Cass. civ. Sez. V, Sent., 04-02-2011, n. 2712 Redditi di capitale

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Secondo quanto emerge dal ricorso e dalla sentenza impugnata -oltre che dai numerosi precedenti della Corte di cassazione che hanno riguardato la medesima vicenda " M.", seppure con riferimento ad altri contribuenti, è accaduto che a seguito del dissesto dell’intermediario finanziario professionale M.C., sfociato nel fallimento del medesimo e nell’apertura di un procedimento penale a suo carico, la Guardia di finanza, esaminando la documentazione fornita dallo stesso M. – ed in particolare da schede contabili nominative – aveva rilevato che B. S., al pari di molti altri, aveva versato al M. somme rilevanti (nella specie, un capitale iniziale di L. 433.344.000 oltre a successivi versamenti) e che a lui, nella rispettiva scheda, risultavano accreditate, oltre ai versamenti dal medesimo effettuati al M., anche altri importi con la dicitura cedole/div. e alcuni prelievi.

Con atto di accertamento relativo al 1997, l’Agenzia delle Entrate di Genova recuperava a tassazione a fini IRPEF ed ILOR nei confronti del B. gli importi accreditati come rendimento del capitale investito.

Avverso l’avviso proponeva ricorso il contribuente, sostenendo che i tabulati e la documentazione rinvenuti presso il M. erano inattendibili, ed in ogni caso le somme indicate come interessi non erano mai state percepite, e pertanto non potevano essere sottoposte a tassazione. La Commissione accoglieva il ricorso.

Interponeva appello l’Ufficio e la Commissione Tributaria Regionale della Liguria con sentenza n. 45 in data 3 marzo – 30 giugno 2006, lo accoglieva, dichiarando la assoggettabilità ad imposta delle somme che risultavano accreditate.

Avverso la sentenza propone ricorso per cassazione il contribuente, con quattro motivi.

La Agenzia della Entrate deposita atto al fine della comunicazione della udienza di discussione.

Motivi della decisione

Con il primo motivo, il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 42, commi 2 e 3, in rapporto di specialità con gli artt. 2727 e 2728 ex., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3. Sostiene che la CTR ha errato ritenendo esistente una presunzione di fruttuosità del capitale investito, in quanto pur ammettendo che non vi era prova che dimostrasse il tipo di contratto intercorrente tra le parti, aveva applicato le disposizioni riservate dall’art. 42 cit. ai soli casi di mutuo e conto corrente, in cui tale presunzione è prevista, laddove in ogni altra ipotesi, e quindi anche in quella considerata, la prova della esistenza di un reddito di capitale è a carico dell’Ufficio.

Formula conseguente quesito di diritto.

Con il secondo motivo deducono violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 42, commi 1, 2 e 3 in relazione agli artt. 2697 e 2729 c.c., (art. 360 c.p.c., n. 3).

Sostiene che la CTR ha valutato i "tabulati" del M., nonchè gli accrediti di somme mediante assegno per gli anni 1995 e 1997 come prova dell’avvenuto investimento della somme percepite, e quindi della esistenza di frutti od interessi, senza che fosse provato il titolo della consegna o dell’accredito delle somme ricorrendo quindi ad una doppia presunzione.

Formula conseguente principio di diritto.

Deduce inoltre contraddittorietà nella motivazione per avere la CTR ritenuto non provata la natura giuridica del rapporto e nel contempo ritenuto che vi fossero presunzioni gravi, precise e concordanti nel senso che le somme versate fossero produttive di interessi.

Con il terzo motivo deduce violazione e falsa applicazione del combinato disposto di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 42, comma 1, e art. 41, lett. H in relazione agli artt. 820, 821 e 2033 c.c. ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3.

Sostiene che poichè il capitale consegnato al M. era entrato nella piena disponibilità di quest’ultimo, il quale non aveva restituito nè capitale nè interessi, costui si era appropriato di entrambi, sicchè da un lato non vi era la prova di un impiego fruttuoso per il tradens in quanto i frutti di cui all’art. 820 c.c. erano in capo al medesimo M., dall’altro ogni versamento di somma da costui al "tradens" doveva considerarsi restituzione di indebito ai sensi dell’art. 2033 c.c..

Formula il seguente principio di diritto;

"dica la Corte se sia corretto,sulla base delle regole civilistiche in tema di frutti, che gli interessi corrispettivi vengano tassati in capo al tradens, nonostante questi non vanti più alcun diritto sul capitale, entrato definitivamente nella sfera patrimoniale esclusiva dell’accipiens: e, se, una volta rientrati nella disponibilità del tradens a titolo di restituzione ex art. 2033 c.c., posano continuare a qualificarsi come interessi corrispettivi e come tali tassabili quali redditi di capitale".

Deduce inoltre contraddittorietà ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5 tra la ammissione che capitale ed interessi non erano stati restituiti al "tradens" e la ritenuta maturazione di interessi tassabili in capo al medesimo.

Con il quarto motivo, deducono in primo luogo violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 917 del 1982, art. 42, comma 1, in relazione all’art. 42 Cost., comma 1, e art. 53 Cost. ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3.

Sostiene che la CTR ha errato nell’affermare che i presunti interessi siano tassabili a prescindere dalla dimostrazione che gli stessi fossero stati effettivamente percepiti ovvero ricapitalizzati, in quanto, in mancanza di presunzione legale di fruttuosità, possono essere tassati esclusivamente gli interessi effettivamente percepiti.

