Cass. pen. Sez. IV, Sent., (ud. 12-11-2010) 04-01-2011, n. 119 Omicidio colposo

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo e motivi della decisione

1) La Corte d’Appello di Palermo, con sentenza 6 maggio 2009, ha confermato la sentenza 30 maggio 2007 del Tribunale della medesima Città che aveva condannato G.G., S.S. e T.A. alla pena di mesi quattro di reclusione ciascuno per il delitto di omicidio colposo in danno di R.G.M. deceduta in (OMISSIS) per shock ipovolemico metaemorragico.

I giudici di merito hanno accertato che i tre imputati, medici in servizio presso l’istituto di anestesia, rianimazione e dell’emergenza del Policlinico di Palermo, avevano trattato in modo imperito una grave emorragia post partum secondaria ad atonia uterina che aveva colpito la persona offesa dopo un intervento chirurgico per parto cesareo alla quale era stata sottoposta presso la divisione di ostetricia e ginecologia del predetto policlinico.

In particolare agli imputati è stato addebitato di non aver seguito i protocolli previsti per la cura di queste emorragie, anche chiedendo una consulenza ginecologica, al fine di contrastare l’emorragia adottando gli interventi necessari per contrastare la patologia (massaggio del fondo dell’utero, controllo dello stato dell’utero per almeno due ore, spremitura del medesimo organo per eliminare i coaguli).

2) Contro la sentenza di secondo grado hanno proposto ricorso gli imputati.

G.G., con il ricorso proposto a mezzo dei suoi difensori, ha dedotto i seguenti motivi di censura:

– la violazione dell’art. 521 c.p.p., comma 2 e art. 522 c.p.p. per avere, la sentenza impugnata, riferito al momento dell’ingresso (avvenuto alle ore 7,45) nel reparto di rianimazione la necessità di richiedere una consulenza ginecologica mentre in realtà l’improvvisa e imponente emorragia (e quindi la necessità di procedere ad isterectomia) si era manifestata alla ore 10,45; su questo addebito l’imputato non aveva avuto la possibilità di difendersi;

– la violazione di legge e il vizio di motivazione perchè la sentenza di appello avrebbe omesso di compiere il giudizio controfattuale individuando il momento in cui l’intervento di isterectomia avrebbe salvato la vita della paziente in termini di elevata credibilità razionale e perchè non avrebbe chiarito se i medici subentranti fossero stati edotti della reale situazione della paziente; senza considerare, inoltre, che la cartella clinica conteneva informazioni fuorvianti (in particolare che non vi erano perdite ematiche dai genitali esterni) per i medici che sono subentrati nel trattamento della patologia;

la violazione dell’art. 157 c.p. perchè il reato contestato, tenendo conto della concessione delle attenuanti generiche e delle sospensioni è da ritenere prescritto fin dal 28 febbraio 2009 e quindi anteriormente alla sentenza di secondo grado.

3) Anche S.S. ha proposto ricorso contro la sentenza della Corte palermitana. Va peraltro evidenziato che il ricorrente ha espressamente rinunziato alla prescrizione all’udienza del 14 gennaio 2009 tenuta davanti alla Corte di merito.

Con il primo motivo l’imputato deduce il vizio di violazione di legge e quello di motivazione.

Si premette, nel motivo di ricorso, che la paziente era stata ricoverata presso il reparto di rianimazione senza che venissero evidenziate perdite di sangue ai genitali esterni: il che deponeva per il superamento della fase emorragica. I medici dunque si erano dedicati alle manovre rianimatorie che avevano avuto anche risultati positivi perchè alcuno aveva segnalato problemi ginecologici; il che rendeva non esigibile la richiesta della consulenza. Consulenza che fu invece tempestivamente richiesta allorchè, alle ore 10,45, si manifestò la ripresa dell’emorragia.

Con il secondo motivo si deduce invece l’erronea applicazione delle norme che disciplinano la prescrizione e si evidenzia che la rinunzia ad avvalersi della prescrizione formulata nel giudizio di appello è invalida perchè anteriore al maturare del termine di estinzione del reato.

