Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 20-10-2010) 12-01-2011, n. 571 Sequestro preventivo

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Con l’ordinanza in epigrafe il Tribunale di Bari investito ex art. 324 c.p.p. dalla richiesta di riesame presentata nell’interesse di S.A., SA.An. e S.V.D., confermava il decreto di sequestro preventivo emesso dal Giudice delle indagini preliminari del Tribunale Bari in data 26.11.2009, avente ad oggetto beni mobili (conti correnti e di deposito) e immobili (terreni e costruzioni) intestati ai ricorrenti e ritenuti nella disponibilità del figlio e fratello di costoro, S. L., indagato per associazione di tipo mafioso e ricettazione.

A ragione delle decisione il Tribunale osservava che il G.i.p. aveva già evidenziato che i redditi dichiarati da S.A. e dalla moglie nell’intero periodo oggetto d’indagini e in quello relativo all’acquisto dei beni sequestrati, erano assolutamente sproporzionati, sia complessivamente sia valutandoli per anni, al patrimonio accumulato (negli anni 2005 – 2009 si poteva ritenere accertato un reddito complessivo di circa Euro 57.550, a fronte del quale risultavano investimenti e spese per circa Euro 635 mila, cui andavano aggiunte le spese per il sostentamento, sicchè considerata l’attività di disinvestimento pari a circa Euro 12.500, risultava uno squilibrio "passivo" di circa Euro 625.000).

La prospettazione difensiva era che i ricorrenti avevano regolarmente acquistato, con andamento costante e a far data quantomeno dal 1978, quando l’indagato S.L. non era ancora nato, i fondi limitrofi alla loro proprietà contadina (originaria) con i proventi dell’attività agricola esercitata, via via ingrandita; che i fondi sequestrati erano tutti riferibili alla attività agricola effettivamente esercitata dagli intestatari su di essi e non poteva dunque parlarsi di intestazione fittizia; che parte degli acquisti apparentemente realizzati nel 2009 concernevano in realtà soltanto la formale attribuzione di quote ereditarie già possedute dai ricorrenti; che alcuni conti correnti risultavano accesi prima che il figlio fosse indagato o quando era bambino; che anche l’acquisto del pub avvenuto ad opera di Sa.An. nel 2008 era quantomeno per i 5/8 assolutamente giustificato, la relativa quota di prezzo essendo stata pagata con mutuo ipotecario, e risultando per il resto frutto di risparmi di 30 anni di lavoro. Tuttavia ad avviso del Tribunale la incapacità di giustificare la provenienza di denaro impiegato negli acquisti dai familiari dell’indagato, anch’esso privo di redditi leciti adeguati, bastava a rivelarne la intestazione fittizia ai congiunti. E se era vero che anche in epoca precedente al periodo interessato dalle indagini i coniugi S. avevano acquistato fondi rustici per accrescere la loro proprietà, la quantità degli acquisti aveva subito un incremento notevole proprio negli anni 2005 – 2009, senza che la documentazione sulle entrate percepite dai ricorrenti riuscisse a giustificare la disponibilità delle risorse economiche impiegate (i contributi Agea erano per il 2006 – 2009 complessivamente pari a Euro 50 mila euro, indennità e pensioni percepite dai conviventi ammontavano a Euro 5.500 – 6.000 annui ciascuno, i canoni di locazione per i ripetitori a Euro 9.300 l’anno).

L’affermazione dell’acquisto per eredità dei 9/11 della masseria era in contrasto con l’atto depositato, in cui si dava atto di un prezzo di Euro 180.000 interamente versato. Parimenti non poteva ritenersi giustificato l’acquisto del pub, che, per altro, anche dalle intercettazioni telefoniche risultava oggetto di acquisto simulato, curato e pagato direttamente dal figlio L. e dal suo commercialista (si richiama, come particolarmente significativa, l’intercettazione del 13.3.2007). Del tutto privi di giustificazioni apparivano infine i denari riversati nei conti correnti e impiegati negli investimenti mobiliari.

2. Hanno proposto ricorso S.A., SA.An. e S.V.D., a mezzo del difensore e procuratore speciale avvocato Conticchio Domenico, chiedendo l’annullamento della ordinanza impugnata.

