Cass. civ. Sez. II, Sent., 21-01-2011, n. 1497 Onorari

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con citazione del 26.4.1999 l’arch. P.G. conveniva dinanzi al Pretore di Roma il Geom. C.C. chiedendone la condanna al pagamento di L. 21.260.000, oltre interessi a titolo di onorari e rimborsi, per prestazioni rese nel 1994 in rapporto al declassamento catastale di 88 appartamenti delle isole 103 e 105 del condominio di (OMISSIS), su richiesta verbale dell’amministratore e mandato del convenuto, incaricato dal condominio.

Il C. si costituiva contestando il conferimento del mandato e sostenendo di aver ricevuto specifico e personale incarico dal condominio, autonomamente eseguito, completato il 10.6.1996, negando la tesi di un mandato congiunto e resistenza del credito.

All’esito di interrogatorio formale del convenuto e di prova testimoniale il Tribunale, subentrato al Pretore, con sentenza n. 31254/2000, riconosceva fondata la domanda, condannando il C. al pagamento di L. 14.000.000. oltre interessi. all’ulteriore somma di L. 4.260.000 da pagarsi al momento della liquidazione effettiva del saldo degli onorari da parte del committente, ed alle spese.

Proposto appello dal soccombente, resisteva il P., e la Corte di appello di Roma, con sentenza 3658/2004, in parziale riforma, dichiarava il diritto del P. a ricevere l’importo di Euro 1.100,05 "al momento in cui il C. incasserà il saldo dal condominio", condannando lo stesso C. al pagamento di Euro 3.615,20 oltre interessi ed alle spese del grado.

La Corte di appello riteneva che l’attore avesse in qualche misura contribuito all’espletamento dell’incarico senza però la perfetta pariteticità delle prestazioni ritenuta dal primo Giudice; lo stesso amministratore aveva specificato non trattarsi di mandato congiunto ed il P. non aveva specificato in dettaglio le attività svolte ma tali considerazioni non potevano escludere totalmente il diritto del P. a qualsivoglia compenso.

Il mandato professionale era stato conferito solo al C., che aveva assunto l’esclusiva responsabilità della ottimale esecuzione e tale preminenza era riscontrata dalle produzioni documentali.

La ripetuta presenza del P. ai sopralluoghi, l’esisto positivo della pratica e la qualificazione professionale dell’attore, che costituiva ulteriore garanzia della completezza e proficuità delle attività svolte, inducevano la Corte a ritenere adeguato attribuirgli una somma pari al 25% dell’intero compenso del C..

Ricorre P. con due motivi, resiste il C..

Motivi della decisione

Col primo motivo si denunziano vizi di motivazione e violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., perchè la Corte di appello, pur aderendo alla tesi del primo Giudice secondo il quale l’attore in qualche misura avesse contribuito all’espletamento dell’incarico, ha operato una valutazione, qualificazione dell’attività sganciata dagli elementi probatori e col secondo motivo si ripropongono le stesse doglianze perchè i Giudici di appello si sono discostati dalla prima sentenza senza motivare il diverso convincimento.

Le censure possono esaminarsi congiuntamente e respingersi, non intaccando la motivazione sopra riportata, limitandosi sostanzialmente ad esprimere preferenza per la prima decisione.

La Corte di appello, dall’esame dei testi e delle risultanze istruttorie, è pervenuta alla conclusione, che l’arch. P. avesse collaborato con il C., cui il Condominio aveva affidato l’incarico, riconoscendo a quest’ultimo la preminente posizione di responsabilità ed al primo un compenso del 25%.

Lo stesso riferimento a prove testimoniali circa la collaborazione del P. con il C. ed alla presentazione da parte del P. dell’istanza di declassamento redatta dal C. (pagina trenta del ricorso) finisce per ritorcersi contro la tesi del ricorrente, costituendo la conferma di un rapporto di collaborazione non paritario.

E’ pacifico che il vizio di motivazione non può essere dedotto contrapponendo una propria interpretazione più favorevole alle tesi sostenute ma evidenziando l’illogicità delle argomentazioni della sentenza che non vengono, invece, scalfite.

La censura con la quale alla sentenza impugnata s’imputino i vizi di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, deve, invero, essere intesa a far valere, a pena d’inammissibilità comminata dall’art. 366 c.p.c., n. 4, in difetto di loro puntuale indicazione, carenze o lacune nelle argomentazioni, ovvero illogicità nell’attribuire agli elementi di giudizio un significato fuori dal senso comune, od ancora mancanza di coerenza tra le varie ragioni esposte per assoluta incompatibilità razionale degli argomenti ed insanabile contrasto tra gli stessi: non può, per contro, essere intesa a far valere la non rispondenza della valutazione degli elementi di giudizio operata dal giudice del merito al diverso convincimento soggettivo della parte c.d. in particolare, non si può con essa proporre un preteso migliore e più appagante coordinamento degli elementi stessi, atteso che tali aspetti del giudizio, interni all’ambito della discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell’apprezzamento dei fatti, attengono al libero convincimento del giudice e non ai possibili vizi dell’iter formativo di tale convincimento rilevanti ai sensi della norma stessa; diversamente, il motivo di ricorso per cassazione si risolverebbe – com’è, appunto, per quello in esame — in un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti del giudice del merito, id est di nuova pronunzia sul fatto, estranea alla natura ed alle finalità del giudizio di legittimità.

Nè può imputarsi al detto giudice d’aver omessa l’esplicita confutazione delle lesi non accolte e/o la particolareggiata disamina degli elementi di giudizio non ritenuti significativi, giacchè nè l’una nè l’altra gli sono richieste, mentre soddisfa all’esigenza d’adeguata motivazione che il raggiunto convincimento risulti – come è dato, appunto, rilevare nel caso di specie – da un esame logico e coerente di quelle, tra le prospettazioni delle parti e le emergenze istruttorie, che siano state ritenute di per sè sole idonee e sufficienti a giustificarlo: in altri termini, perchè sia rispettata la prescrizione desumibile dal combinato disposto dell’art. 132, n. 4 e degli artt. 115 e 116 c.p.c., non si richiede al giudice del merito di dar conto dell’esito dell’avvenuto esame di tutte le prove prodotte o comunque acquisite e di tutte le tesi prospettategli, ma di fornire una motivazione logica ed adeguata dell’adottata decisione evidenziando le prove ritenute idonee e sufficienti a suffragarla ovvero la carenza di esse.

Nella specie, per converso, le esaminate argomentazioni non risultano intese, nè nel loro complesso nè nelle singole considerazioni, a censurare le rationes decidendi dell’impugnata sentenza sulle questioni de quibus, bensì a supportare una generica contestazione con una valutazione degli elementi di giudizio in fatto difforme da quella effettuata dal giudice a qua e più rispondente agli scopi perseguiti dalla parte, ciò che non soddisfa affatto alla prescrizione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, in quanto si traduce nella prospettazione d’un’istanza di revisione il cui oggetto è estraneo all’ambito dei poteri di sindacato sulle sentenze di merito attribuiti al giudice della legittimità, onde le argomentazioni stesse sono inammissibili, secondo quanto esposto nella prima parte delle svolte considerazioni.

Conseguono il rigetto del ricorso e la condanna alle spese.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alle spese, liquidate in Euro 1.000,00, di cui Euro 800,00 per onorari, oltre accessori.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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