4) T.A., con il ricorso da lui proposto, ha dedotto i seguenti motivi:

– il vizio di motivazione con riferimento alla circostanza che la persona offesa era stata ricoverata in rianimazione alle ore 7,45 e il dott. T. ha cessato dal servizio alle ore 8,00. Addirittura la cartella clinica è pervenuta dopo che il ricorrente aveva cessato il proprio turno; d’altro canto la paziente proveniva dal reparto al quale si sarebbe dovuta richiedere la consulenza che in quel momento non si rendeva necessaria;

– la violazione dell’art. 157 c.p., perchè, al momento della pronunzia della sentenza d’appello, il reato era già prescritto.

5) La parte civile G.P. ha depositato memoria con la quale, dopo aver riportato alcuni precedenti giurisprudenziali, evidenzia che i medici ginecologi che avevano trattato il caso non avevano ritenuto opportuno procedere all’isterectomia perchè evidentemente avevano ritenuto superabile la patologia ma ciò non autorizzava i medici della rianimazione a disinteressarsi della patologia ginecologica, peraltro ben evidenziata nella cartella clinica e, ciò non ostante, avevano tardato oltre due ore nel chiedere la consulenza.

La parte civile poi si sofferma sul primo motivo di ricorso di G.G. e ne sostiene l’infondatezza.

6) Vanno preliminarmente esaminati i problemi riguardanti la prescrizione del reato.

Innanzitutto va verificato se, alla data odierna, il reato ascritto agli imputati ricorrenti debba ritenersi prescritto. Il decesso della persona offesa è avvenuto il 10 luglio 2000 e quindi Il termine ordinario di prescrizione, essendo state concesse le attenuanti generiche, era all’epoca (e lo è anche dopo la novella del 2005) pari ad anni sette e mezze e dunque scadeva, tenuto conto delle interruzioni, il 10 gennaio 2008.

Al periodo indicato vanno aggiunti i seguenti periodi di sospensione del decorso della prescrizione:

– in primo grado mesi sette e giorni nove (dal 13 ottobre 2003 al 12 gennaio 2004; dal 17 al 24 gennaio 2006; dal 18 luglio al 14 novembre 2006; dal 14 al 20 novembre 2006) non tenendo conto del rinvio dal 16 giugno al 13 ottobre 2003 del quale, dal verbale di udienza, non si evincono le ragioni;

– in secondo grado mesi sei e giorni cinque (dal 21 maggio all’11 giugno 2008; dall’11 giugno al 12 novembre 2008; dal 12 al 26 novembre 2008).

Sommando i periodi di sospensione di primo e secondo grado si perviene ad un periodo complessivo di sospensione di mesi tredici e giorni quattordici che, aggiunti al periodo di prescrizione di anni sette e mezzo, fanno concludere che la prescrizione deve ritenersi maturata il giorno 24 febbraio 2009 (l’imputato G. indica la data del 28 febbraio 2009 ma le conseguenze non mutano).

Alla data odierna dunque il reato ascritto agli imputati deve ritenersi estinto per prescrizione non essendo i ricorsi inammissibili, ma infondati, per quanto si dirà più avanti.

Ma l’accertamento della data indicata quale termine ultimo di prescrizione comporta altresì l’inefficacia della rinunzia alla prescrizione da parte dell’imputato S.S.. Infatti, in base alla più recente e costante giurisprudenza di legittimità, che questa sezione condivide, la rinunzia alla prescrizione non opera se il termine di prescrizione non è ancora maturato al momento della rinunzia (si vedano le sentenze Cass., sez. 2, 15 novembre 2005 n. 527, Colanera, rv. 233145; 14 novembre 2003 n. 3900, Rega, rv.

227867; sez. 5, 20 ottobre 1999 n. 13300, Araniti, rv. 215560).

