza del m.llo S. in ordine alla presunta qualità del ricorrente di "reggente" del clan Crimaldi, affermazione non sorretta dai necessari riferimenti alle fonti delle conoscenze del teste; avrebbe trascurato che le dichiarazioni del D.L.T. e del Da., in quanto riferibili ad eventi storici diversi e diversamente collocati nel tempo, non sarebbero riscontrabili reciprocamente, nè potrebbero ritenersi supportate dal contributo di M.G., appartenente ad un clan avversario e limitatosi a riferire di un incontro con i presunti membri della fazione opposta;

avrebbero ignorato la sostanziale smentita dell’attendibilità del Da. legata alla sua ignoranza del rapporto di parentela tra il D.B. e la sorella Pi., e alla falsità della sua affermazione di non essersi allontanato dal territorio di Acerra;

avrebbe taciuto significativamente quanto ingiustificatamente del contributo del D’., rivelatosi il più problematico rispetto alla verifica della sua coerenza con le dichiarazioni degli altri collaboranti.

Ulteriori, specifiche considerazioni sono dedicate all’omicidio C..

In questo caso la Corte territoriale avrebbe mancato di approfondire in modo adeguato la valenza probatoria delle plurime chiamate in reità del Da. e del M., valorizzando come elemento privilegiato di credibilità quello che avrebbe dovuto piuttosto costituire motivo di maggiore prudenza nel giudizio, cioè la provenienza delle informazioni dei due dichiaranti dallo stesso ricorrente.

Apodittica sarebbe poi la valutazione delle credibilità del M., affermata dai giudici di appello con l’esclusione della necessità di riscontri esterni; probatoriamente labili le altre indicazioni ritenute dalla Corte convergenti sul coinvolgimento del D.B. nell’omicidio, come il contenuto della telefonata presuntivamente "autoesaltatoria" nel corso della quale il ricorrente si sarebbe implausibilmente vantato dell’omicidio, e comunque insuscettibili di aggiungersi ai contributi del Da. e del M., che si incrocerebbero, secondo la specifica notazione difensiva, (solo) "sul capo di imputazione".

Ancora, la sussistenza dell’aggravante della premeditazione sarebbe stata affermata dalla Corte senza considerare adeguatamente, in rapporto al fatto concreto, le caratteristiche specifiche della circostanza in esame, cioè un’apprezzabile distanza di tempo tra la programmazione e l’esecuzione dell’episodio delittuoso, unita alla permanenza per l’intero periodo del proposito criminoso, e travisando le risultanze processuali, dal momento che l’unica indicazione processuale, riferibile all’intercettazione nr. 2522 del 15.9.2003, di una prima e ipotetica parvenza di premeditazione, si sarebbe registrata solo quattro giorni prima dell’omicidio.

Quanto agli altri reati, la difesa rileva l’insuperabile cripticità della conversazione intercettata che consentirebbe di affermare la responsabilità del ricorrente in ordine ai reati in materia di armi di cui al capo 12); deduce in riferimento agli analoghi reati di cui al capo 15), che l’espressione "sicura" che figura in un’altra conversazione non sarebbe necessariamente riferibile ad un’arma da fuoco; lamenta il carattere soltanto presuntivo dell’affermazione della responsabilità dell’imputato per i reati di cui agli artt. 17 D) ed E); e analogo procedimento logico arbitrariamente deduttivo lamenta con riferimento alla valorizzazione, a carico del ricorrente, delle risultanze istruttorie relative ai reati in materia di sostanze stupefacenti di cui ai capi 44) e 45), sostanzialmente consistenti nell’intercettazione delle conversazioni del 29.8.2003, del 7.9.2003 e del 10.9.2003, interpretate dai giudici di appello con evidenti forzature logiche rispetto al loro contenuto irriducibilmente ambiguo, come chiarificatrici, oltre che del possesso di sostanze stupefacenti da parte degli interlocutori, anche di un "contesto" criminale che registrava le mire espansionistiche del D.B. nel settore del traffico di droga, in concorrenza con i clan avversari.

L.M.D., ha proposto due distinti atti di impugnazione, rispettivamente a firma dell’avv. Vittorio Giaquinto e dell’avv. Claudio Davino.

L’avv. Giaquinto deduce anzitutto, con riferimento al reato associativo, il vizio di violazione di legge e il vizio di carenza, e contraddittorietà della motivazione della sentenza impugnata ai sensi dell’art. 606 c.p.p., lett. b) ed e), in ordine alla valutazione dell’attendibilità degli imputati di reato connesso D. L.T. D’. e M..

Le dichiarazioni dei predetti collaboratori sarebbero state valutate con troppa superficialità, senza alcun approfondimento delle discrasie e delle illogicità rinvenibili nei narrati delle due fonti dichiarative, peraltro non riscontratesi a vicenda, e prive di qualunque altro elemento processuale di conferma.

Tra l’altro, il D’. sarebbe stato colto in evidente mendacio nell’affermazione di essere stato convocato dal L.M. nell’aprile del 2003, essendo il ricorrente all’epoca detenuto, e le indicazioni del D.L.T. sulla sua costante attività di scorta al ricorrente sarebbero smentite dall’assenza di controlli di polizia che li avessero mai sorpresi insieme.

A quest’ultimo riguardo sarebbe inoltre illogica la svalutazione, da parte dei giudici territoriali, dell’evidente incongruenza della precisazione del D.L.T. circa le ragioni delle precauzioni del ricorrente, che avrebbe avuto timore di attentati alla sua persona da parte di personaggi che lo stesso collaboratore aveva altre volte indicato come appartenenti allo stesso clan dell’imputato.

Quanto al M., i giudici di appello avrebbero trascurato nella valutazione della sua attendibilità, che lo stesso dichiarante apparteneva ad un clan contrapposto a quello del L.M., avendo anzi rivelato di avere più volte partecipato a progetti omicidiari ai danni del ricorrente.

Nè la Corte avrebbe adeguatamente motivato in ordine alla ritenuta concludenza come elementi di riscontro, del contenuto delle conversazioni intercettate, intervenute su utenze non riferibili al ricorrente, e solo dubitativamente attribuibili allo stesso sulla base dell’identificazione vocale effettuata dal verbalizzante S..

Anche in ordine agli altri reati la motivazione della sentenza impugnata sarebbe inadeguata.

Il coinvolgimento del ricorrente nei reati in materia di armi di cui al capo 18), dovrebbe infatti risultare da un’intercettazione ambientale in cui venivano usati dagli interlocutori termini criptici, non univocamente decodificabili nei termini supposti dall’accusa; in ogni caso, non sarebbe possibile desumerne che tutti gli interlocutori condividessero il possesso dell’arma, che in ipotesi sarebbe stata materialmente recata a bordo dell’autovettura all’interno della quale era stato attivato il servizio di captazione, dall’ A., avendo peraltro il L.M. preso posto nell’abitacolo solo in un momento successivo.

Quanto al reato di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, contestato al capo 44), sarebbe rimasto incerto il riconoscimento vocale del ricorrente come uno degli interlocutori della conversazione intercettata posta a base del giudizio di colpevolezza nei suoi confronti, e la rilevanza probatoria del contenuto della conversazione sarebbe comunque interdetta dalla sua insuperabile criticità.

L’ultimo motivo di ricorso concerne il trattamento sanzionatorio.

La difesa deduce ai sensi dell’art. 606, lett. b) ed e), il vizio di violazione di legge e la carenza e contraddittorietà della motivazione, tanto in relazione all’affermata sussistenza dell’aggravante di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 7 in assenza dei necessari riferimenti processuali alla metodologia mafiosa della condotta del ricorrente, o allo scopo di agevolazione del sodalizio criminale di appartenenza, che con riguardo alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche, lamentando comunque l’eccessiva asprezza della pena alla luce dei criteri direttivi fissati dall’art. 133 c.p..

Il ricorso a firma dell’avv. Davino indugia soprattutto sulla questione della dedotta inutilizzabilità di alcune prove valorizzate invece dalla Corte territoriale.

Sarebbe in particolare inutilizzabile la deposizione del m.llo S. tanto in ordine all’identificazione vocale del L. M. come uno degli interlocutori delle intercettazioni ambientali nr. 323 e 324, dal momento che sarebbe stata necessaria all’uopo una perizia fonica, e considerando altresì che le valutazioni del S. sarebbero smentite da una perizia fonica depositata dalla difesa; e inutilizzabile altresì il riferimento del verbalizzante ad un controllo effettuato presso le abitazioni del D. B., del L.M. e dell’ A. in coincidenza con l’intercettazione nr. 324, perchè di tale attività di polizia non esisterebbe alcuna verbalizzazione, tanto che le dichiarazioni del S. sul punto erano state ignorate sia dal giudice di primo grado che dal pubblico ministero nel suo atto di appello.

In ogni caso, in ordine ai reati in materia di droga il contenuto ambiguo delle conversazioni intercettate non potrebbe provare l’attuale disponibilità di sostanze stupefacenti da parte degli interlocutori e quanto al possesso di armi, che risulterebbe dalle intercettazioni ambientali del 17.10.2003, esso non potrebbe essere automaticamente riferito a tutti gli occupanti dell’autovettura interessata dalla captazione.

Infine, la sentenza impugnata sarebbe incorsa nel vizio di violazione di legge in relazione ai criteri stabiliti dall’art. 192 c.p.p., comma 3, per la valutazione di chiamate di correo.

Dopo un’ampia premessa in diritto sul tema, il difensore analizza i contributi del D’., la cui attendibilità sarebbe irrimediabilmente minata dalla verifica della falsità della sua affermazione di avere incontrato il ricorrente all’epoca in cui costui era ancora detenuto; e quelle del D.L.T. relative al servizio di scorta asseritamente assicurato dallo stesso collaborante al L.M. unitamente a tale D.R., senza che risulti da un qualunque controllo di polizia che l’uno o l’altro dei due presunti guardaspalle fossero mai stati sorpresi insieme al ricorrente, e avendo i giudici di appello trascurato, oltretutto, l’inverosimiglianza delle dichiarazioni del D.L.T. circa un attentato dallo stesso subito ad opera di personaggi appartenenti al suo stesso gruppo camorristico;

Con un primo motivo di censura variamente articolato in relazione ai singoli capi di condanna, i difensori di D.L.M. deducono ai sensi dell’art. 606 c.p.p., lett. c) ed e), il vizio di violazione della legge processuale in relazione all’art. 192 c.p.p., commi 2 e 3, e la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione della sentenza, con riguardo ai criteri seguiti per la valutazione delle risultanze istruttorie.