2.1. Con il primo motivo, relativo a tutti i beni diversi dal pub intestato a Sa.An., si denunzia violazione del D.L. n. 306 del 1992, art. 12 sexies e mancanza ovvero apparenza di motivazione in ordine alla fittizietà della intestazione dei beni ai ricorrenti e alla effettiva appartenenza o disponibilità degli stessi invece in capo al figlio indagato. Si sostiene che il Tribunale aveva completamente omesso, nella sostanza, di rispondere alle deduzioni difensive, con le quali s’erano non soltanto dettagliatamente indicati prezzi e anni (effettivi, in base ai preliminari) di acquisto dei terreni, per dimostrarne la congruenza con i proventi dell’attività economica dei ricorrenti, per quanto fiscalmente non dichiarata, ma soprattutto s’era decisamente contestato il presupposto della fittizietà della intestazione di detti beni, sempre effettivamente posseduti e gestiti dai genitori dell’indagato. E si afferma che con riguardo alla effettiva disponibilità dei beni in capo all’indagato non poteva farsi ricorso a presunzioni, in contrasto oltretutto con quanto emergeva dagli atti e non era stato fatto oggetto d’esame. Erano d’altro canto palesemente errate l’affermazione che gli acquisti effettuati negli anni 2005 – 2009 superavano di gran lunga quelli effettuati in precedenza, come pure l’affermazione che la somma degli introiti documentati dalla difesa non sarebbe bastata a coprire le spese d’acquisto dei beni immobili (bastavano semplici addizioni dei due gruppi di valori), ed era arbitraria l’omessa considerazione dei redditi, ancorchè non dichiarati, ricavati dall’attività di produzione casearia dei ricorrenti. D’altronde sia la giustificazione dell’acquisto sia la titolarità effettiva avrebbero dovuto essere verificate per singoli cespiti.

2.2. Con il secondo motivo si articolano censure analoghe con riferimento al pub intestato a Sa.An.. Si osserva che il pub era stato acquistato per Euro 400.000,00 pagati in parte con un mutuo di Euro 250.000,00 la cui rata mensile, di Euro 2.760 veniva pagata con il canone d’affitto, ceduto a garanzia alla banca mutuante. In relazione a detto importo, dunque, l’acquisto non poteva ritenersi in alcun modo ingiustificato e per la quota corrispondente il sequestro andava considerato illegittimo.

2.3. Il terzo motivo è dedicato al sequestro dei conti e dei crediti, e con esso si denunzia che il Tribunale aveva completamente omesso di valutare che i rapporti di credito risultavano creati quando S.L. (classe (OMISSIS)) non era neppure indagato (i primi due elencati), o aveva sette anni (il terzo e quelli intestati alla madre e al fratello) e che non ne risultava in alcun modo la disponibilità in capo all’indagato. Affatto apodittica era quindi l’affermazione che non v’era ragione per l’accensione di conti correnti bancari.

3. Con motivi nuovi depositati in vista dell’udienza del 1 luglio 2010, il difensore:

a) ribadisce e insiste sulle censure relative alla mancanza di motivazione in relazione alla assunta signoria di fatto esercitata dall’indagato sui beni dei ricorrenti;

b) eccepisce inoltre (allegando copia dei documenti cartacei richiamati e copia in file con estensione ".pdf" dell’intero fascicolo delle intercettazioni RIT 45/32007) l’inutilizzabilità delle conversazioni intercettate con provvedimenti RIT 45/2007, sulla cui base il Tribunale aveva ritenuto d’affermare che il pub in sequestro intestato alla ricorrente Sa.An., apparteneva all’indagato ed era stato da lui acquistato; afferma in particolare che, nonostante il decreto esecutivo del Pubblico ministero disponesse che le intercettazioni andavano realizzate mediante l’utilizzazione degli impianti della Procura, con sola remotizzazione degli ascolti, le operazioni erano state interamente realizzate a mezzo degli impianti del nucleo di Polizia Tributaria di Bari, nessun dato originale risultando immesso e registrato sul server della Procura: e tanto dimostravano i verbali di inizio e fine delle operazioni di "ascolto" redatti dal personale di Polizia delegato;

l’assenza di qualsivoglia altro atto che attestasse, ex art. 89 disp. att. c.p.p., inizio e fine della immissione e registrazione dei dati audio originali nel server della Procura; le schede riepilogative sottoscritte dall’ausiliario giudiziario della segreteria del Pubblico ministero, che indicavano come centri incaricati dell’intercettazione e destinatari del segnale sempre quelli del nucleo della Guardia di Finanza incaricata delle indagini;

