Corte Costituzionale, Sentenza n. 86 del 2012, in tema di norme della Regione Marche sui maestri di sci extracomunitari

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Gazzetta Ufficiale – 1ª Serie Speciale – Corte Costituzionale n. 16 del 18-4-2012

Sentenza

nel giudizio di legittimita’ costituzionale degli articoli 2 e 21
della legge della Regione Marche 29 aprile 2011, n. 7 (Attuazione
della Direttiva 2006/123/CE sui servizi nel mercato interno e altre
disposizioni per l’applicazione di norme dell’Unione Europea e per la
semplificazione dell’azione amministrativa. Legge comunitaria
regionale 2011), promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri,
con ricorso notificato il 7-8 luglio 2011, depositato in cancelleria
il 14 luglio 2011, ed iscritto al n. 70 del registro ricorsi 2011.
Visto l’atto di costituzione della Regione Marche;
udito nell’udienza pubblica del 22 febbraio 2012 il Giudice
relatore Alessandro Criscuolo;
uditi l’avvocato dello Stato Angelo Venturini per il Presidente
del Consiglio dei ministri e l’avvocato Stefano Grassi per la Regione
Marche.

Ritenuto in fatto

1. – Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e
difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, con ricorso notificato
l’8 luglio 2011, depositato il 14 luglio 2011, ha impugnato: a)
l’articolo 21 della legge della Regione Marche 29 aprile 2011, n. 7
(Attuazione della Direttiva 2006/123/CE sui servizi nel mercato
interno e altre disposizioni per l’applicazione di norme dell’Unione
europea e per la semplificazione dell’azione amministrativa. Legge
comunitaria regionale 2011), norma che ha sostituito l’art. 34 della
legge della Regione Marche 28 ottobre 2003, n. 20 (Testo unico delle
norme in materia industriale, artigiana e dei servizi alla
produzione); b) l’art. 2 della citata legge reg. n. 7 del 2011, nella
parte in cui inserisce i commi 6 e 7 del novellato art. 29 della
legge della stessa Regione Marche 23 gennaio 1996, n. 4 (Disciplina
delle attivita’ professionali nei settori del turismo e del tempo
libero).
2. – Il ricorrente, quanto al punto sub a) osserva che l’art. 21
della legge della Regione Marche n. 7 del 2011 – rubricato «Art. 21
Sostituzione dell’art. 34 della L. R. n. 20/2003» – violerebbe gli
artt. 117, primo comma, e 120, primo comma, della Costituzione.
Infatti, esso stabilirebbe che la Giunta regionale, per ciascuna
delle lavorazioni artigianali, approvi appositi disciplinari di
produzione che descrivano e determinino i materiali impiegati, oltre
alle tecniche produttive da utilizzare. Le diverse imprese, svolgenti
tale attivita’ secondo i dettami stabiliti, potrebbero avvalersi del
marchio di origine e qualita’ appositamente creato, che
individuerebbe la provenienza del prodotto con le prescritte qualita’
dalla Regione Marche (marchio di origine e qualita’
denominato:«MEA-Marche Eccellenza Artigiana»). La Giunta regionale
avrebbe il compito di definire la forma e le caratteristiche
estetiche del marchio e di vigilare sulla corretta applicazione dei
disciplinari.
Orbene, il censurato art. 21 si porrebbe in contrasto con le
disposizioni del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea
(TFUE), in materia di libera circolazione delle merci (artt. da 34 a
36) e, per l’effetto, con l’art. 117, primo comma, Cost., che impone
al legislatore regionale il rispetto dei vincoli derivanti
dall’ordinamento comunitario.
La Corte di giustizia dell’Unione europea, piu’ volte intervenuta
sulla questione, avrebbe da tempo chiarito che la legislazione
nazionale, diretta a regolare o applicare misure di marcatura di
origine, siano i marchi di natura obbligatoria o volontaria, sarebbe
contraria agli obiettivi di mercato interno, poiche’ la presenza di
un marchio potrebbe avere effetti restrittivi sulla vendita in uno
Stato membro di una merce prodotta in un altro Stato membro,
ostacolando cosi’ gli scambi comunitari e i benefici del mercato
interno.
