Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 21-01-2011, n. 1459 Licenziamento

Svolgimento del processo

Con sentenza del Tribunale di Genova n. 426 del 2006 era stato accolta l’impugnativa del licenziamento irrogato in data 1.4.2004 per giusta causa alla G. dalla società Avenance Italia p. a., per episodi concernenti l’omessa registrazione ed il mancato rilascio dello scontrino di cassa, che avevano indotto a ritenere l’avvenuta appropriazione dei relativi incassi.

Con sentenza depositata il 1.3.2007, la Corte di Appello di Genova, in parziale riforma della sentenza impugnata, disponeva che dall’indennità risarcitoria fosse detratto l’importo di Euro 5.849,02 percepito dalla lavoratrice nell’anno 2004 e di Euro 1500,00 percepito nell’anno 2005.

Assumeva, in sintesi, la corte territoriale che non vi erano motivi per dubitare del fatto che la G., a fronte della mancata emissione di scontrini relativi a consumazioni di clienti del bar, aveva motivatamente giustificato il proprio contegno irregolare, riferendo di avere proceduto alla emissione di scontrini ed alla contabilizzazione della merce venduta in un momento successivo alla erogazione delle consumazioni al bar, registrando gli importi in precedenza incassati. Non vi era, poi, la prova che la G. si fosse appropriata delle somme incassate dai clienti. La corte, ritenuto pertanto che ogni motivo di censura relativo alla affermata illegittimità del recesso fosse privo di fondamento, aveva, quindi, in accoglimento del motivo di gravame formulato in via subordinata, detratto dagli importi riconosciuti in favore della G. a titolo risarcitorio, quanto emerso dalla documentazione versata in atti.

Propone ricorso per cassazione la società, affidando l’impugnazione a tre motivi.

Resiste la G. con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memorie ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione

La società ricorrente deduce, con il primo motivi di ricorso, la violazione o falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., e della L. n. 604 del 1966, art. 5, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3.

Assume che la sentenza è in contrasto con i principi in tema di ripartizione dell’onere della prova, atteso che chi eccepisce l’inefficacia di determinati fatti, deve provare la sussistenza degli altri sui quali l’eccezione si fonda. Era emerso dall’istruttoria che, nei giorni in cui i fatti erano avvenuti, la cassa quadrava tra danaro depositato ed importi risultanti dagli scontrini emessi e che non vi era un’eccedenza di cassa e quindi, a dire della società, sarebbe stato onere della lavoratrice dimostrare l’esistenza di ragioni tali da giustificare l’insussistenza di una eccedenza a fronte della incontestata mancata contabilizzazione di alcuni incassi.

Non era, poi, risultato che nelle date indicate la G. avesse provveduto alla contabilizzazione postuma. La ricorrente, pone, a conclusione della esposizione delle argomentazioni a sostegno della censura, quesito di diritto ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c..

Con il secondo motivo, lamenta la violazione o falsa applicazione dell’art. 2119 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3.

Rileva che la mancata emissione degli scontrini è stata erroneamente ritenuta insufficiente a giustificare il licenziamento, tenuto conto del particolare livello di fiducia insito nella mansione di cassiera, che avrebbe richiesto una particolare diligenza nello svolgimento dei corrispondenti compiti. Doveva, poi, reputarsi irrilevante la ulteriore circostanza della appropriazione di importi, atteso che la mancata registrazione degli incassi integrava un comportamento di pericolo oggettivo in funzione di possibili appropriazioni e che erano state date specifiche disposizioni nel senso dell’obbligo di emissione degli scontrini fiscali. Anche a conclusione di tali censure, la ricorrente formula quesito di diritto.

Infine, con il terzo motivo, lamenta la violazione o falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., nonchè l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo, in particolare circa le versioni fornite dalla G. in merito alla contabilizzazione degli incassi non accompagnati immediatamente dall’emissione dello scontrino fiscale, rilevando la non attendibilità al riguardo della difesa prospettata dalla dipendente, la quale aveva evidenziato che la società non aveva prodotto gli scontrini per verificare che quotidianamente erano registrati importi sotto la voce "varie", a fondamento delle deduzioni avanzate.

Osserva la Corte che i motivi, da esaminarsi congiuntamente, sono infondati.

Come già ampiamente affermato in numerosi precedenti, ai fini della valutazione della legittimità del licenziamento, è da evidenziare che:

1) è necessario accertare se, in relazione alla qualità del singolo rapporto intercorso fra le parti, ed alla qualità ed al grado di fiducia che il rapporto comporta, la specifica mancanza risulti oggettivamente e soggettivamente idonea a ledere in modo grave, così da farla venir meno, la fiducia che il datore ripone nel proprio dipendente, senza che possa assumere rilievo l’assenza o la modesta entità del danno patrimoniale subito dal datore (Cass. 23 aprile 2004 n. 7724; Cass. 23 aprile 2002 n. 5943);

2) l’irrogazione della massima sanzione disciplinare risulta giustificata solamente in presenza di un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali, ovvero di un comportamento tale che non consenta la prosecuzione del rapporto di lavoro (Cass. 24 luglio 2006 n 16864; Cass. 25 febbraio 2005 n. 3994);