Quanto al reato associativo, la Corte territoriale avrebbe in sostanza isolato, nelle dichiarazioni degli imputati di reato connesso, e nel contenuto di alcune intercettazioni, i nuclei accusatori, senza valutare le numerose incongruenze e contraddizioni in cui i dichiaranti erano incorsi, peraltro puntualmente segnalate con l’atto di appello, e procedendo, per le intercettazioni, ad una lettura parziale o comunque decontestualizzata dei colloqui, che nella loro integralità rivelerebbero indicazioni contraddittorie con l’ipotesi accusatoria.

E così, ad es., i giudici di appello avrebbero trascurato di considerare che il D.L.T. e il Da., entrambi destinatari della stessa ordinanza di custodia cautelare che aveva raggiunto gli altri imputati, avevano effettuato la propria scelta di collaborazione solo dopo l’esecuzione anche nei loro confronti del provvedimento restrittivo, in cui erano contenute le dettagliate descrizioni de fatti di reato.

Ciò priverebbe di qualunque originalità il contributo di detti collaboratori, impedendo di discernere se essi abbiano riferito di esperienze effettivamente vissute o abbiano piuttosto architettato dichiarazioni adeguate soltanto alla conoscenza dei temi delle imputazioni propiziata dalla lettura dell’ordinanza cautelare.

Con riguardo alle intercettazioni, la difesa segnala la valutazione del contenuto della intercettazione ambientale n. 459 del 31.10.2003, che i giudici di appello ritengono confermativa della partecipazione del ricorrente al sodalizio in quanto rivelatrice del suo coinvolgimento in una pretesa estorsione trascurando l’ambiguità oggetti va del contenuto del colloquio e non considerando che il D. L. non era presente alla conversazione e che non vi sarebbe prova del presunto fatto estorsivo, di nessun fatto estorsivo essendo stato comunque il D.L. chiamato a rispondere.

Per quel che riguarda i reati in materia di armi di cui al capo 14), collegati al presunto progetto di un agguato a tale F.C., i giudici di appello avrebbero inoltre seguito un percorso logico inammissibile, procedendo cioè dal riscontro della telefonata tra il D.L. e D.B.A. del 14.8.2003, per integrarne quindi senz’altro la valenza probatoria con la chiamata di correo del Da., di cui avrebbe dovuto invece essere valutata preliminarmente l’attendibilità, tenuto conto anche degli innumerevoli errori contenuti nelle sue dichiarazioni.

Le stesse omissioni e superficialità sarebbero riscontrabili nella valutazione dei fatti di cui ai capi 17D) e 17E), riguardo ai quali i giudici di appello avrebbero indebitamente valorizzato il contenuto ambiguo di alcune intercettazioni, in particolare di quella relativa ad un colloquio tra il D.L. e il P., isolando dal contesto comunicativo le possibili indicazioni accusatorie, mentre la lettura integrale delle interlocuzioni avrebbe evidenziato decisivi elementi di perplessità.

E così, i giudici di appello non avrebbero considerato che nel corso della conversazione con il P., il D.L. avrebbe creduto di parlare con un’altra persona; avrebbe quindi manifestato una scarsa conoscenza personale del suo interlocutore; avrebbe infine mostrato di non comprendere il contenuto delle informazioni trasmessegli dal P..

L’impostazione argomentativa pregiudizialmente sperequata a favore dell’accusa sarebbe rinvenibile anche nella valorizzazione di circostanze del tutto prive di riscontri, come per esempio a proposito del riferimento contenuto a pag. 48 della sentenza, ad un incontro tra il P. e il D.L., la cui storicità non emergerebbe da alcuna risultanza istruttoria; o a proposito dell’utilizzazione di chiavi false per l’avviamento della vettura e della disponibilità del mezzo da parte del ricorrente.

Il secondo, subordinato motivo, attiene al trattamento sanzionatorio.

Denuncia, in particolare, la difesa, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., lett. e), il difetto di motivazione della sentenza in ordine al diniego delle circostanze attenuanti generiche e, per converso, in ordine alla ritenuta sussistenza dell’aggravante D.L. n. 152 del 1991, ex art. 7 rilevando in sostanza l’utilizzazione, da parte dei giudici di appello, di mere formule di stile o semplicemente riproduttive dei testi normativi di riferimento.

Nell’interesse di A.A. la difesa deduce il vizio violazione di legge e l’illogicità della motivazione ai sensi dell’art. 606 c.p.p., lett. b), c) ed e), anzitutto in ordine alla conferma della responsabilità del ricorrente per il reato associativi.

L’accusa si baserebbe soltanto sulle dichiarazioni, generiche ed assertive, del collaborante Da., che si sarebbe limitato ad indicare il ruolo di percettore di tangenti estorsive del ricorrente senza attribuirgli alcun fatto specifico.

Si tratterebbe comunque di un’indicazione priva dei necessari riscontri, non potendo essere ritenuto valido elemento di conferma le dichiarazioni di M.G., del tutto prive di originalità, essendo state rese soltanto nel corso del giudizio di appello, quando il dichiarante poteva avere avuto ampia contezza delle vicende processuali, ma nemmeno sottoposte al necessario vaglio di attendibilità.

Con il secondo motivo, la difesa censura sotto gli stessi profili di legittimità le valutazioni della Corte territoriale in ordine al coinvolgimento del ricorrente nei reati in materia di armi di cui al capo 18), rilevando l’insuperata incertezza della sua identificazione "vocale" come uno degli interlocutori delle conversazioni nr. 323 e 324 del 17.10.2003 intercettate in ambiente, identificazione che non potrebbe d’altra parte essere sorretta dal fatto che l’ A. possederebbe il soprannome di "cinese", al quale fanno riferimento gli interlocutori della intercettazione nr. 324, non avendo la sentenza spiegato perchè dovrebbe trattarsi dello stesso soggetto in ipotesi incertamente identificabile attraverso le caratteristiche vocali di cui alla conversazione del 17.10.2003, e nessuna voce essendo attribuita all’ A. nella seconda telefonata.

Anche sotto il profilo della valutazione dell’oggettività storica del fatto la motivazione della sentenza sarebbe gravemente lacunosa, perchè il possesso di un’arma sarebbe stato attribuito all’ A. dai giudici di appello sulla base di un’interpretazione opinabile del contenuto delle conversazioni, senza dire che nessuna arma fu in concreto rinvenuta dai verbalizzanti.

Le ultime censure di legittimità investono il trattamento sanzionatorio, ritenuto ingiustificatamente troppo aspro.

Il difensore di P.S.G. rileva con un primo motivo l’omessa motivazione della Corte territoriale sulle deduzioni difensive illustrate con memoria depositata il 4.12.2009 eccepisce il difetto di motivazione della sentenza in ordine agli elementi costitutivi del delitto di ricettazione, con riguardo allo scopo di profitto e all’elemento soggettivo della consapevolezza della provenienza furtiva dell’autovettura in questione, elementi che sarebbero stati incongruamente valutati dai giudici di appello, le cui conclusioni avrebbero in sostanza carattere meramente assertivo.

Peraltro, la sentenza sarebbe incorsa sul punto anche nel vizio di violazione di legge, denunciato dalla difesa ai sensi dell’art. 606 c.p.p., lett. b), avendo in sostanza disatteso il principio della non punibilità del delitto di ricettazione a titolo di dolo eventuale.

Analogo vizio sarebbe ravvisabile in relazione alla ritenuta sussistenza dell’aggravante di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 7 che sarebbe peraltro incompatibile con la stessa configurabilità del delitto di ricettazione, se nel fine agevolativo dovesse ravvisarsi l’unico possibile scopo di "profitto" nella condotta dell’imputato, in quanto privo di natura economica.

I ricorsi sono infondati.

Vanno per prime esaminate le questioni sull’utilizzabilità di alcune indicazioni di prova proposte nel ricorso a firma dell’avv. Davino.

Le censure riguardano la presunta irritualità dell’identificazione vocale del ricorrente da parte del m.llo S., e la dedotta inutilizzabilità del riferimento del teste ad un controllo di polizia che si sarebbe svolto in coincidenza con l’attività captativa del 17.10.2003 (intercettazioni ambientali nr. 323 e 324), in quanto non consacrato in apposito verbale, in violazione di quanto prescritto dall’art. 357 c.p.p..

In ordine alla prima questione, si deve obiettare che è pacifico in giurisprudenza che in tema di intercettazioni telefoniche, qualora sia contestata l’identificazione delle persone colloquianti, il giudice non deve necessariamente disporre una perizia fonica, ma può trarre il proprio convincimento da altre circostanze che consentano di risalire con certezza all’identità degli interlocutori, e tale valutazione si sottrae al sindacato di legittimità, se correttamente motivata (cfr. Cass. Sez. 6^, Sentenza n. 17619 del 08/01/2008 Imputato: Gionta e altri, proprio con riguardo ad una fattispecie in cui l’individuazione era avvenuta tra l’altro sulla base del riconoscimento delle voci da parte del personale di polizia giudiziaria, che le aveva ascoltate e individuate nel corso di precedenti intercettazioni sull’ammissibilità come mezzo di prova, del riconoscimento vocale dell’identità degli interlocutori delle conversazioni intercettate, da parte degli ufficiali di polizia giudiziaria, non essendo all’uopo previste le formalità della perizia, vedi anche Cass. SENT. 22722 06/03/2007 SEZ. 1^, Imputati Grande Aracri e altri).

Ma con specifico riferimento al L.m., la difesa non considera, inoltre, che alcune delle conversazioni più significative sono state intercettate su utenze riferibili, secondo i giudici di merito, proprio allo stesso imputato, circostanza nemmeno oggetto di specifica contestazione in ricorso, e che conferma l’identificazione del ricorrente in tutte le conversazioni intercettate anche in ambiente, non avendo la difesa replicato all’affermazione dei giudici territoriali secondo cui le voci attribuite ai singoli interlocutori erano sempre identiche.