In particolare, l’art. 21 sarebbe in contrasto con gli artt. 34 e
35 del TFUE, che farebbero divieto agli Stati membri di porre in
essere restrizioni quantitative alle importazioni e alle
esportazioni, nonche’ qualsiasi misura di effetto equivalente.
L’istituzione di un marchio di qualita’ da parte di uno Stato o
di una Regione integrerebbe una «misura ad effetto equivalente»,
contraria al disposto delle dette norme comunitarie.
Invero, se gli stessi Stati membri, o al loro interno le Regioni,
sostenessero una etichetta di qualita’ ed origine, tale attivita’
(come chiarito dalla Corte di giustizia) avrebbe potenzialmente
effetti restrittivi sulla libera circolazione delle merci, perche’
mirerebbe a promuovere e a privilegiare la commercializzazione di
prodotti realizzati in taluni paesi o Regioni, inducendo i
consumatori ad acquistare tali prodotti, anziche’ quelli importati o
di provenienza da altri Stati membri o Regioni.
Quando titolare del marchio e’ un soggetto privato, quali che
siano le regole previste dal relativo disciplinare (ivi comprese le
regole sull’origine dei prodotti), non sussisterebbero implicazioni
rispetto ai principi comunitari. La situazione sarebbe diversa,
invece, qualora titolare del marchio sia un ente pubblico, come nella
specie.
Invero, per la Corte di giustizia sarebbe incompatibile con il
mercato unico, proprio in base agli artt. 34 e 35 del TFUE, la
presunzione di qualita’ legata alla localizzazione nel territorio
nazionale o regionale di tutto o di parte del processo produttivo, la
quale percio’ stesso limiterebbe o recherebbe svantaggio ad una
produzione le cui fasi si svolgerebbero in tutto o in parte in altri
Stati membri (a tale principio farebbero eccezione unicamente le
regole relative alle denominazioni di origine e alle indicazioni di
provenienza).
Nel caso in esame, non vi sarebbe dubbio che il marchio
«MEA-Marche Eccellenza Artigiana» debba essere considerato un marchio
di qualita’, con la precisa funzione d’indicare anche l’origine del
prodotto (la stessa legge lo definisce «marchio di origine e
qualita’»), facendo cosi’ discendere dall’origine marchigiana
caratteristiche di migliore qualita’, proprio per promuovere la
vendita dei prodotti artigianali della Regione.
Ne’ assumerebbe rilievo il fatto che detto marchio sia attribuito
su base volontaria ai prodotti artigianali realizzati nella Regione
Marche, che rispettino appositi disciplinari di produzione.
Infatti, il carattere volontario del marchio per la Corte di
giustizia sarebbe del tutto irrilevante, perche’ comunque
potenzialmente lesivo per la libera circolazione delle merci (sono
all’uopo richiamate alcune pronunzie della Corte di giustizia
dell’Unione europea: causa C-325/2000, sentenza 5 novembre 2002;
cause riunite da C-321/1994 a C-324/1994, sentenza 7 maggio 1997;
causa C-6/2002, sentenza 6 marzo 2003).
Nella fattispecie, non si potrebbe fondatamente sostenere che il
marchio «MEA» rappresenti una semplice indicazione di «regioni o
luoghi» e, pertanto, rientri nella deroga di cui all’art. 36 TFUE,
relativa alla tutela della proprieta’ industriale e commerciale.
Infatti, la norma regionale in questione non rientrerebbe in tale
ambito, poiche’ l’art. 21 istituirebbe un vero e proprio marchio di
qualita’, «dove l’indicazione dell’origine intende garantire non solo
la provenienza geografica, ma anche che la produzione e’ stata
realizzata secondo requisiti di qualita’ fissati in un atto
predisposto dalla regione medesima». Nelle denominazioni di origine,
marchi di qualita’ regolamentati, la provenienza di un prodotto,
generalmente agro-alimentare, da un determinato territorio, ne
condizionerebbe i caratteri e garantirebbe la presenza di alcune
qualita’ in virtu’ di fattori sia naturali che umani.