I precedenti indicati fanno riferimento alla circostanza che solo allorquando il termine sia maturato l’imputato può valutare gli effetti della rinuncia. Può aggiungersi che costituisce principio generale che la rinunzia presuppone l’esistenza, in capo al rinunziante, della posizione giuridica soggettiva cui si intende rinunziare e che, salvo che sia espressamente prevista la possibilità di rinunziare preventivamente, non è consentito rinunziare a ciò che non si è ancora acquisito. Questo principio, proprio in tema di prescrizione, è affermato espressamente nel diritto civile (art. 2937 c.c., comma 2) e non vi sono ragioni logiche o sistematiche per non riaffermarlo, nel diritto penale, all’istituto della prescrizione.

6) Dovendosi dunque dichiarare l’estinzione del reato ed in presenza nel processo della parte civile vanno premessi, all’esame specifico dei motivi di ricorso, alcuni cenni sui principi che disciplinano il rapporto tra l’accertamento della responsabilità penale e l’obbligo, per il giudice, di immediata applicazione dell’art. 129 c.p.p., comma 2 in presenza di una causa estintiva del reato sia o meno ancora in corso l’azione civile nel processo penale.

Com’è noto il presupposto per l’applicazione dell’art. 129 c.p.p., indicato è costituito dall’evidenza della prova dell’innocenza dell’imputato.

In questo caso la formula di proscioglimento nel merito prevale sulla causa di estinzione del reato ed è fatto obbligo al giudice di pronunziare la relativa sentenza. I presupposti per l’immediato proscioglimento (l’inesistenza del fatto, l’irrilevanza penale, il non averlo l’imputato commesso) devono però risultare dagli atti in modo incontrovertibile tanto da non richiedere alcuna ulteriore dimostrazione in considerazione della chiarezza della situazione processuale.

In presenza di una causa estintiva del reato non è quindi più applicabile la regola probatoria, prevista dall’art. 530 c.p.p., comma 2, da adottare quando il giudizio sfoci nel suo esito ordinario, ma è necessario che emerga "positivamente" dagli atti, e senza necessità di ulteriori accertamenti, la prova dell’innocenza dell’imputato (cfr. Cass., sez. 5, 2 dicembre 1997 n. 1460, Fratucello; sez. 1, 30 giugno 1993 n. 8859, Mussone). E’ stato affermato che, in questi casi, il giudice procede, più che ad un "apprezzamento", ad una "constatazione" (Cass., sez. 6, 25 marzo 1999 n. 3945, Di Pinto; 25 novembre 1998 n. 12320, Maccan).

Da ciò consegue altresì che non è consentito al giudice di applicare l’art. 129 c.p.p. in casi di incertezza probatoria o di contradditorietà degli elementi di prova acquisiti al processo anche se, in tali casi, ben potrebbe pervenirsi all’assoluzione dell’imputato per avere, il quadro probatorio, caratteristiche di ambivalenza probatoria.

Questi principi sono stati di recente ribaditi dalle sezioni unite di questa Corte con sentenza (28 maggio 2009 n. 35490, Tettamanti, rv.

244273-4-5) alle cui condivisibili argomentazioni si rinvia. Coerente con questa impostazione è anche la uniforme giurisprudenza di legittimità che, fondandosi anche sull’obbligo di immediata declaratoria delle cause di non punibilità, esclude che il vizio di motivazione della sentenza impugnata, che dovrebbe ordinariamente condurre all’annullamento con rinvio, possa essere rilevato dal giudice di legittimità che, in questi casi, deve invece dichiarare l’estinzione del reato (cfr. la citata sentenza Maccan della 5 sezione ed inoltre sez. 1, 7 luglio 1994 n. 10822, Boiani). In caso di annullamento, infatti, il giudice del rinvio si troverebbe nella medesima situazione che gli impone l’obbligo della immediata declaratoria della causa di estinzione del reato.

Ma questi principi sono applicabili, per quanto attiene alla responsabilità penale dell’imputato, nei casi in cui sia stata proposta l’azione civile nel processo penale, solo nel giudizio di primo grado all’esito del quale non può il giudice dichiarare estinto il reato e pronunziarsi sull’azione civile (cfr. Cass., sez. 4, 1 ottobre 1993 n. 10471).