Nella sentenza di primo grado (pag. 8 e ss.), è contenuta l’analitica indicazione delle varie utenze telefoniche e della loro riferibilità a ciascuno degli imputati, accompagnata poi dall’indicazione dei reciproci contatti e dalla sintesi del loro contenuto.

E i giudici segnalano specificamente i numerosi contatti tra l’utenza nr. (OMISSIS) del L.M., e quella nr. (OMISSIS) del D. B., intervenuti a partire dalla scarcerazione del L.M. e chiaramente riferibili a comuni interessi criminali tra i due interlocutori.

Ne consegue che all’identificazione vocale del ricorrente si aggiunge del tutto legittimamente, nelle valutazioni dei giudici di merito, la considerazione di circostanze di sicuro e convergente rilievo, che consentono di risalire non solo al ricorrente, ma in genere a tutti i soggetti di volta in volta coinvolti nelle conversazioni.

Deve essere quindi di massima ribadita, ad un primo approccio valutativo, salvi gli ulteriori approfondimenti necessari, la correttezza delle valutazioni dei giudici di merito sul rilievo probatorio delle captazioni, più di una volta assolutamente decisivo.

Quanto alla seconda questione, va rilevato che la mancata verbalizzazione da parte della polizia giudiziaria di dichiarazioni da essa ricevute, in contrasto con quanto prescritto dall’art. 357 c.p.p., non integra di per sè ipotesi di nullità o di assoluta inutilizzabilità di dette dichiarazioni attesochè nessuna sanzione in tal senso è prevista dalla succitata norma.

Nulla impedisce, quindi, salvi i limiti stabiliti nell’art. 350 c.p.p., commi 6 e 7, che del loro contenuto venga fatta relazione all’autorità giudiziaria e che, comunque, l’ufficiale o agente di polizia giudiziaria renda testimonianza "de relato" (cfr. Corte di Cassazione SENT. 00855 29/11/1999 – SEZ. 2^ Lanzillotta; nel senso che l’inosservanza dell’obbligo di verbalizzazione degli atti di indagine compiuti dalla polizia giudiziaria non è sanzionata dalla legge, cfr., anche, Cassazione SENT. 15554 13/03/2009 Lo Russo e altri).

D’altra parte la difesa nemmeno deduce di avere sollecitato, nel corso del giudizio di merito, il controllo delle dichiarazioni del m.llo S. sul servizio di polizia disposto presso le abitazioni degli interessati, con riguardo ad es., all’identificazione dei militari effettivamente impiegati nell’atto, o alle risultanze "interne" del competente ufficio dell’arma circa gli ordini di servizio della giornata del 17.10.2003.

Si deve poi ulteriormente rilevare che nella specie il controllo di polizia a cui si riferisce la difesa, risulta in definiva non soltanto dalle indicazioni del S., ma anche dal contenuto dell’intercettazione ambientale nr. 324 del 17.10.2003, eseguita all’interno dell’autovettura del D.B. e legata da una successione logico-temporale con quella nr. 323 dello stesso giorno, i cui interlocutori sono sicuramente identificabili, come si vedrà, nel D.B., nel L.M. e nell’ A. anche per circostanze di prova diverse dal collegamento con quel controllo.

Valutate tutte le circostanze del caso, correttamente quindi i giudici territoriali hanno concluso per l’effettiva attribuibilità al L.M. delle telefonate o delle conversazioni in ambiente a lui ritenute riferibili dall’accusa, senza che possano assumere particolare rilievo gli esiti della perizia fonica depositata dalla difesa nel corso del giudizio di merito, richiamata anzitutto irritualmente solo per relationem, e che comunque, secondo le stesse deduzioni difensive, non avrebbe nemmeno rilevato l’incompatibilità tra la voce del ricorrente e quella di uno degli interlocutori delle conversazioni, il passaggio successivo nella direzione della coincidenza "fonica" essendo giustificato dalla convergenza di numerose altre indicazioni.

Tanto premesso, vanno quindi esaminate le deduzioni difensive relative all’imputazione associativa, con la distinta analisi delle posizioni dei ricorrenti che vi sono coinvolti, e quelle attinenti alle imputazioni in cui, tra gli odierni ricorrenti, è implicato il solo D.B., per poi passare all’analisi dei motivi di ricorso nella parte concernente le imputazioni "collettive", sulle quali intuitivamente convergono in larga parte identiche risultanze istruttorie.

Saranno infine esaminate le censure attinenti al trattamento sanzionatorio.

A) L’imputazione associativa.

1) Per quel che riguarda il ricorso proposto nell’interesse del D. B., si deve anzitutto dar conto della doglianza relativa all’omessa risposta della Corte territoriale ai motivi di appello.

Al riguardo, si deve in linea di principio rilevare che il presunto appiattimento dei giudici di secondo grado sulle valutazioni espresse dal Tribunale, è in misura più o meno ampia inevitabile in qualunque pronuncia di conferma di una precedente decisione, costituendo anzi le sentenze di primo e secondo grado, quando concordino nell’analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento delle rispettive decisioni, un unico complesso corpo argomentativo, in cui la struttura motivazionale della sentenza di appello si salda con quella precedente (cfr. cass Sez. 1^, n. 8868 del 26/06/2000 Sangiorgi).

Deve quindi ritenersi legittimo, nella piena coincidenza di due giudizi di merito, anche un rinvio del giudice sovraordinato agli argomenti esposti dalla pronuncia di prime cure, a meno che con i motivi di appello non siano state poste specifiche questioni per le quali l’apparato argomentativo della sentenza del giudice dell’impugnazione deve essere autonomo ed autosufficiente (Cass. Sez. 4^ Pen., n. 6980/1997).

L’istanza fondamentale della sintesi, peraltro oggetto della specifica prescrizione dell’art. 544 c.p.p., comma 1, corrisponde poi all’ovvia esigenza di escludere che l’adeguatezza del costrutto motivazionale di un provvedimento giudiziario si misuri su un mero confronto "aritmetico" tra deduzioni difensive e risposte del giudice, favorendo incontrollabili e strumentali proliferazioni argomentative di parte.

In ogni caso, la motivazione della sentenza di appello è del tutto congrua se il giudice abbia confutato gli argomenti che costituiscono l’"ossatura" dello schema difensivo dell’imputato, e non una per una tutte le deduzioni difensive della parte, ben potendo, in tale opera, richiamare alcuni passaggi dell’iter argomentativo della decisione di primo grado, quando appaia evidente che tali motivazioni corrispondano anche alla propria soluzione alle questioni prospettate dalla parte (Corte di Cassazione Nr. 01307 del 26/09/2002 RIC. Delvai).

Va ulteriormente sottolineato che l’incompletezza della motivazione delle sentenza di appello, deve essere apprezzata in relazione a quelle specifiche doglianze che siano dotate del requisito della decisività (Corte di Cassazione nr. 35918 17/06/2009 SEZ. 6^, RIC. Greco) e che, infine non costituisce causa di annullamento della sentenza impugnata il mancato esame di un motivo di appello che risulti manifestamente infondato (Corte di Cassazione Sez 4^, 17/04/2009 Ignone e altri).

Si vedrà più oltre che i lamentati "vizi di fondo" della sentenza impugnata rispetto alle esigenze argomentative del caso non sono in realtà ravvisabili, apparendo piuttosto proprio le deduzioni difensive alquanto riduttive e parziali rispetto al costrutto motivazionale del provvedimento, che nella sua dichiarata integrazione con la sentenza di primo grado, contiene in realtà anche implicitamente, sufficienti risposte ai temi proposti dalla difesa.

Con specifico riferimento all’imputazione associativa di cui al capo 1), le deduzioni difensive appaiono inoltre viziate da una forzata e sostanzialmente erronea interpretazione di alcuni incisi argomentativi della sentenza impugnata.

Del presunto "consenso" della difesa alla valutazione dell’attendibilità del Da., ad es., non si trova in realtà traccia nel provvedimento, dove si precisa, piuttosto, a pag.

30, che gli appellanti non avevano contestato che il collaboratore fosse stato affiliato al clan Crimaldi, e che non erano riusciti ad indicare motivi di ostilità tra lo stesso e i soggetti accusati, avendo quindi i giudici tratto la valutazione di credibilità del dichiarante in termini del tutto disancorati da "riconoscimenti" difensivi.

Peraltro, nella pagina successiva si da atto del tentativo difensivo "di attaccare l’attendibilità delle dichiarazioni di Da." con specifico riferimento all’episodio omicidiario di cui al capo 17A).

La deduzione del ricorrente del "travisamento della prova" sarebbe comunque del tutto sproporzionata rispetto alla sottolineatura di simili sfumature, a prescindere dalla considerazione che si tratterebbe al più del fraintendimento dei motivi di appello, non dell’erronea lettura dei contenuti della prova dichiarativa.

Per il resto, le deduzioni difensive sulla inattendibilità del Da. non vanno molto al di là della segnalazione di circostanze assolutamente marginali e davvero poco significative, come la presunta ignoranza, da parte del collaborante, del rapporto di parentela tra il ricorrente e la sorella che lo ospitava; o come il dedotto mendacio del collaborante rispetto alla sua affermazione di "non essersi allontanato dal territorio di Acerra", riportata dalla difesa senza specifici riferimenti processuali che consentano di apprezzare compiutamente l’effettiva portata della dichiarazione e la rilevanza della "menzogna" già rispetto allo stesso concetto di "allontanamento", in quanto non necessariamente significativo di un distacco dal territorio assolutamente continuo e ininterrotto e dell’impossibilità del mantenimento di contatti con altri componenti del sodalizio durante il periodo dell’assenza.

Quanto alle dichiarazioni del m.llo S., esse sono richiamate nel testo della sentenza esclusivamente con l’implicito rinvio alla sentenza di primo grado, ma non risultano particolarmente valorizzate dai giudici di appello.