In sostanza, presupposto della tutela riconosciuta alla
denominazione di origine sarebbe sempre l’esistenza di un
collegamento dimostrabile tra una determinata caratteristica di un
particolare prodotto e un determinato, delimitato luogo di
produzione.
Pertanto, proprio sulla base di tali premesse, la tutela prevista
dalla Regione non sarebbe giustificata, facendo riferimento, come
zona di origine, a tutto il territorio regionale e, come tipologia,
indistintamente a tutti i prodotti dell’artigianato che rispettino un
determinato disciplinare di produzione.
Infine, per quanto concerne l’Italia, andrebbe ricordato che la
Commissione europea in passato avrebbe contestato l’esistenza di
marchi di qualita’ regionali, avviando procedure d’infrazione
relativamente a marchi della Regione siciliana e della Regione
Abruzzo, procedure poi cancellate dal ruolo soltanto a seguito
dell’abrogazione, da parte delle Regioni stesse, delle disposizioni
censurate.
Alla luce di tali considerazioni, dunque, si dovrebbe ritenere
che il citato art. 21 violi l’art. 117, primo comma, Cost., non
rispettando i vincoli posti dall’ordinamento comunitario.
2.1. – Del pari sarebbe sussistente la violazione dell’art. 120,
primo comma, Cost., sulla base dei rilievi gia’ esposti, con
riferimento alla disciplina comunitaria.
Alla stregua di tali rilievi, l’istituzione del marchio «MEA»
varrebbe ad ostacolare il libero scambio delle merci in seno al
mercato comunitario interno, contravvenendo alle menzionate
disposizioni comunitarie. Ebbene, la predetta istituzione produrrebbe
effetti analoghi all’interno del mercato nazionale, violando il
libero scambio delle merci tra le diverse Regioni, tutelato dall’art.
120 Cost. I consumatori, attratti da un particolare marchio legato a
una specifica Regione (nella specie, la Regione Marche), sarebbero
portati ad escludere i prodotti da esso non contrassegnati,
provenienti da altre Regioni, cosi’ pregiudicando la circolazione
delle merci.
Un sistema di marcatura, ancorche’ facoltativo, nel momento in
cui e’ imputabile ad un ente pubblico, potrebbe avere effetti
restrittivi sulla libera circolazione delle merci, perche’ l’uso del
marchio favorirebbe, o sarebbe idoneo a favorire, lo smercio dei
prodotti in questione rispetto ai prodotti che non potrebbero
fregiarsene.
Il ricorrente, dunque, censura l’art. 21 della legge della
Regione Marche n. 7 del 2011, ritenendo che esso violi il menzionato
art. 120, primo comma, Cost., perche’ ostacolerebbe la libera
circolazione delle merci tra le Regioni.
3. – Quanto al punto sub b), il Presidente del Consiglio dei
ministri ha censurato l’art. 2 della legge della Regione Marche n. 7
del 2011, nella parte in cui inserisce i commi 6 e 7 del novellato
art. 29 della legge regionale n. 4 del 1996, concernente la
disciplina delle attivita’ professionali nei settori del turismo e
del tempo libero. Ad avviso del ricorrente, tali disposizioni
violerebbero l’art. 117, terzo comma, Cost.
Infatti, esse regolerebbero il possesso di specifici requisiti,
dei quali dovrebbero essere in possesso i cittadini non comunitari
che volessero esercitare, saltuariamente o stabilmente, la
professione di maestro di sci nel territorio regionale.
Le citate disposizioni, pero’, si porrebbero in contrasto con
l’art. 117, terzo comma, Cost., perche’ violerebbero il principio
fondamentale che riserva allo Stato non soltanto l’individuazione
delle figure professionali, ma anche la definizione e la disciplina
dei requisiti e dei titoli necessari per l’esercizio delle attivita’
professionali (e’ richiamata, in proposito, la giurisprudenza di
questa Corte).