Nel giudizio d’impugnazione, in presenza di una condanna al risarcimento dei danni o alle restituzioni pronunziata dal primo giudice (o dal giudice d’appello) ed essendo ancora pendente l’azione civile, il giudice penale, secondo il disposto dell’art. 578 c.p.p., è tenuto, quando accerti l’estinzione del reato per amnistia o prescrizione, ad esaminare il fondamento della medesima azione (penale).

In questi casi la cognizione del giudice penale, sia pure ai soli effetti civili, rimane integra e il giudice dell’impugnazione deve verificare, senza alcun limite, l’esistenza di tutti gli elementi della fattispecie penale al fine di confermare o meno il fondamento della condanna alle restituzioni o al risarcimento pronunziata dal primo giudice (o dal giudice d’appello nel caso in cui l’estinzione del reato sia stata da lui pronunziata o debba essere emessa dalla Corte di Cassazione).

In conclusione va affermato che costituisce principio inderogabile del processo penale quello secondo cui la condanna al risarcimento o alle restituzioni può essere pronunziata solo se il giudice penale ritenga accertata la responsabilità penale dell’imputato; anche se l’estinzione del reato non gli consente di pronunziare condanna penale.

Va però ancora ricordato che la sentenza delle sezioni unite Tettamanti, in precedenza ricordata, ha affermato che il principio richiamato sulla prevalenza della causa di estinzione del reato nel caso di dedotto vizio di motivazione trova un temperamento in due ipotesi. La prima riguarda il caso di assoluzione in primo grado ai sensi dell’art. 530 c.p.p., comma 2 e impugnazione del pubblico ministero: in questo caso, secondo le sezioni unite, se il giudice di appello ritiene infondato nel merito l’appello del pubblico ministero deve confermare la sentenza di assoluzione.

Il secondo caso attiene invece più specificamente all’ipotesi dell’esercizio dell’azione civile nel processo penale: il giudice di appello è tenuto, anche nel caso in cui il reato sia estinto per amnistia o prescrizione, ad esaminare l’esistenza dei presupposti per la condanna penale quando sia ancora presente nel processo la parte civile; in tale caso ove pervenga, all’esito di questo esame, a ritenere l’insufficienza o la contraddittorietà del compendio probatorio deve pronunziare sentenza di assoluzione nel merito.

Secondo le sezioni unite questa deroga ai principi in precedenza enunciati si fonda sulla considerazione "che alcun ostacolo procedurale, nè le esigenze di economia processuale (che, come più volte detto, costituiscono, con riferimento al principio della ragionevole durata del processo, la ratio ed il fondamento della disposizione di cui all’art. 129 c.p.p., comma 2), possono impedire la piena attuazione del principio del favor rei con l’applicazione della regola probatoria di cui all’art. 530 c.p.p., comma 2".

E’ da rilevare che la deroga, come hanno precisato le sezioni unite, riguarda esclusivamente il giudizio di appello non essendo attribuita, al giudice di legittimità, una funzione di rivalutazione del compendio probatorio.

7) Alla luce dei principi esposti nel presente giudizio di legittimità andrà dunque verificato se la sentenza impugnata abbia adeguatamente e logicamente motivato sulla penale responsabilità degli imputati.

Questa verifica non può che concludersi negativamente.

Va premesso in fatto che R.G.M., in stato di gravidanza alla 39a settimana, veniva ricoverata presso il reparto di ostetricia e ginecologia del policlinico di Palermo alle ore 5,45 del (OMISSIS) e le veniva immediatamente diagnosticata una grave metrorragia con distacco della placenta e sofferenza fetale acuta.