In ogni caso i giudici di merito legano precipuamente la ricostruzione del generale contesto investigativo in cui sarebbero collocabili i vari fatti criminosi, anche e soprattutto ai risultati delle intercettazioni telefoniche o ambientali, del tutto autonomamente valutabili rispetto alle dichiarazioni del S., e oggetto in effetti di attenta analisi, soprattutto nella sentenza di primo grado, risultando in definitiva il contributo del S. utilizzato (o comunque utilizzabile) più che altro in riferimento ad alcune operazioni di polizia, (come l’arresto di alcuni membri del clan avversario al D.B. del 6.9.2003; il controllo su un’autovettura del 14.8.2003; gli accertamenti sulla data di scarcerazione del L.M. ecc.), in parte qua, quindi, nei limiti di compatibilità con la natura della specifica fonte dichiarativa, per il resto ampiamente "surrogabile" da ben diversi elementi di prova.

La Corte territoriale indugia invece particolarmente sulle dichiarazioni dei collaboratori D.L.T., Da. e M., ma ripropone, in definitiva, attraverso il rinvio per relationem alla sentenza di primo grado, anche quelle del D’., sia pure con la precisazione che esse avrebbero potuto comunque essere sottratte dal materiale probatorio senza rischi per la tenuta del complessivo quadro accusatorio.

I giudici sottolineano anche gli specifici riscontri offerti all’ipotesi associativa da quanto emerso in ordine a ben identificate attività criminali, in questo senso la valutazione di attendibilità dei dichiaranti essendo del tutto coerente, ad es., con la conferma del giudizio di responsabilità del D.B. per i reati in materia di sostanze stupefacenti di cui ai capi 44) e 45), in ordine ai quali le prove acquisite varrebbero come si vedrà più oltre, al meglio delle stesse deduzioni difensive, quanto meno ai fini dell’indicazione dell’interesse del D.B. per l’illecito traffico, a conferma della precisazione del Da. secondo cui il sodalizio guidato dal ricorrente era "specificamente attivo" tra l’altro, nel campo degli stupefacenti.

Così come, a proposito del collaborante D’., non può trascurarsi che le propalazioni accusatorie dello stesso sul contesto associativo, in particolare sul solido legame che univa il D.B. al L.M., del tutto ragionevolmente sono state accreditate dai giudici di merito, considerando il più che significativo riscontro, offerto, ad es., dal contenuto della conversazione telefonica tra il D.B. e il D.L. del 28.8.2003 (int. nr.

1252), nel corso della quale il primo esprimeva il proprio compiacimento per l’avvenuta scarcerazione del secondo (cfr. sentenza di primo grado, pag. 45), indipendentemente dai dubbi e dalle perplessità alle quali il collaborante possa avere prestato il fianco rispetto ad altre indicazioni; ma anche dai successivi, intensi contatti telefonici tra i due di cui si è già parlato, e dai controlli di polizia aggiunti a comuni soggiorni alberghieri, in occasione dei quali i due ricorrenti risultarono insieme.

Ed è dal contenuto indubbiamente significativo di altre e numerose intercettazioni telefoniche che i giudici di primo grado ricostruiscono la faida criminale che opponeva il D.B. e i soggetti a lui più vicini al clan in cui militavano il C., il D.F. il P. ecc., e agevolmente individuano il ruolo di primo piano del ricorrente, che nel corso della conversazione telefonica nr. 431 del 22.6.2003 espressamente anzi lo rivendica, rivelando l’intenzione di fare il "dittatore" (vedi sent. 1^ grado, pag. 65).

Considerando quindi che il più solido fondamento probatorio dell’imputazione in esame è costituito proprio dal contenuto delle numerose intercettazioni telefoniche compiutamente analizzate dai giudici di merito con argomentazioni logiche e coerenti, ma significativamente oggetto in ricorso soltanto di qualche generica notazione, si rivelano in conclusione del tutto insufficienti le deduzioni difensive nella parte in cui si limitano in sostanza a sottolineare presunte ragioni di perplessità a proposito delle dichiarazioni dei vari collaboranti.

Anche in questa limitata ottica, peraltro, la difesa spesso nemmeno incisivamente pretende di cogliere sintomi di inattendibilità dei vari collaboranti.

Così è, ad es., con riguardo ai diversi periodi temporali cui gli uni e gli altri si riferirebbero, circostanza quest’ultima comunque ben poco decisiva, come del tutto irrilevante è che il M. militasse nella fazione opposta al D.B., essendo anzi ovvio che lo stesso potesse proprio per questo recare il proprio contributo alla ricostruzione delle contese criminali nel territorio di Acerra, e altrettanto ovvio che un incontro tra esponenti di clan avversari sia significativo del coinvolgimento di tutti i partecipanti nelle stesse dinamiche criminali, per quanto su fronti contrapposti.

Così come la generica illazione che i dichiaranti, specie, il M., conoscessero già i fatti e la direzione soggettiva degli addebiti, non mina di per sè l’attendibilità dei collaboranti, ma nella misura (nemmeno precisata in ricorso rispetto alle singole imputazioni) in cui potrebbe indurre qualche perplessità sulla "originalità" dei vari contributi collaborativi, ne imporrebbe semmai una più attenta valutazione sotto il profilo dei riscontri, quelli analizzati dai giudici di merito possedendo peraltro una valenza dimostrativa pressochè autonoma.

Se ne trae quindi la conferma della adeguatezza della censurata scelta di sinteticità motivazionale dei giudici di appello, a fronte di argomentazioni difensive parziali e intese alla disarticolazione del complessivo materiale istruttorio, rispetto alle quali valeva a sufficienza la ribadita tenuta delle condivise argomentazioni del giudice di primo grado.

2) L’imputazione associativa nei confronti del L.M., risulta oggetto di censure difensive dirette soprattutto, come si è visto, ad invalidare i risultati di prova delle attività captative (nella stessa strategia difensiva rientra, in definitiva, anche la contestazione dell’utilizzabilità delle dichiarazioni del m.llo S. in ordine al controllo di polizia del 14.8.2003).

All’infondatezza delle censure difensive sul punto, consegue inevitabilmente il sostanziale indebolimento "generale" delle critiche rivolte alla sentenza impugnata, che proprio nelle intercettazioni telefoniche e ambientali, e in fatti storicamente accertati, individua i "riscontri ben più consistenti" all’ipotesi accusatoria, rispetto a quelli desumibili dalla convergenza delle fonti dichiarative.

I giudici di appello menzionano anzitutto le conversazioni nr. 1252 e 1263, del 28.8.2003, nel corso delle quali il D.B. manifesta il proprio compiacimento, prima al D.L., poi all’ A., per la recente scarcerazione del L.M.; sottolineano i comuni soggiorni alberghieri tra il L.M. e il D.B., e numerosi controlli di polizia in occasione dei quali i due furono sorpresi insieme, rilevando che uno di quei controlli, eseguito il 20.12.2003, aveva portato all’arresto degli stessi ricorrenti insieme ad altri soggetti; analizzano particolareggiatamente i reati fine ascritti in concorso all’uno e all’altro (capi 18) e 44), il primo in materia di armi, desumibile dall’inequivocabile contenuto delle intercettazioni ambientali nr. 323 e 324 del 17.10.2003, dalle quali emerge la presenza di un’arma che uno degli occupanti dell’autovettura del D.B., interessata dall’attività captativa, appare anzi intenzionato ad impiegare sconsideratamente;

il secondo in materia di sostanze stupefacenti, anch’esso correttamente ritenuto dai giudici di appello sulla scorta delle stesse attività captative, per i chiari riferimenti dei due imputati al possesso di sostanze stupefacenti da consegnare a tale "centoottanta", diminutivo con il quale era conosciuto un importante spacciatore della zona di (OMISSIS).

Ma è manifestamente infondata, nei suoi concreti termini, anche la deduzione difensiva della totale inattendibilità del D’., in quanto incentrata essenzialmente sul presunto mendacio del dichiarante sulla collocazione temporale di un incontro che lo stesso avrebbe avuto con il L.M. nel 2003, essendosi il D’., secondo la difesa, riferito ad un’epoca in cui il ricorrente era detenuto.

E’ ovvio che in questo caso le deduzioni difensive dovrebbero fare aggio su una indiscutibile e meditata precisione dei riferimenti temporali del dichiarante riguardo all’incontro con il L.M., che però non è affatto rilevabile dalla motivazione della sentenza di primo grado, dalla quale può al più desumersi (pag. 23) la collocazione in epoca probabilmente prossima alla scarcerazione del D’., avvenuta il 31.3.2003, della sua convocazione da parte del D.B.; mentre rimane del tutto vaga la datazione dell’incontro sicuramente successivo con il L.M. (pag. 24), solo assertivamente indicata dalla difesa nel mese di Aprile del 2003.

Si è visto, poi, che nell’indicazione dello stretto rapporto personale e criminale tra il L.M. e il D.B., le dichiarazioni del D’. ricevono indiscutibili e plurimi riscontri, a partire dal contenuto delle numerose intercettazioni telefoniche che rivelano la ferrea solidarietà degli interessi criminali dei due ricorrenti, consentendo una verifica dell’attendibilità del dichiarante sul punto disancorata dalla valutazione della sua attendibilità generale (cfr. Corte di Cassazione sez. 6^, Sent. Nr. 20514 del 28/04/2010, Arman Ahmed e altri, secondo cui l’accertata falsità della chiamata di correo in ordine ad uno specifico fatto narrato non comporta, in modo automatico, l’aprioristica perdita di credibilità di tutto il compendio conoscitivo-narrativo dichiarato dal collaboratore di giustizia, rientrando piuttosto nei compiti del giudice la verifica e la ricerca di un "ragionevole equilibrio di coerenza e qualità" di ciò che viene riferito nel contesto di tutti gli altri fatti narrati, anche se nel rispetto del criterio secondo cui la debole valenza di attendibilità soggettiva deve essere compensata con l’individuazione di un più elevato e consistente spessore dei riscontri, attraverso il necessario minuzioso raffronto con le verifiche di credibilità estrinseca delle dichiarazioni).

E sono manifestamente infondate anche le censure relative al riconoscimento, da parte dei giudici territoriali, dell’attendibilità del D.L.T., la prima fondata sull’assenza di controlli di polizia che avessero mai sorpreso insieme lo stesso collaborante e il L.M., trattandosi di un dato negativo di per sè del tutto neutro, oltre che riferibile a situazioni del tutto aleatorie e casuali, come non mancano di rilevare i giudici territoriali; la seconda concernente la presunta inverosimiglianza del racconto del Da. relativo ad un agguato subito insieme ad altri soggetti da parte di un gruppo comprendente un esponente della sua stessa cosca, ancora una volta apparendo pienamente condivisibile l’argomentazione della Corte territoriale quando sottolinea in sostanza che anche faide interne e "tradimenti" sono tutt’altro che inconsueti nelle dinamiche criminali di un’associazione mafiosa.