c) rimarca infine ulteriormente il difetto assoluto di motivazione in ordine alla sequestrabilità dei 5/11 del pub, in quota corrispondente cioè a quella del mutuo impiegato per il suo acquisto, richiamando a tal fine la L. n. 328 del 1990, art. 5, comma 6/b di ratifica della Convenzione di Vienna (recte art. 5, comma 6 lett. B, dell’annesso H, della Convenzione, in materia di traffico illecito di stupefacenti e di sostanze psicotrope, adottata il 19 dicembre 1988 e ratificata con la predetta legge); l’art. 2 commi 1 e 5 della L. 9 agosto 1993, n. 328 di ratifica della Convenzione di Strasburgo del 9.11.1990 (recte art. 2, commi 1 e 5 della Convenzione, ratificata con la predetta legge) l’art. 12, comma 4 della Convenzione ONU fatta a Palermo il 12.12.2000; l’art. 5, lett. b) della convenzione di Varsavia del 3.5.2005; l’art. 1, comma 2, della risoluzione di Azione Comune del Consiglio d’Europa del 3.12.1998 (98/699/GAI: recte, articolo ora sostituito dall’art. 3 dell’azione comune 2001/500/GAI, relativa alla confisca per equivalente, che ha contemporaneamente abrogato, all’art. 6, la previsione citata).

Motivi della decisione

1. Il ricorso è inammissibile.

E’ appena il caso di ricordare che il ricorso per Cassazione contro le ordinanze emesse a norma dell’art. 324 c.p.p., in materia di sequestro preventivo o probatorio è previsto dall’art. 325 c.p.p., comma 1, solo per violazione di legge, in tale nozione dovendosi comprendere sia gli errori in iudicando o in procedendo, sia quelle carenze della motivazione così radicali da rendere l’apparato argomentativo posto a sostegno del provvedimento o del tutto mancante o privo dei requisiti minimi di coerenza, completezza e ragionevolezza (Conf. S.U., n. 25932 del 29.5.2008, Ivanov; S.U., 29 maggio 2008 n. 25933, Malgioglio; S.U., n. 5876 del 28.1.2004, Bevilacqua; S.U., n. 5 del 26/02/1991, Bruno).

Ora il provvedimento impugnato non è affatto (come risulta dalla esposizione in fatto) immotivato e le ragioni che lo sostengono sono oggetto di illustrazione esauriente e giuridicamente corretta, oltre che adeguata e plausibile.

2. In particolare, quanto il primo motivo e al terzo motivo di ricorso, è manifestamente infondata la censura con la quale si assume che il Tribunale non avrebbe dato risposta alle deduzioni difensive, avendo al contrario i giudici del merito adeguatamente osservato che il valore dei beni immobili sequestrati, che erano solamente quelli acquistati tra il 2005 e il 2009, e delle provviste versate su i conti correnti denotavano un significativo e notevole "incremento" di disponibilità finanziarie che non trovava alcuna giustificazione nè nei redditi ufficiali e nelle altre entrate dichiarate dei familiari dell’indagato nè, comunque, nelle attività economiche da costoro poste in essere, legittimamente valutate (avuto riguardo ai principi affermati da S.U. 17.12.2003, n. 920/2004, Montella) sulla base dell’accertato volume medio annuale d’affari e di acquisti.

Privi di rilevanza sono quindi i rilievi che s’appuntano sulle date, remote, dei precedenti e diversi, per consistenza oltre che per data, acquisti compiuti dai ricorrenti e di formale accensione dei conti correnti, perchè oggetto di sequestro sono soltanto i beni acquisiti nell’ultimo quinquennio e gli importi corrispondenti ai saldi attuali dei conti. Mentre le deduzioni con le quali in ricorso si assume che tanto impiego di denaro negli ultimi anni poteva essere giustificato dall’accumulo dei proventi di attività "in nero", oltre ad essere non autosufficienti e generiche (laddove si evoca nella sostanza soltanto una "sicura capacità di risparmio" e una "evidente evasione fiscale"), attengono in ultima analisi all’apprezzamento del materiale probatorio, riservato al giudice di merito e non censurabile, per quanto detto all’inizio, in questa sede.