La paziente veniva immediatamente (alle ore 6,08, 23 minuti dopo il ricovero) sottoposta a taglio cesareo e le venivano somministrate le cure necessarie per fermare l’emorragia ma senza esito; tanto che, alle ore 7,45, l’anestesista (che annota sulla cartella clinica che "sono presenti condizioni di altissimo rischio per l’emorragia, lo shock e l’incipiente deficit poliorganico") accompagna personalmente la paziente al reparto di rianimazione dove viene ricevuta dal dott. T., odierno imputato, il quale annota la seguente diagnosi di accettazione: "insufficienza respiratoria post-operatoria in sogg. sottoposto ad intervento d’urgenza di taglio cesareo con distacco di placenta. Shock ipovolemico".

In questa situazione si intersecano le posizioni personali. Il dott. T. era in servizio fino alle ore 8,00 (e non risulta che si sia fermato nel periodo successivo) mentre alla stessa ora subentravano i dott. G. e S..

Insomma alle ore 7,45 era già chiaro un quadro gravissimo ricollegabile alla grave emorragia subita come risulta dalla diagnosi di shock ipovolemico anche se, in quel momento, l’emorragia era in fase di remissione. Del tutto conseguente in questo quadro è la conclusione dei giudici di merito secondo i quali, in quel momento, si poneva il problema di procedere all’unico intervento risolutivo del problema: l’isterectomia.

I medici della rianimazione hanno invece concentrato la loro attenzione sui problemi respiratori della donna e non hanno, secondo quanto accertato dai giudici di merito, prestato la loro attenzione ai problemi ginecologici non osservando i protocolli predisposti per la cura o il contenimento delle patologie in questione neppure chiedendo la consulenza ai medici del reparto da cui la paziente proveniva. I giudici di merito hanno altresì richiamato i pareri dei consulenti tecnici del pubblico ministero i quali hanno rilevato che in casi consimili occorre tener sotto continuo controllo la puerpera e verificare la capacità dell’utero di continuare a contrarsi e ritrarsi intervenendo chirurgicamente in caso negativo.

Orbene nel caso in esame i medici imputati hanno invece adottato una condotta attendista per quanto riguarda la complicanza emorragica e quando si sono decisi (alle ore 10,45) a chiedere la consulenza ginecologica urgente era ormai troppo tardi per procedere all’isterectomia per la gravità ormai inarrestabile dell’emorragia che aveva colpito la paziente che cessava di vivere alle ore 11,30. 8) Alla luce della ricostruzione che precede infondati devono essere ritenuti i motivi proposti dagli imputati.

Per quanto riguarda il ricorso di G. è anzitutto da escludersi la violazione del principio di corrispondenza tra accusa e sentenza.

Non corrisponde infatti al vero che l’emorragia si sia verificata per la prima volta alle ore 10,45 – e quindi solo in quel momento sia sorta la necessità della consulenza ginecologica e quella di procedere all’isterectomia – perchè nella già riportata diagnosi di ingresso nel reparto si evidenziava la shock ipovolemico che segnala proprio una grave compromissione dello stato generale dell’organismo conseguente ad una grave emorragia seppur momentaneamente assente ma che già aveva provocato una grave quadro patologico.

Corretto è dunque affermare che, già nel momento in cui il dott. G. prende servizio, esistono e sono da lui riconoscibili, obblighi- di intervento terapeutico quanto meno diretti a sollecitare il parere degli specialisti. E si tratta proprio dell’omissione contestata. Nel capo d’imputazione si fa riferimento ad obblighi esistenti fin dall’inizio del ricovero: è per la mancata osservanza di questi obblighi l’imputato è stato ritenuto in colpa.

Queste considerazioni valgono anche ad evidenziare l’infondatezza del primo motivo del ricorso dell’imputato S. che fonda parimenti le sue doglianze sulla circostanza che, all’atto dell’ingresso nel reparto di rianimazione, alcuno aveva segnalato perdite di sangue ai genitali esterni. Il che è smentito da quanto ricostruito in fatto dai giudici di merito e dalla annotazione già riferita del dott. T. che parla di shock ipovolemico.