3) Ancora più riduttive e generiche sono le deduzioni formulate nell’interesse di A.A. che puntano anzitutto sulla svalutazione delle dichiarazioni del Da., in quanto solamente assertive sul presunto ruolo del ricorrente di percettore di tangenti estorsive, in assenza di indicazioni su qualunque fatto specifico e di idonei riscontri.

Privo di originalità inoltre sarebbe il contributo del M., in quanto intervenuto in una fase processuale in cui il dichiarante poteva avere avuto ampia contezza delle vicende processuali.

La difesa omette peraltro di interloquire sul riferimento della Corte territoriale all’arresto del ricorrente il 20.10.2003 insieme al coimputato L.M.D. e ad altri soggetti, in occasione del quale era stata sequestrata una lista di nomi con l’indicazione di cifre; così come non interloquisce sul contenuto delle conversazioni telefoniche n. 80 del 6.8.2003 e 309 del 10.9.2003, entrambe intercorse tra l’ A. e il D.B., che i giudici di appello adducono ad ulteriore riscontro dell’inserimento del ricorrente nella cosca del D.B..

Infine, va ascritto ad importante elemento di riscontro dell’accusa associativa, in accordo con le valutazioni dei giudici territoriali, anche il contenuto dell’intercettazione ambientale nr. 323 del 17.10.2003, nella parte riferibile al possesso di un’arma da parte dell’ A., in quell’occasione in compagnia del L.M. e del D.B., in una situazione chiaramente rivelatrice dei comuni interessi criminali di tutti, dovendosi ritenere infondate, come si vedrà le censure difensive attinenti allo specifico episodio (oggetto dell’imputazione sub 18), con particolare riguardo all’identificazione dell’ A. come uno degli interlocutori della conversazione intercettata.

E’ di tutta evidenza, quindi, la troppo angusta prospettiva del ricorso, che non va sostanzialmente al di là di qualche notazione sulla presunta genericità delle dichiarazioni del Da. (che comunque non potrebbero certo essere a priori svalutate in quanto non indicano specifici episodi estorsivi in cui sia coinvolto il ricorrente, soprattutto a fronte dei riscontri segnalati dai giudici di appello in ordine alla precisazione del suo ruolo di "esattore");

o di altrettanto veloci rilievi sulla presunta inattendibilità del M., riferita ad un bagaglio di conoscenze "processuali" soltanto supposto nella sua ipotetica sovrapponibilità ad autonome conoscenze "storiche", e comunque mai specificato con riferimento ai singoli contenuti delle dichiarazioni dello stesso collaborante.

4) D.L.M..

La motivazione della sentenza impugnata, nella parte relativa al ribadito giudizio di responsabilità del ricorrente per il reato associativo, è oggetto di contestazioni difensive troppo spesso generiche e assertive, a fronte delle puntuali argomentazioni dei giudici di appello.

La difesa procede dalla aprioristica valutazione, comune anche agli altri ricorsi, della presunta inattendibilità dei collaboratori D. L.T. e Da. a cagione della dedotta mancanza di originalità dei loro contributi, argomento ancora una volta proposto senza alcuna concreta specificazione circa le conoscenze processuali effettivamente disponibili da parte degli stessi collaboranti;

formula quindi un non troppo approfondito riferimento alle emergenze della intercettazione ambientale delle ore 6,43 del 14.8.003, compresa tra quelle che monitorarono, secondo l’accusa, lungo l’arco della stessa giornata, gli appostamenti diretti all’esecuzione di un agguato contro un esponente del clan avverso a quello del D.B., per negare poi il valore di riscontro alle indicazioni del Da. su detti appostamenti, sulla base dei non meglio indicati "innumerevoli errori del dichiarante" (irrituale è il generico richiamo ai motivi di appello), senza nemmeno specificare se e in quale misura tra questi errori alcuni riguardino proprio il narrato relativo al progetto omicidiario in questione; indugia infine sulle emergenze intercettative relative ai fatti di ricettazione ed incendio di cui ai capi 17D) e 17E), e sull’intercettazione ambientale nr. 459 del 31.10.2003 per contestarne il rilievo probatorio sulla base di una serie di considerazioni intese a dimostrare l’illogicità delle contrari valutazioni dei giudici territoriali.

Non prende affatto posizione, invece, sul contributo di D’.

A., ricordato dalla corte territoriale come confermativo del coinvolgimento del D.L. nelle attività criminali del clan Di Buono; non sul contenuto dell’intercettazione del 20.10.2003 (pag. 45 della sentenza impugnata), che anticipava la partecipazione del ricorrente ad un incontro con il D.B. ed altri affiliati del clan, poi oggetto di un intervento di polizia che condusse all’arresto di tutti i convenuti e che i giudici di appello ritengono condivisibilmente significativo a dispetto dell’assoluzione del D. L. dall’imputazione in materia di armi di cui al capo 20) scaturita da quell’operazione a carico dello stesso ricorrente e del D.B.; ma non si occupa nemmeno dell’ulteriore indicazione a carico del D.L. desumibile, come sottolineano i giudici di primo grado, dalle conversazioni rispettivamente oggetto dell’intercettazione n. 1252 del 28.8.2003, nel corso della quale il D.B. si preoccupa di informarlo dell’intervenuta scarcerazione di L.M.D., e nr. 2856 del 19.9.2003, cioè il giorno dell’uccisione del C., quando il D.B. invita il D. L. ad un incontro a cui avrebbero dovuto partecipare il L. M. e " To."; tutte indicazioni che nel complessivo costrutto argomentativo dei giudici di merito si compongono in quadro accusatorio giustamente ritenuto perfettamente coerente con l’ipotesi associativa.

Senza dire che nemmeno le parziali deduzioni difensive colgono nel segno.

Come si vedrà, infatti, la motivazione dei giudici territoriali non si presta a censura alcuna neanche in ordine alla ritenuta partecipazione del ricorrente ai reati di cui ai capi 17D) ed E);

mentre non rileva, come giustamente notano i giudici territoriali, che non sia risultato il coinvolgimento del ricorrente in specifici episodi estorsivi, a fronte delle indicazioni sul ruolo di "esattore" del D.L. provenienti dal Da. e confermate sul piano logico dal contenuto dell’intercettazione ambientale nr. 459 del 31.10.2003, poichè le indicazioni sulla posizione di taluno all’interno di una organizzazione criminale, non devono necessariamente essere supportate dall’accettata partecipazione dell’interessato a qualunque reato fine, essendo sufficiente la prova dell’assunzione di un ruolo (anche soltanto "preventivato") significativo dell’adesione al programma associativo o comunque della volontà di contribuire stabilmente alle sorti del sodalizio.

B) Le altre imputazioni a carico del D.B..

B1) l’imputazione omicidiaria e reati connessi (capi 17A) e 17B).

La difesa contesta, anzitutto, il particolare rilievo attribuito dalla corte territoriale alla circostanza che le indicazioni accusatorie formulate a carico del D.B. dal Da. e dal M., provenissero dallo stesso D.B..

La censura non è priva di un qualche fondamento teorico, nella misura in cui sottolinea, con riferimento a fonti dichiarative ritenute dallo stesso legislatore non idonee a fornire senz’altro la prova diretta dei fatti rappresentati (cfr. art. 192 c.p.p., comma 3), il rischio di troppo contratte scorciatoie probatorie attraverso l’agevole riferimento a dichiarazioni confessorie dei soggetti coinvolti nelle propalazioni accusatorie; ma si rivela del tutto astratta quando si passa sul piano della verifica dei contenuti concreti dei contributi dichiarativi in questione alla stregua delle altre risultanze istruttorie, finendo con l’esprimere, di là dalla formale affermazione di principio della necessità di più rigorosi riscontri, l’inammissibile opzione contraria dell’aprioristica inattendibilità delle dichiarazioni dei collaboranti in quanto riferite a presunte confessioni del ricorrente, in contrasto con il principio della utilizzabilità delle dichiarazioni de relato riferibili a confessioni extraprocessuali dell’imputato (cfr. ex plurimis, Corte di Cassazione SENT. 17437 13/03/2009 SEZ. 2^ RIC. Leone).

Sul piano dei riscontri, poi, i giudici di merito sottolineano efficacemente il collegamento delle rivelazioni dell’imputato ai due collaboratori con il contenuto della conversazione tra il D.B. e un altro soggetto intercettata (nr. 2895) alle ore 20,42 del 19.9.2003, cioè a poche ore dall’omicidio, del tutto coerentemente traendone l’indicazione di una orgogliosa rivendicazione del crimine da parte del ricorrente, che non solo si vanta di essere il "numero uno" in immediata successione temporale con l’esecuzione del delitto, ma discute subito dopo con il suo interlocutore dell’opportunità di cancellare possibili prove con l’incendio dell’autovettura usata per raggiungere il luogo in cui stazionava la vittima, essendo indiscutibile, come si vedrà in occasione dell’analisi dei ricorsi nella parte relativa ai reati di cui ai capi 17D) e 17E), la decodificazione da parte dei giudici territoriali dell’allusione dei due ad un "cane che deve bruciare".

Rispetto ad un contesto fattuale di riferimento di tutte le interlocuzioni (dalla "vanteria" dell’imputato alla cancellazione delle tracce del delitto) chiaramente riferibile al medesimo episodio criminoso, i giudici di appello sottolineano poi le numerose emergenze probatorie da cui risulta chiaramente la necessità "strategica" del ricorrente di eliminare uno dei suoi più pericolosi avversari nel momento di una resa dei conti che doveva inevitabilmente concludersi con la soccombenza fisica di uno dei due.

E ancora una volta il quadro probatorio viene rafforzato, nelle valutazioni dei giudici di merito, dal riferimento alle prove dichiarative, compreso il contributo del D’., che come si legge nella sentenza di primo grado indicò i retroscena criminali dell’omicidio in piena aderenza a quanto emerge dal contenuto delle intercettazioni telefoniche, meritandosi sul punto una valutazione di attendibilità che attesa la qualità dei riscontri non potrebbe soffrire l’interferenza di inesattezze e imprecisioni altrove eventualmente ravvisabili nelle sue dichiarazioni.