Formula conseguente principio di diritto.

Deducono infine insufficiente motivazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4, in quanto la sentenza aveva ritenuto la fruttuosità del capitale in assenza di prova del titolo che legittimasse la presunzione legale; non aveva distinto tra effettiva dazione dell’interesse e ricapitalizzazione , in quanto solo la prima ipotesi doveva essere ritenuta tassabile; aveva violato il principio dell’onere della prova, spettante all’Ufficio, circa la dimostrazione di un avvenuto impiego di capitali, per cui la documentazione in atti non era probante; che la mancata restituzione di capitale ed interessi modificava la natura delle somme effettivamente percepite dal tradens in ripetizione di indebito.

Il ricorso è infondato.

La CTR, infatti, ha ritenuto in fatto che i contribuenti avessero affidato al M., intermediatore finanziario professionista, capitali con di investirli in impieghi redditizi corrispondendone loro i frutti. Tale accertamento, non specificamente contestato e soprattutto non contestato mediante l’affermazione della sussistenza di un contratto diverso da quello accertato dal giudice di secondo grado, non è sindacabile in cassazione, in quanto sorretto da elementi di convincimento più che ragionevoli. Non risultano essere stati contestati dai contribuenti gli importi che dalla scheda contabile del B. risultavano quali capitali da lui versati nè risultano essere state contestate in modo adeguatamente specifico gli importi che Risultano dalla scheda essere stati a lui accreditate come frutti o dividendi. La contestazione riguarda sostanzialmente solo la percezione effettiva di tali frutti, mentre per il resto non risulta essere uscita dal dall’ambiguità. Infine non risultano contestate le somme che la sentenza impugnata afferma essere state versate mediante assegni. Il contribuente – osserva la sentenza impugnata – non aveva fornito la propria versione circa la natura ed il contenuto del contratto nè aveva fornito alcuna documentazione al riguardo. La Commissione tributaria regionale ha anche ritenuto che i frutti, anche se non materialmente versati si intendevano come corrisposti (e quindi sottoposti ad imposizione) in quanto contabilmente accreditati e riportati a capitale. La fattispecie in esame appare dover essere giuridicamente qualificata quale mandato ad investire. Tale qualificazione può peraltro essere riferita a due ipotesi fattuali ben distinte: a) la prima è rappresentata dal mandato ad acquistare titoli o beni; b) la seconda è data dal mandato ad effettuare operazioni di investimento che determinino frutti pecuniari che il mandatario si impegna a riversare al mandante. E’ chiaro che nella specie la prima ipotesi non ricorreva dato che non vi è traccia, nelle deduzioni delle parti e nella sentenza impugnata, di beni o titoli acquisti per conto del mandante e a lui riversati o che dovessero essere a lui riversati: ciò impone di escludere che si trattasse di un mandato ad acquistare. Il mandato a procurarsi frutti pecuniari mediante investimenti e un mandato produttivo di redditi da capitale tassabili ex art. 42 lettera h) ed in realtà altro non è che un mutuo a scopo di investimento eventualmente con frutti regolati quanto all’ammontare in corrispondenza dell’andamento degli investimenti effettuati. Nel caso di specie, sulla base degli elementi incontroversi in causa deve presumersi che l’incarico comportasse la discrezionalità del mandatario nella scelta degli investimenti, con la realizzazione di una "gestione patrimoniale" analoga a quella prevista dal D.Lgs. n. 415 del 1996 (v. Cass. n. 12479 del 2007).

Non assume quindi rilievo il problema se alla fattispecie sia o meno applicabile la presunzione legale di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 42, comma 2. Alla fattispecie è comunque applicabile una valida e forte presunzione semplice, circa lo scopo reddituale dell’affidamento del capitale, posto che secondo l’id quod plerumque accidit nessuno affida i propri capitali ad un intermediatore finanziario senza la promessa di un corrispettivo, sia pure aleatorio; mentre la percezione, le date e l’ammontare dei frutti è stato nella specie accertato dalla sentenza impugnata sulla base dei tabulati e tale accertamento appare ragionevole e non inficiato da illogicità o lacune.

E’ pur vero che per gran parte dei redditi da capitale accertati risulta il solo accreditamento ma non anche l’effettivo versamento e che tale accreditamento risulta da una scrittura unilaterale del mediatore finanziario. Ma al riguardo deve osservarsi che i frutti si considerano percepiti anche mediante compensazione e cioè mediante il riporto di essi a capitale, posto che il riporto dei frutti a capitale altro non è che una forma di muovo investimento dei relativi importi.

Il terzo motivo è infondato, sia in quanto postula la sussistenza di una forma di indebito che non trova riscontro, in fatto, nè nella sentenza impugnata nè nei fatti pacifici in causa (in cui emerge esclusivamente la inadempienza del M. agli obblighi assunti) sia perchè il quesito di diritto è palesemente inammissibile, in quanto si fonda su premesse di fatto diverse da quelle poste a base della decisione impugnata.

Il quarto motivo è infondato in punto di diritto, in quanto è ammissibile anche la tassazione di redditi di capitale non percepiti direttamente nell’anno di imposta, purchè tali redditi siano venuti ad esistenza e siano stati reinvestiti su mandato del soggetto abilitato a riscuoterli.

E’ infine infondato, per quanto già si è detto, il motivo in tema di insufficienza e contraddittorietà della motivazione.

P.Q.M.

– la Corte rigetta il ricorso;

– compensa le spese.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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