3) la valutazione della gravità del comportamento e della sua idoneità a ledere irrimediabilmente la fiducia che il datore di lavoro ripone nel proprio dipendente (giudizio da effettuarsi considerando a natura e la qualità del rapporto, la qualità ed il grado del vincolo di fiducia connesso al rapporto, l’entità della violazione commessa e l’intensità dell’elemento soggettivo) è funzione del giudice del merito, che, adeguatamente motivata, in sede di legittimità è insindacabile (ex plurimis, Cass. 25 febbraio 2005 n. 3994);

4) "sul piano probatorio, premesso che l’elemento soggettivo è necessaria parte di ogni atto umano, se all’integrazione dei fatti giuridicamente legittimanti il licenziamento è necessario il dolo, l’onere datoriale di provare la sussistenza dei fatti si estende alla prova del dolo, e pertanto, ai fini della legittimità del licenziamento, la prova della sussistenza del fatto nella sua mera materialità è insufficiente".

Nel caso in esame, la corte territoriale ha specificamente ed analiticamente valutato gli incontroversi fatti dedotti in controversia. Ed, in particolare, ha ritenuto che elementi idonei a dedurre i dolo, quale fattore necessario e determinante ai fini dell’illecito addebitato consistente non solo nella mancata contabilizzazione fiscale delle merci vendute quanto nell’appropriazione delle somme corrispondenti al relativo prezzo di vendita – non sussistevano; sussistevano elementi di segno contrario, in quanto idonei ad escluderlo (contabilizzazione successiva affermata dalla dipendente con varietà di modalità;

organizzazione del lavoro carente sotto il profilo della mancanza di personale idoneo ad affrontare il lavoro nei momenti di folla;

mancata produzione di scontrini per verificare se le eccedenze di cassa che avrebbero dovuto esservi fossero state registrate in scontrini emessi successivamente a fine giornata sotto la voce "varie"; mancata prova della appropriazione di somme da parte della dipendente e modalità di accadimento dei fatti). E, in applicazione dei consolidati principi giurisprudenziali (come precedentemente indicati sub 1), ha ritenuto che i fatti (per la non provata sussistenza dell’appropriazione di somme pure contestata) non erano idonei a ledere in modo irreversibile la fiducia del datore; e che la sanzione del licenziamento era palesemente sproporzionata rispetto all’effettiva entità dei fatti addebitati, valutati non solo nel loro contenuto obiettivo, bensì in quello soggettivo ed intenzionale.

In applicazione del principio precedentemente affermato sub 4), la prova della sussistenza, nella loro materialità, dei fatti addebitati, non è sufficiente. L’argomentazione della società ricorrente, riferita alla prova del fatto addebitato alla lavoratrice e alla sua riferibilità soggettiva, nonchè alla evidente appropriazione delle somme pagate dagli avventori per le consumazioni non registrate, per il mancato rinvenimento delle stesse in cassa, è pertanto infondata, anche in ragione della motivazione fornita al riguardo nella sentenza, che ha evidenziato la insussistenza di motivi per dubitare della veridicità delle affermazioni relative ad una contabilizzazione postuma, effettuata nei momenti di maggiore calma o alla fine della giornata lavorativa.

Per esigenza di completezza è da aggiungere che, in relazione alle specifiche mansioni, il giudicante ha valutato il fatto anche prescindendo dalla condotta dell’appropriazione, ritenendo che la scarsa diligenza ed accortezza, pur disciplinarmente sanzionabile, non legittimava il licenziamento. Anche le argomentazioni relative a tale profilo sono pertanto infondate.

Il giudicante ha ritenuto l’inidoneità della fattispecie a ledere la fiducia datoriale ritenendo non contraddittorio il quadro difensivo della dipendente in relazione ad una contabilizzazione successiva e alla mancanza di elementi che inducessero a ritenere realizzata l’appropriazione di somme e le argomentazioni svolte sul punto devono ritenersi prive di errori logici e giuridici. Nè, peraltro (ciò deve essere detto per mera esigenza di completezza), la ricorrente ha indicato (in modo autosufficiente) elementi a conforto di una ricostruzione probatoria idonea a porre in discussione quanto ritenuto dal giudicante, dovendo al riguardo osservarsi, conformemente a giurisprudenza consolidata di questa corte, che il vizio di omessa o insufficiente motivazione, deducibile in sede di legittimità ex art. 360 c.p.c., n. 5, sussiste solo se nel ragionamento dei giudice di merito, quale risulta dalla sentenza, sia riscontrabile il mancato o deficiente esame di punti decisivi della controversia e non può invece consistere in un apprezzamento dei fatti e delle prove in senso difforme da quello preteso dalla parte, perchè la citata norma non conferisce alla Corte di Cassazione il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico – formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice dei merito al quale soltanto spetta di individuare le fonti del proprio convincimento e, all’uopo, valutare le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza, e scegliere tra le risultanze probatorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione (cfr. Cass. 15355/2994; Cass. 23218/06; 19368/2006; 2272/087).

Alla stregua di tali osservazioni il ricorso deve essere respinto e la ricorrente deve essere condannata al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, in applicazione della regola della soccombenza.

P.Q.M.

La Corte così provvede:

rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in Euro 27,00 per esborsi, Euro 3.000,00 per onorario, oltre spese generali, IVA e CPA come per legge.

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