Vale in particolare al riguardo il richiamo a tutte le intercettazioni telefoniche e ambientali dalle quali risulta, secondo l’analisi ragionata, logica e coerente dei giudici territoriali, l’evoluzione della faida che opponeva il D.B. al clan del Castaldo, compiutamente analizzate nella sentenza di primo grado (pagg. 89 e ss.) e svalutate dalla difesa solo con l’assertiva deduzione del loro presunto contenuto criptico, che si risolve, nella sua genericità, in una diversa (non) interpretazione di merito del contenuto delle conversazioni, oltretutto considerate isolatamente e non nel loro evidente collegamento logico.

Il contesto criminale in cui si inscrive l’omicidio, secondo la coerente ricostruzione dei giudici di merito, da conto anche delle possibili perplessità che potrebbero suscitare le rivendicazioni e le rivelazioni del proprio protagonismo da parte del D.B., apparentemente così spregiudicate e incaute, ma che nelle contingenze del caso erano invece strumentali all’affermazione del suo primato criminale sul territorio, con l’esibizione delle sue capacità operative e dell’efficace perseguimento del progetto di espansione del suo gruppo criminale ai danni del clan rivale.

Quanto alle questioni difensive sulla ricostruzione della dinamica dell’episodio omicidiario, anche alla luce dei risultati della perizia autoptica, la sentenza di primo grado contiene un’ampia e del tutto esauriente ricostruzione del fatto storico, anche sulla base della perizia autoptica, e si comprende quindi perchè i giudici di appello si siano sul punto limitati al mero richiamo delle argomentazioni del giudice sottordinato.

Ma vi è poi da rilevare che la ricostruzione della dinamica del delitto non appare affatto decisiva, valendo in questo caso più che altro come criterio di verifica dell’attendibilità del D’. e del Da., ma non tanto ai fini dell’individuazione del quadro delle responsabilità soggettive, che emerge con certezza delle altre emergenze istruttorie sopra segnalate, in misura rilevante riferibili ad un contesto di prova assolutamente genuino nella parte relativa alla rivendicazione del merito dell’agguato da parte del D.B..

Così come sul D.B., come notano i giudici territoriali, converge indiscutibilmente il movente dell’omicidio, riferito dal D’. ma ricavabile anche dalle altre numerose risultanze di prova, anche di carattere intercettativo, che consentono di ascrivere il fatto al contesto della faida criminale che opponeva il clan guidato dal D.B. al clan avversario di cui faceva parte l’ucciso, e che le indicazioni di prova sottolineate dai giudici di merito riescono per dir così ad illustrare anche dal punto di vista della cosca rivale, rispetto alle mire espansionistiche dell’imputato (vedi lo sfogo tra gli interlocutori della conversazione nr. 2049 del 4.3.2009, intercettata all’interno della Lancia Thema nella disponibilità di Pa.Ma., nel corso della quale i dialoganti lamentano che "si sta pigliando tutte cose lui, An……"si è abbuffato come il porco").

Nè può trascurarsi che dalle intercettazioni telefoniche, come notano i giudici di merito, si ricava che il D.B. è coinvolto in prima persona nella decisione di dare fuoco all’autovettura usata nell’agguato, alla stregua delle imputazioni di cui ai capi 17D) e 17E), a partire da quanto si desume (vedi supra) dalla telefonata "di rivendicazione".

In ogni caso, la sentenza di primo grado da atto delle imprecisioni ed incertezze nel racconto dei due collaboratori, rilevando che, comunque, essi avevano fornito indicazioni separatamente ricevute soltanto de relato, e condizionate, quindi, nella rispettiva ampiezza, anche dalla "misura" delle confidenze del D.B.; e sottolinea che, pur con indicazioni diverse, i due collaboratori finiscono complessivamente per indicare anche le armi effettivamente usate per l’omicidio (un kalashnikov e un’arma da fuoco a canna corta).

Rispetto a tali complete valutazioni poco vi era da aggiungere, e non poteva comunque che rimanere insoluto il contrasto tra le informazioni de relato dei due collaboratori sulla circostanza che uno degli attentatori (secondo il Da. proprio il D. B.) era disceso dall’autovettura per finire la vittima con un colpo ravvicinato, e quella del padre dell’ucciso, C. A., secondo cui tutti i colpi erano stati sparati da un’arma a canna lunga all’interno dell’autovettura usata per l’agguato che subito dopo si era dileguata.

I giudici di merito privilegiano però ragionevolmente i risultati della perizia autoptica, per l’ovvia oggettività dell’accertamento e per la "qualità" della fonte, rilevando che l’esplosione di un colpo successivo a distanza ravvicinata, come riferito dal Da., risulta inequivocabilmente dalle conclusioni peritali, potendosi aggiungere che la versione dei fatti proposta dal C.A. consentiva al teste di eludere la responsabilità dell’identificazione degli autori del delitto.

In ogni caso, per quel che si è detto, l’una o l’altra ricostruzione non sarebbero affatto decisive ai fini dell’accertamento del coinvolgimento del D.B. nell’omicidio, comunque non smentito dalla prova generica.

Del tutto condivisibile, e immune dalle censure del ricorrente è anche la motivazione della sentenza impugnata sulla sussistenza dell’aggravante della premeditazione, avendone i giudici di appello individuati i requisiti nella necessaria preventiva organizzazione dell’agguato, che nella fase finale aveva richiesto alcuni giorni per la predisposizione di più armi e la mobilitazione di più complici, concorrendo alla confutazione dei motivi di ricorso sul punto, anche l’opportuna considerazione che la decisione del delitto, era da tempo maturata e fu nel tempo tenacemente coltivata dal D.B. fino alla sua effettiva esecuzione, come mezzo per l’affermazione del proprio primato criminale, nel quadro dei progetti espansionistici rivelati dal contenuto di numerose e alquanto risalenti conversazioni intercettate.

Per converso, chiaramente arbitraria appare la deduzione difensiva secondo cui un lasso di tempo di quattro giorni, quale quello che sarebbe rilevabile tra le prime sicure emergenze del proposito delittuoso e la sua esecuzione, non sarebbe sufficiente ai fini dell’integrazione dell’aggravante.

Premesso che per la sussistenza della circostanza aggravante della premeditazione sono necessari due elementi: uno, ideologico o psicologico, consistente nel perdurare nell’animo del soggetto, senza soluzione di continuità fino alla commissione del reato, di una risoluzione criminosa ferma ed irrevocabile; l’altro, cronologico, rappresentato dal trascorrere di un intervallo di tempo apprezzabile, fra l’insorgenza e l’attuazione di tale proposito, intervallo, la consistenza minima dell’elemento cronologico non può infatti essere in astratto rigidamente quantificata, ma deve risultare in concreto sufficiente a far riflettere l’agente sulla decisione presa ed a consentire il prevalere dei motivi inibitori su quelli a delinquere (Corte di Cassazione nr. 7970 del 06/02/2007 SEZ. 1^ imputato Francavilla).

Semmai, in termini di compatibilità logica con le circostanze del fatto concreto, l’aggravante della premeditazione va esclusa quando l’occasionalità del momento di consumazione del reato appaia preponderante, tale cioè da neutralizzare la sintomaticità della causale e della scelta del tempo, del luogo e dei mezzi di esecuzione (Corte di Cassazione nr. 45466 del 28/10/2008 SEZ. 1^, Caleffi e altro).

Nel caso di specie, il lasso di tempo indicato dalla difesa non è certamente così breve da escludere la programmazione del delitto e la persistenza del proposito criminoso, confermate peraltro dalla evidente preordinazione dei mezzi occorrenti, e tanto meno avrebbe impedito l’attivazione di meccanismi inibitori rispetto all’attuazione finale del progetto delittuoso, così come è certamente da escludere, infine, l’occasionalità dell’azione omicidiaria. b2) Le residue imputazione "esclusive" a carico del D.B. sono quelle in materia di armi di cui ai capi 12) e 19B), e quella in materia di sostanze stupefacenti di cui al capo 45).

In questo caso, le vaghe censure difensive sul presunto contenuto criptico delle intercettazioni che fondano il costrutto accusatorio, cedono senz’altro di fronte all’inequivocabile tenore letterale delle conversazioni, come rilevato e correttamente analizzato dalla Corte territoriale.

Brevemente, i giudici di appello sottolineano, quanto all’imputazione sub 12, le intercettazioni nr. 112 del 31.7.2003, 242, 247 e 258 del 2.8.2003, traendone logicamente la conclusione che vi si discuteva di un’arma affidata al Da. dal D.B., alla stregua di una ricostruzione dei fatti che da ragionevolmente conto anche delle specifiche obiezioni sollevate dalla difesa con l’atto di appello;

quanto all’analoga imputazione sub 15, del tutto coerentemente traggono la chiave di lettura della conversazione nr. 1557 del 31.8.2003 dal termine "sicura" che compare nel corso del colloquio con riferimento a qualcosa che deve essere consegnata alla madre dell’imputato, la qualità del previsto consegnatario giustificando la precauzione dell’inserimento del dispositivo di sicurezza e l’assicurazione data in proposito al D.B. dal suo interlocutore, incaricato della consegna; quanto al colloquio oggetto dell’intercettazione ambientale n. 568 del 7.11.2003, eseguita all’interno dell’autovettura Audi 80 del D.B., che costituisce il punto di riferimento probatorio dell’imputazione sub 45, del suo contenuto i giudici territoriali possono in sostanza limitarsi a prendere atto, per concluderne circa la trasparenza del riferimento a sostanze stupefacenti implicito nelle espressioni usate dal ricorrente, chiaramente riferite al "taglio" di droghe pesanti di cui lo stesso ricorrente appare essere già in possesso.

Sotto altro profilo, specificamente attinente ai profili di legittimità deducibili in questa sede, l’interpretazione del contenuto della intercettazione da parte dei giudici di merito non si presta comunque a censure logiche, le contrarie deduzioni del ricorrente risolvendosi in alternative opzioni di merito, oltretutto sostanzialmente basate sulla rinuncia ad un effettivo approccio ricostruttivo ai contenuti del colloquio.

C) le imputazioni cumulative.