Infondato è anche il secondo motivo del ricorso G. riferito all’esistenza del rapporto di causalità. I giudici di merito hanno infatti ritenuto che un attento monitoraggio delle condizioni della paziente con gli interventi previsti dai protocolli per fermare l’emorragia e – in caso di fallimento di questi interventi – la tempestiva isterectomia avrebbero salvato la vita della paziente in termini di elevata credibilità razionale.

9) Rispetto alla posizione degli altri due medici un aspetto particolare presenta quella del dott. T. posto che il suo turno di lavoro finiva alle ore 8 e non risulta – nè il ricorrente lo afferma – che il medesimo si sia fermato in reparto oltre questo orario.

Va però osservato – e in questo quadro si rivela infondato, anzitutto, il primo motivo del ricorso di T.A. – che il ricorrente è il medico del reparto di terapia intensiva che ha ricevuto la paziente e che non solo ha preso subito conoscenza che la medesima aveva avuto una grave emorragia ma è il medico che convalida la diagnosi del reparto di provenienza annotando la presenza di uno shock ipovolemico.

In questa situazione il dott. T. non può addurre a sua discolpa la circostanza che egli si trovava alla fine del suo turno di lavoro. In una situazione di emergenza (del resto normale in un reparto di rianimazione) è infatti obbligo del medico che sia stato investito del caso di attivarsi per la soluzione di problemi che pongono a rischio la vita del paziente o che siano comunque idonei a creare gravi rischi per la sua salute; questo obbligo non può certamente venir meno per il completamento dell’orario di lavoro ma solo con l’adozione delle corrette pratiche terapeutiche.

E dunque o il dott. T. non si era reso conto della gravissima situazione in cui si trovava la paziente o, se era cosciente dei rischi della patologia, non ha preso le necessarie iniziative anche segnalandone la gravità ai colleghi che a lui succedevano.

Non si trattava infatti di un caso che può essere lasciato all’iniziativa di chi subentra nel turno di lavoro perchè la gravità della situazione era già evidente e da lui certificata.

Insomma il colposo atteggiamento attendista cui è ricollegabile la morte della persona offesa inizia con la sua presa in carico della paziente avendo egli a disposizione tutti gli elementi di conoscenza necessari.

Si tratta quindi di un tipico caso di successione di posizioni di garanzia nella quale, ove l’affidante ponga in essere una condotta causalmente rilevante, la condotta colposa dell’affidato, anch’essa con efficacia causale nella determinazione dell’evento, non vale ad escludere la responsabilità del primo in base al principio dell’equivalenza delle cause a meno che possa affermarsi l’efficacia esclusiva della causa sopravvenuta che deve escludersi nel caso di un comportamento colposo che abbia creato i presupposti per il verificarsi dell’evento dannoso e sul quale non siano intervenute modifiche rilevanti per eliminare le situazioni di pericolo che questo comportamento aveva creato o esaltato.

Il che si è verificato nella specie perchè i medici G. e S. non hanno fatto altro che proseguire nella condotta terapeutica colposamente attendista già adottata da T..

10) In conclusione le considerazioni svolte valgono a ritenere l’infondatezza delle censure proposte contro la sentenza impugnata e dunque ad escludere non solo l’esistenza della prova dell’innocenza degli imputati – che consentirebbe di applicare l’art. 129 c.p.p., comma 2 ai fini penali – ma altresì di ritenere esistenti i presupposti, secondo i criteri già illustrati, per la condanna penale; il che consente di confermare le statuizioni civili.

Ne conseguono l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata ai fini penali per essere il reato ascritto agli imputati estinto per prescrizione e il rigetto del ricorso ai fini civili con la condanna dei ricorrenti alla rifusione delle spese a favore delle parti civili nella misura di cui al dispositivo.

P.Q.M.

La Corte Suprema di Cassazione, Sezione Quarta Penale, annulla senza rinvio, ai fini penali, la sentenza impugnata perchè il reato è estinto per prescrizione; rigetta i ricorsi ai fini civili e condanna i ricorrenti in solido alla rifusione delle spese in favore delle parti civili costituite e liquida le stesse in complessivi Euro 3.500,00 oltre accessori come per legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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