Del resto, proprio secondo la lettura dell’art. 117 Cost.
effettuata da questa Corte, il riconoscimento di titoli professionali
posseduti da cittadini non appartenenti agli Stati membri sarebbe
disciplinata dalla normativa statale, prevista dall’articolo 49 del
decreto del Presidente della Repubblica 31 agosto 1999, n. 394
(Regolamento recante norme di attuazione del testo unico delle
disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme
sulla condizione dello straniero, a norma dell’articolo 1, comma 6,
del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286), che individua nell’Autorita’
statale vigilante – nella specie, l’Ufficio per lo sport presso la
Presidenza del Consiglio dei ministri – l’organo nazionale all’uopo
competente.
4. – La Regione Marche, in persona del legale rappresentante pro
tempore, si e’ costituita in giudizio con memoria depositata il 9
agosto 2011.
L’ente ha dedotto che, qualche giorno dopo la notificazione del
ricorso introduttivo del presente giudizio, «e’ entrata in vigore la
legge reg. 6 luglio 2011, n. 13, approvata dall’assemblea legislativa
regionale nella seduta n. 48 del 28 giugno 2011 e pubblicata nel
Bollettino ufficiale della Regione Marche n. 59 del 14 luglio 2011,
con la quale – all’art. 7 – il legislatore regionale ha provveduto a
sostituire integralmente l’art. 2 censurato in questa sede,
disponendo una nuova sostituzione del menzionato art. 29 della legge
reg. n. 4 del 1996. In tale attuale versione della disposizione in
esame gli impugnati commi 6 e 7 non compaiono piu’, risultando essi
sostituiti da un nuovo comma 6 che si limita a disporre quanto segue:
"6. Ai cittadini dei paesi terzi che vogliano esercitare la
professione di maestro di sci, si applicano le disposizioni di cui al
D. P. R. 31 agosto 1999, n. 394 (Regolamento recante norme di
attuazione del testo unico delle disposizioni concernenti la
disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello
straniero, a norma dell’articolo 1, comma 6, del decreto legislativo
25 luglio 1998, n. 286)"».
Al riguardo, la Regione, nel rimarcare di essersi prontamente
conformata alle doglianze formulate nel ricorso governativo, segnala
che e’ da escludere ogni ipotesi di applicazione medio tempore della
disciplina regionale oggetto dell’impugnazione in parte qua.
Pertanto, chiede che sul punto sia dichiarata la cessazione della
materia del contendere.
4.1. – Quanto alla questione concernente l’art. 21 della legge
regionale n. 7 del 2011, la Regione Marche, dopo aver trascritto il
testo della norma e riassunto le censure della difesa erariale,
sostiene di essere «ben consapevole della giurisprudenza della Corte
di giustizia dell’Unione europea richiamata nel ricorso introduttivo
in ordine all’interpretazione delle disposizioni attualmente
contenute negli artt. da 34 a 36 del TFUE e agli effetti che ne
discendono in relazione alla valutazione di conformita’ delle
discipline statali o regionali che introducano i cosiddetti "sistemi
di marcatura"dei prodotti di cui siano titolari enti pubblici
anziche’ soggetti privati».
Tuttavia, la Regione prosegue, andrebbe rilevato che proprio
sulla base di quella giurisprudenza non potrebbe affatto considerarsi
vietata, in termini assoluti e incondizionati, l’istituzione di
marchi "di origine" o "di qualita’" ad opera di enti pubblici. Il
divieto sarebbe configurabile soltanto in relazione alla sussistenza
di precise caratteristiche o requisiti concreti del marchio in
questione, tali da determinare un illegittimo ostacolo alla liberta’
di concorrenza e alla libera circolazione dei prodotti all’interno
dell’Unione.
Nel caso in esame, la disciplina regionale di cui all’impugnato
art. 21 rivelerebbe soltanto tre elementi certi: la denominazione
ufficiale del marchio «Marche Eccellenza Artigiana (MEA)»; la sua
istituzione da parte dell’ente Regione; la sua generica riferibilita’
alle lavorazioni dell’artigianato artistico, tradizionale e tipico.