Si tratta dei reati di cui ai capi 14) (reati in materia di armi ascritti al D.B. e al D.L.); 17 D) ed E) (ricettazione e incendio ascritti al D.B., al D.L. e al P.);

18 (reati in materia di armi ascritti al D.B., al L.m. e all’ A.; 44 (reati in materia di sostanze stupefacenti ascritti al D.B. e al L.M.).

Anche in questi casi le prove della responsabilità degli imputati sono state ricollegate dai giudici di appello prevalentemente al contenuto di intercettazioni telefoniche e ambientali, ma anche a specifici contributi dichiarativi, e sono state oggetto di una valutazione logica e coerente, che resiste alle censure difensive.

In particolare, il possesso delle armi di cui al capo 14) da parte del D.B. e del D.L., è adeguatamente dedotto dalla corte territoriale sulla base della ricostruzione del progetto di un agguato a D.F.C., esponente del clan avversario a quello del D.B., che risulta dal filo logico del contenuto di numerose intercettazioni relative agli avvenimenti del 14.8.2003, e dalle dichiarazioni del Da..

I risultati dell’attività captativa, sono particolarmente illustrati nella sentenza di primo grado (pag. 125 e ss.), e tanto chiaro ne risultò, come notano i giudici di merito, la direzione verso la vittima designata dell’agguato, che le forze dell’ordine attivarono immediatamente un servizio di osservazione presso l’abitazione del D.F..

In questo contesto, le dichiarazioni del Da., la cui attendibilità la difesa del D.L. vanamente tenta di insidiare con il generico riferimento alle numerose imprecisioni delle sue dichiarazioni, sono state congruamente apprezzate dai giudici territoriali come elemento di conferma di un quadro probatorio peraltro già pressochè autosufficiente, integrandosi del tutto coerentemente con il contenuto delle intercettazioni e delle connesse attività di polizia, talchè sarebbe al limite troncante l’applicazione del principio della frazionabilità della chiamata di correo, per escludere comunque ogni dubbio sull’attendibilità del Da. sullo specifico episodio.

Ed è persino scontata la valutazione della Corte territoriale della necessaria disponibilità di armi da parte dei due ricorrenti in vista dell’esecuzione dell’omicidio, disponibilità confermata, come notano i giudici di merito, dal linguaggio significativamente prudente o criptico degli interlocutori di alcune conversazioni, in cui compare tra l’altro l’allusione a "magliette" e "giubbini" che avrebbero dovuto essere recapitati al D.B. nella stessa mattinata del 14 agosto (vedi le intercettazioni nr. 572 e 588, rispettivamente delle ore 7,34 e 10,17 del 14.8.2003, entrambe in entrata sull’utenza del D.B., chiamato da tale " Le.").

Per quel che riguarda il D.B., il quadro probatorio rilevato dai giudici di merito sarebbe di indubbia chiarezza anche a prescindere dal contributo del Da., appena un po’ più apprezzabile riguardo al D.L., che comunque risulta "convocato" dal D.B. nelle prime ore della mattinata del 14 agosto, come nota il giudice di primo grado, desumendo la circostanza dall’inequivoco contenuto dell’intercettazione nr. 563 delle ore 6,43).

I reati di cui ai capi 17D) e 17E), sono collegati all’omicidio del C..

Si tratta della ricettazione dell’autovettura FIAT Punto tg. (OMISSIS) risultata proprio il giorno dell’omicidio a tale Au.Ed., e dell’incendio del mezzo successivamente alla esecuzione del crimine.

La ricostruzione del fatto da parte dei giudici territoriali, e l’individuazione dei soggetti coinvolti, resiste alle censure difensive.

Nella sentenza impugnata vengono analizzate le conversazioni nr. 954, 955, 958, 959 e 2911 intervenute tra P.S.G. da un lato, D.B.A. e D.L.M. dall’altro.

L’intreccio delle conversazioni è stato più che coerentemente riferito dalla corte territoriale alla necessità di intervenire sull’autovettura usata per l’omicidio, per rimuoverla dal posto in cui si trovava e successivamente incendiarla (vedi, nelle telefonate del 19.9.2003, il riferimento all’urgenza di "togliere quella cosa là" nella conversazione tra il P. e il D.B. delle ore 20,01) perchè "la gente sta a guardare" ( D.B. – Ba. delle ore 20,42, dove anche il riferimento ad un "cane che si deve bruciare"; vedi, ancora le telefonate tra P. e D.L. delle ore 21,09, in cui il P. interloquisce con il D.L. prima per ribadire l’urgenza di levare la cosa subito", e poi per assicurare che tutto è a posto).

Il ciclo delle telefonate sull’argomento è concluso dalla conversazione delle ore 7,54 del 20.9.2003, intervenuta tra il D. B. e il P., nel corso della quale compare un esplicito riferimento "alla macchina" e l’assicurazione del P. al suo interlocutore di avere personalmente provveduto a "mettere la benzina dentro".

A fronte di queste inequivocabili indicazioni di prova sottolineate dai giudici territoriali, la difesa del D.B. si limita in sostanza ad una sbrigativa notazione sull’ovvia non corrispondenza "lessicale" tra i termini "cane e macchina", che determinerebbe il dubbio sulle "certezze" del D.B., senza alcuna altra considerazione sul contenuto delle conversazioni e sulla loro riferibilità anche al D.B., e senza considerare che la coincidenza tra il "cane che deve bruciare" e l’autovettura in questione, di là dalle apparenti divergenze lessicali, è fornita con certezza dalla circostanza che alle conversazioni seguì in stretta successione temporale proprio l’incendio dell’autovettura;

la difesa del D.L. indugia su particolari non solo marginali rispetto al sicuro coinvolgimento nella vicenda del ricorrente, ma in parte tratti dal generico e irrituale riferimento al contenuto "integrale" di una sola delle conversazioni intercettate, la nr. 958 del 19.9.2003, mentre la questione dei riscontri, pure posta dalla difesa, è del tutto ridondante rispetto alla prova diretta offerta dalle conversazioni captate; quanto al P., nemmeno la difesa contesta, in sostanza, il coinvolgimento del ricorrente nei fatti, risultando peraltro il suo ruolo particolarmente attivo, considerati i suoi continui contatti telefonici con gli altri soggetti interessati, e considerato anche che proprio il P. risulta l’autore dell’incendio della macchina, nella conversazione delle ore 7,54 del 20.9.2003.

In concreto, le censure del ricorrente investono anzitutto la mancata risposta della Corte territoriale alle deduzioni difensive consacrate in un memoria scritta, oggetto peraltro di un generico e irrituale rinvio per relationem, senza dire che se si trattasse delle stesse questioni, eminentemente in diritto, formulate in ricorso, varrebbe il principio secondo cui il vizio di motivazione della sentenza impugnata denunciabile nel giudizio di legittimità è solo quello attinente alle questioni di fatto e non anche di diritto, giacchè ove queste ultime, anche se in maniera immotivata o contraddittoriamente od illogicamente motivata, siano comunque esattamente risolte, non può sussistere ragione alcuna di doglianza (Corte di Cassazione SENT. 19696 20/05/2010 SEZ. 2^ Maugeri e altri).

Sotto il profilo psicologico, la Corte opportunamente rileva che le circostanze del fatto, e l’estrema urgenza di far sparire l’auto, determinavano la chiara rappresentazione della provenienza delittuosa del mezzo da parte dell’imputato, che peraltro si era personalmente incaricato della rischiosa esecuzione dell’incendio, essendo implicita nelle valutazioni dei giudei di appello, anche la possibilità del dolo eventuale che, contrariamente a quanto sostiene la difesa, è compatibile con il delitto di ricettazione, secondo i più recenti e ormai consolidati indirizzi di questa Corte, (cfr.

Corte di Cassazione nr. 27548 del 17/06/2010 SEZ. 1^ Screti, secondo cui l’elemento psicologico della ricettazione può essere integrato anche dal dolo eventuale, che è configurabile in presenza della rappresentazione, da parte dell’agente, della concreta possibilità della provenienza della cosa da delitto e della relativa accettazione del rischio; nr. 12433 del 26/11/2009 SEZ. U, Nocera, dove la precisazione che, nel delitto di ricettazione il dolo eventuale è ravvisabile quando debba ritenersi che l’agente non avrebbe agito diversamente anche se avesse avuto la certezza della provenienza delittuosa della cosa; nr. 04376 del 21/12/1981 Colombelli; nr. 45256 del 22/11/2007 Lapertosa).

Non può condividersi nemmeno l’affermazione difensiva della necessaria natura patrimoniale del profitto perseguito dall’agente, che non risulta in alcun modo definito dalla norma incriminatrice, comprendendo, quindi, non solo il lucro, ma qualsiasi utilità, anche non patrimoniale, che l’agente si proponga di conseguire (ex plurimis, Cassazione penale sez. 2^, 21 settembre 2010, numero: n. 36275, Di Re; n. 9997 del 09 /06/1981 Panza).

E’ anzi ovvio che l’assenza di personali interessi economici del ricorrente rispetto alla ricettazione e all’incendio dell’autovettura, riconducano proprio, come movente esclusivo della condotta, al fine agevolativo supposto dall’accusa con riferimento alla contestazione L. n. 203 del 1991, ex art. 7.

Al riguardo non è particolarmente apprezzabile il rilievo difensivo secondo cui "non si potrebbe configurare ovvero applicare il fine agevolativo in quanto rappresenterebbe l’elemento costituivo del reato" trattandosi, com’è ovvio, di piani diversi di valutazione, perfettamente compatibili l’uno con l’altro.

Quanto ai reati in materia di armi di cui al capo 18), contestati al D.B., all’ A. e al L.M., ancora una volta le motivazioni della Corte territoriale e le censure difensive si misurano sull’interpretazione dei risultati di un’attività captativa, con riferimento, nella specie, alle intercettazioni ambientali nr. 323 e 324 del 17.10.2003.

La difesa del D.B. non contesta specificamente l’identificazione del ricorrente come uno degli interlocutori e del resto, come rilevano i giudici territoriali, l’intercettazione de qua fu eseguita all’interno dell’autovettura in uso allo stesso ricorrente; dell’identificazione "vocale" del L.M., valevole per tutte le conversazioni allo stesso attribuite, si è già parlato con riferimento al corrispondente motivo di ricorso di uno dei suoi difensori.