Manifestamente infondate sono per conseguenza anche le doglianze con le quali si assume che il Tribunale sarebbe incorso in violazione di legge non avendo esaminato specificamente il profilo della effettiva disponibilità dei beni in capo ai ricorrenti che conducevano le aziende agricole, anzichè al familiare indagato. Avendo ritenuto che la effettiva titolarità di detti beni doveva essere attribuita all’indagato, perchè nessun reddito o entrata lecita dei suoi familiari ne giustificava l’acquisizione, nessuna incidenza poteva avere, ai fini che qui interessano, la circostanza che lo stesso indagato ne avesse affidata la gestione ai suoi familiari, giacchè non è la mera ipotesi di gestione per mano altrui dei beni acquistati con denari che si presumono frutto di illecita accumulazione, che può valere a giustificare in termini economici la "appartenenza" di detti beni agli intestatari apparenti e formali possessori.

3. Analoghe considerazioni valgono, e a maggior ragione, per l’acquisto del "pub", che non risulta in alcun modo giustificato da introiti leciti della ricorrente alla quale era stato intestato e che inoltre, stando alle conversazioni intercettate, appariva realizzato con diretto interessamento e partecipazione alle trattative del congiunto indagato. E neppure ha rilievo, per la posizione dei ricorrenti, la circostanza che per una quota parte detto acquisto sia stato finanziato mediante prestito bancario, da restituire grazie agli introiti derivanti dagli affitti, perchè la corrispondente porzione resta comunque riferibile al ricavato dell’investimento di capitali presuntivamente illeciti dell’indagato.

4. Ai sensi dell’art. 585 c.p.p., comma 4, ultimo periodo, l’inammissibilità del ricorso s’estende ex lege ai motivi nuovi, qualunque ne sia il contenuto.

4.1. Può solo aggiungersi, a proposito di questi, che le censure relative all’inutilizzabilità delle intercettazioni, sulle quali il difensore ha insistito anche in sede di discussione orale, risultavano comunque inammissibili per plurime, concorrenti, considerazioni.

Innanzitutto esse erano riferite ad un’asserita divergenza tra decreto autorizzativo (che disponeva l’esecuzione delle operazioni mediante impianti della Procura e remotizzazione dell’ascolto) e realizzazione effettiva di dette operazioni (che si assumevano essere avvenute invece interamente mediante impianti della Polizia giudiziaria, senza registrazione di alcun dato sul server della Procura), che implicava, per la verifica dell’esistenza della difforme situazione fattuale denunziata, lo svolgimento di accertamenti sull’esistenza di dati materiali che, pur essendo di competenza del giudice di merito, non risultano a questo sollecitati.

In secondo luogo, poi, codeste censure risultavano del tutto svincolate dalle deduzioni sviluppate nel ricorso principale, che concerneva punti della decisione affatto diversi e indipendenti, contestandosi in esso esclusivamente la confiscabilità dei 5/8 del bene asseritamente riconducibili al finanziamento bancario, mentre non erano oggetto del ricorso nè il diretto interessamento nell’affare dell’indagato nè, in buona sostanza, la provenienza delle somme sino a concorrenza dei 3/8 del valore del bene, a "riprova" dei quali il provvedimento impugnato citava le conversazioni intercettate. Sicchè neppure adducendosi la rilevabilità d’ufficio della dedotta inutilizzabilità delle intercettazioni poteva essere superato il profilo preclusivo discendente dalla estraneità di quel tema di prova rispetto all’oggetto del ricorso principale e ai punti e temi da esso investiti.

Inoltre, il richiamo alle intercettazioni risulta nel provvedimento impugnato effettuato a mero sostegno dell’argomento fondante la decisione, costituito dal più volte ricordato impiego di rilevanti mezzi finanziari, affatto sproporzionati alle risorse economiche della famiglia S..

4.2. Non pertinenti sono quindi i richiami (per altro imprecisi) alle norme o ai principi sovrannazionali indicati in fatto al punto 3.c..

I ricorrenti non soltanto non possono difatti, per le ragioni esposte, vantare alcun diritto reale effettivo, ma comunque nessuna allegazione della loro "buona fede" risultano avere versato in atti.

5. All’inammissibilità del ricorso consegue, ai sensi dell’art. 616 c.p.p., la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese del procedimento e – per i profili di colpa correlati all’irritualità dell’impugnazione (C. cost. n. 186 del 2000) – di una somma in favore della cassa delle ammende nella misura che, in ragione delle questioni dedotte, si stima equo determinare per ciascuno in Euro 1.000,00.

P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese del procedimento e ciascuno al versamento della somma di Euro 1.000,00 in favore della cassa delle ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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