Per il resto, mancherebbe nella disposizione qualunque elemento di
certezza circa la natura, l’ambito soggettivo e oggettivo di
applicazione, nonche’ l’efficacia che tale marchio dovrebbe assumere
in concreto.
In particolare, la normativa impugnata lascerebbe impregiudicate
almeno le seguenti questioni: a) se il marchio de quo sia riferito
all’origine, alla qualita’ o ad entrambi tali profili dei prodotti
cui sia attribuito e, soprattutto, se ed in quali termini la qualita’
sia o meno ricondotta, di per se’, all’origine esclusivamente
"marchigiana" dei prodotti medesimi; b) a quali specifiche
"lavorazioni artigiane" il marchio sia potenzialmente attribuibile e
secondo quali specifici requisiti di produzione; c) se debbano
considerarsi pregiudizialmente esclusi o meno i produttori o gli
operatori economici di altri Stati dell’Unione europea – o di altre
Regioni italiane – che soddisfino i requisiti previsti nei
disciplinari.
In effetti, la definizione in concreto di tali profili resterebbe
affidata, per esplicita previsione della stessa disposizione
impugnata, a futuri atti attuativi di competenza della Giunta
regionale. In particolare, a quest’ultima spetterebbe
l’individuazione, ai sensi del novellato art. 33 della legge
regionale n. 20 del 2003, delle «lavorazioni dell’artigianato
artistico, tradizionale e tipico», cui riferire il marchio in
questione, nonche’, e soprattutto, l’approvazione degli «appositi
disciplinari di produzione» che le imprese dovrebbero impegnarsi a
rispettare e dai quali soltanto sarebbe possibile ricavare la
conformazione definitiva della natura e delle caratteristiche del
marchio medesimo.
Quanto al profilo soggettivo, ad avviso della Regione Marche,
oltre all’ovvia condizione del rispetto del disciplinare di
produzione, la normativa impugnata si limiterebbe a chiedere la
semplice iscrizione ad una apposita sezione dell’albo provinciale
delle imprese artigiane, regolato dall’art. 28 della legge regionale
n. 20 del 2003, i cui requisiti di accesso sarebbero fissati mediante
il semplice rinvio alla disciplina nazionale contenuta nella legge 8
agosto 1985, n. 443 (Legge-quadro per l’artigianato).
In un simile contesto, non sarebbe sostenibile che l’art. 21
della legge regionale n. 7 del 2011 si ponga in contrasto con i
parametri evocati dal ricorrente, se non ritenendo che quest’ultimo
in realta’ abbia voluto "anticipare" censure che, in assenza del
necessario e futuro completamento della disciplina, risulterebbero ad
oggi del tutto prive degli indispensabili requisiti dell’attualita’ e
della concretezza.
Infatti, le considerazioni esposte dimostrerebbero che i
contenuti della detta norma regionale sarebbero "neutri" rispetto
alle doglianze sollevate dalla difesa dello Stato. Soltanto la
emanazione, da parte della Regione, degli atti attuativi di tale
normativa sarebbe in grado di rivelare se il marchio «Marche
Eccellenza Artigiana (MEA)» risulti in concreto conforme o meno ai
vincoli costituzionali e del diritto dell’Unione europea; e, nella
denegata ipotesi di eventuali violazioni, non mancherebbero i rimedi
giurisdizionali per accertarle e sanzionarle nelle sedi adeguate.
Pertanto, la questione di legittimita’ costituzionale promossa
dal Presidente del Consiglio dei ministri in parte qua sarebbe
inammissibile o infondata.
4.2. – In prossimita’ dell’udienza di discussione la difesa dello
Stato ha depositato una memoria illustrativa.