Quanto all’identificazione dell’ A., i giudici di merito la traggono coerentemente dalla successione logico-temporale tra le due conversazioni, intercorse appena 45 minuti l’una dall’altra ed entrambe in vario modo sicuramente riferibili alla stessa arma.

Nella prima, è proprio " To." (cioè il diminutivo con il quale i giudici di appello rilevano che l’ A. era conosciuto dai suoi sodali), che risulta in possesso di un’arma; nella seconda, il D. B. e il L.M. si preoccupano del modo di liberarsi di un oggetto così compromettente e decidono infine di affidarne la custodia a tale "(OMISSIS)".

Ma è soprattutto rilevante, a definitiva conferma dell’identificazione dei tre ricorrenti, la circostanza, sottolineata dalla corte territoriale, che la decisione segua alla constatazione della presenza di forze dell’ordine presso le rispettive abitazioni degli stessi ricorrenti (che fosse interessato anche l’ A. la Corte territoriale lo desume dal riferimento degli altri due all’abitazione del "cinese", soprannome la cui riferibilità al ricorrente non è particolarmente contestata dalla difesa).

Senza dire, per quel che riguarda l’ A., che il difensore nemmeno formula specifiche contestazioni sul coinvolgimento dello stesso ricorrente in altre conversazioni, quelle ricordate dalla Corte territoriale a pag. 67 della sentenza impugnata, intervenute sull’utenza (OMISSIS), sicuramente riferibile allo stesso imputato, secondo le condivisibili notazioni dei giudici di appello;

intercettazioni anche rispetto alle quali la difesa avrebbe dovuto invece ovviamente interloquire per contestare l’identità "fonica" del To. che compare nella conversazione nr. 323 del 17.10.2003, con quella dell’interlocutore delle ricordate telefonate.

Le indicazioni desumibili a carico dello stesso ricorrente da questa telefonata in ordine al possesso da parte sua dell’arma in questione, consentono di ritenere del tutto irrilevante che egli non prenda parte alla successiva conversazione, fosse o meno ancora presente a bordo dell’autovettura del D.B.; la preoccupazione del L. M. e del D.B. di provvedere alla custodia della stessa arma, conferma infine la comune partecipazione dei due alla sua detenzione, peraltro congruamente desunta dai giudici di appello anche dalle circostanze del fatto evocate dalla conversazione.

A fronte di tali emergenze, le deduzioni dei ricorrenti si rivelano più che altro dirette alla proposta di ben improbabili valutazioni alternative di merito delle risultanze istruttorie, quando sarebbe comunque in questione piuttosto, alla stregua dei dedotti profili di legittimità, la congruità logico-giuridica della ricostruzione del significato delle conversazioni operata dai giudici territoriali, che non appare in alcun modo censurabile.

La stessa connotazione di merito, per quanto formalmente dissimulata dall’obbligato riferimento ai limiti di devoluzione propri del giudizio di legittimità, caratterizza le deduzioni difensive relative al capo 44), che vede coinvolti il D.B. e il L. M..

L’intercettazione di sostegno all’ipotesi accusatoria è la nr. 323 del 17.10.2003, eseguita in ambiente all’interno dell’autovettura Audi A80 del D.B..

Premessa l’ormai indiscutibile certezza dell’identificazione degli interlocutori, non si vede infatti come possa contestarsi sul piano logico la valutazione dei giudici territoriali circa la presupposizione di un possesso "attuale" di sostanza stupefacente da parte dei due ricorrenti rivelato dalla conversazione, dal momento che il D.B., rivolto al L.M., lo sollecita a spedire "subito" il chilo, confezionato in un "pacco", laddove il precedente riferimento alla "roba", e al soprannome di "centottanta" del destinatario, attribuito ad uno dei principali spacciatori della zona di Galvano, concludono più che ragionevolmente, nel costrutto motivazionale della sentenza, il sillogismo dimostrativo anche sulla natura dell’affare trattato oltre che sulla disponibilità della droga a parte dei due ricorrenti.

D) le censure sul trattamento sanzionatorio.

In quasi tutti i ricorsi, si fa questione del difetto di motivazione della sentenza impugnata in ordine alla ritenuta sussistenza dell’aggravante L. n. 203 del 1991, ex art. 7 contestata per tutti i reati diversi da quello associativo, e/o delle lacune argomentative della sentenza in ordine alle deduzioni difensive attinenti alla retta applicazione dei criteri fissati dall’art. 133 c.p. o alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche.

Si tratta peraltro di questioni rispetto alle quali tutti i motivi di ricorso si rivelano particolarmente inconsistenti.

A proposito dell’aggravante L. n. 203 del 1991, ex art. 7 si è già detto della palese infondatezza dei motivi formulati nell’interesse del P..

Nel ricorso a favore del L.M. a firma dell’avv. Giaquinto, la sussistenza dell’aggravante è contestata in modo del tutto generico, e con esclusivo riferimento al reato di cui al capo 44) (l’aggravante è contestata al L.M. anche in ordine ai reati in materia di armi di cui al capo 18); il ricorrente si limita a qualche considerazione sulla definizione degli aspetti dogmatici della fattispecie circostanziale, e all’apodittico rilievo che "non vi è agli atti nella maniera più assoluta alcun elemento che possa far ritenere sussistente l’aggravante summenzionata".

Il motivo è peraltro anche a-specifico, rispetto alle valutazioni della Corte territoriale, che ricollega l’aggravante in questione (pag. 61 della sentenza) all’inserimento del fatto di reato nei progetti di espansione criminale del D.B., tesi ad affermare la supremazia della sua cosca anche nel settore del traffico degli stupefacenti, a danno delle cosche rivali; non si trattava insomma, secondo i giudici di appello, di un’attività già "a regime", ma di un aspetto della faida criminale in corso, e le iniziative del D. B. dirette all’accaparramento dei migliori fornitori di droga sarebbero state direttamente e immediatamente strumentali (anche) al rafforzamento del suo gruppo criminale sul territorio.

Su questo argomento, che definisce in effetti adeguatamente la connotazione agevolativa della condotta di reato rispetto alle sorti dell’intero clan mafioso di riferimento, il ricorso è del tutto silente.

Se possibile è ancora più generico sul punto il ricorso proposto nell’interesse del D.L., che lamenta soltanto che la corte si sarebbe "limitata a rappresentare ed indicare il testo della norma, senza in alcun modo spiegare le ragioni della sussistenza nel caso di specie dell’aggravante in parola".

In ogni caso, tanto il reato in materia di armi di cui al capo 14), che quelli di cui ai capi 17D) ed E), il primo connesso al progetto di un agguato in danno dell’esponente di una cosca rivale, gli altri connessi all’omicidio in danno del C., sono stati coerentemente inseriti dalla corte territoriale, ai fini del riconoscimento dell’aggravante de qua, nell’ambito della faida criminale che vedeva impegnati il gruppo del D.B. e quello del C., senza che la difesa interloquisca specificamente su tale argomentazione, che coglie aspetti di evidente strumentalità delle condotte di reato in questione agli interessi dell’intero gruppo criminale guidato dal D.B..

Infine, nessuna delle difese ha sollevato questioni di diritto sulla compatibilità dell’aggravante con l’appartenenza dei ricorrenti all’associazione mafiosa ma è pacifico che la circostanza aggravante prevista dal D.L. 13 maggio 1991, n. 152, art. 7 convertito nella L. 12 luglio 1991, n. 203, sia configurabile anche con riferimento ai reati-fine commessi dagli appartenenti al sodalizio criminoso (ex plurimis, Corte di Cassazione nr. 15483 26/02/2009 SEZ. 6^, Marsala).

Non migliore considerazione meritano i motivi sulla concreta determinazione della pena.

Nel ricorso dell’ A. si esprime in sostanza non molto di più che il personale apprezzamento dell’estensore circa l’eccessività della pena base e di quella determinata a titolo di aumento per continuazione, mentre è del tutto infondato il rilievo che il ruolo di taluno all’interno di un’associazione criminale possa influire come sfavorevole elemento di valutazione per il reo solo a condizione che si tratti di un organizzatore o di un capo, essendo ovvio che anche altre modalità di partecipazione ad un sodalizio mafioso possano esprimere una spiccata pericolosità sociale, come rilevato dai giudici di appello a proposito dell’ A..

Anche sull’aumento per continuazione la motivazione della Corte territoriale è del tutto adeguata, in relazione alla ritenuta gravità oggettiva dei reati satellite, in quanto oltretutto circostanziati L. n. 203 del 1991, ex art. 7.

Nell’interesse del L.M., l’avv. Giaquinto si limita a dedurre che la Corte territoriale avrebbe motivato in maniera non adeguata sul diniego di concessione delle circostanze attenuanti generiche e che in ogni caso il trattamento sanzionatorio sarebbe "troppo gravoso".

Per contro, i giudici di appello sottolineano tra l’altro adeguatamente la posizione di rilievo assunta dal ricorrente all’interno del gruppo criminale guidato dal D.B., i suoi precedenti penali e il dato del suo immediato reinserimento nel circuito criminale subito dopo la sua scarcerazione.

Il difensore del P. non svolge specifici motivi sul trattamento sanzionatorio oltre quello relativo all’aggravante mafiosa.

Il ricorso del D.B. è incentrato oltre che sui temi di prova attinenti al giudizio di colpevolezza, solo sulla sussistenza dell’aggravante della premeditazione per il delitto di omicidio, della quale si è già detto.

Del tutto erroneamente, infine, la difesa del D.L. lamenta che la Corte territoriale avrebbe motivato sulla determinazione del trattamento sanzionatorio sostanzialmente con una mera clausola di stile riproduttiva degli astratti parametri normativi dell’art. 133 c.p..

In realtà i giudici di appello rilevano la gravità dei reati, la posizione di spicco dell’imputato all’interno del gruppo criminale di appartenenza, e i suoi numerosi precedenti penali (pag. 49), spiegando quindi convenientemente anche in punto di trattamento sanzionatorio le ragioni del proprio convincimento.

Alla stregua delle precedenti considerazioni, i ricorsi vanno pertanto rigettati, con le conseguenti statuizioni sulle spese.

P.Q.M.

Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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