Quanto alla questione concernente l’art. 2 della legge della
Regione Marche n. 7 del 2011, sostitutivo dell’art. 29 della legge
regionale n. 4 del 1996, nella parte relativa ai commi 6 e 7 di detto
articolo, l’Avvocatura generale dello Stato prende atto delle
deduzioni della Regione circa l’avvenuta abrogazione di tali commi e
circa l’affermazione che, nel periodo di vigenza, essi non hanno
trovato applicazione.
Pertanto, ha aderito alla declaratoria di cessazione della
materia del contendere sul punto.
Quanto alla questione relativa all’art. 21 della legge regionale
n. 7 del 2011, la difesa erariale insiste nelle proprie deduzioni e
richieste.

Considerato in diritto

1. – Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e
difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, con ricorso depositato
il 14 luglio 2011 (reg. ric. n. 70 del 2011), ha impugnato: a)
l’articolo 21 della legge della Regione Marche 29 aprile 2011, n. 7
(Attuazione della direttiva 2006/123/CE sui servizi nel mercato
interno e altre disposizioni per l’applicazione di norme dell’Unione
Europea e per la semplificazione dell’azione amministrativa. Legge
comunitaria regionale 2011), norma che ha sostituito l’art. 34 della
legge della Regione Marche 28 ottobre 2003, n. 20 (Testo unico delle
norme in materia industriale, artigiana e dei servizi alla
produzione); b) l’art. 2 della citata legge regionale n. 7 del 2011,
nella parte in cui inserisce i commi 6 e 7 del novellato articolo 29
della legge della stessa Regione Marche 23 gennaio 1996, n. 4
(Disciplina delle attivita’ professionali nei settori del turismo e
del tempo libero).
2. – Quanto alla questione sub a) il citato art. 21, sotto la
rubrica «Sostituzione dell’art. 34 della L. R. n. 20/2003», cosi’
dispone: «1. L’articolo 34 della L. R. n. 20/2003 e’ sostituito dal
seguente: art. 34 Disciplinari di produzione e marchio di origine e
qualita’.
1. Per ognuna delle lavorazioni dell’artigianato artistico,
tradizionale e tipico individuate ai sensi dell’articolo 33, comma 2,
la Giunta regionale approva appositi disciplinari di produzione, che
descrivono e definiscono sia i materiali impiegati sia le
particolarita’ delle tecniche produttive, nonche’ qualunque altro
elemento atto a caratterizzare le lavorazioni considerate.
2. Le deliberazioni di cui al comma 1 sono adottate su proposta
di apposite commissioni, nominate dalla Giunta regionale medesima. Ai
componenti delle commissioni spettano le indennita’ e i rimborsi
spese di cui all’art. 30, comma 3.
3. Le imprese artigiane che svolgono la propria attivita’ secondo
i disciplinari di cui al comma 1 e risultano iscritte alla sezione di
cui all’articolo 28, comma 1, lettera b), hanno diritto di avvalersi
del marchio di origine e di qualita’ denominato "Marche Eccellenza
Artigiana (MEA)".
4. La Giunta regionale, sentita la CRA, definisce la forma e le
caratteristiche tecniche ed estetiche del marchio di origine e
qualita’ di cui al comma 3.
5. La Giunta regionale promuove il marchio d’origine e qualita’
con le modalita’ individuate nelle disposizioni annuali di attuazione
di cui all’articolo 4.
6. La Giunta regionale vigila sull’applicazione dei disciplinari
di cui al comma 1 e sull’uso del marchio di cui al comma 4,
adottando, previa diffida, i necessari provvedimenti per il
ripristino della corretta gestione degli stessi.
7. E’ vietata l’apposizione del marchio su prodotti finiti
acquistati da soggetti terzi».
Secondo la difesa dello Stato, la norma ora trascritta violerebbe
l’art. 117, primo comma, Cost., per inosservanza dei vincoli
derivanti dall’ordinamento dell’Unione europea, in quanto si porrebbe
in netto contrasto con le disposizioni dettate dagli artt. da 34 a 36
del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE) in materia
di libera circolazione delle merci, disposizioni che vietano agli
Stati membri di porre in essere restrizioni quantitative
all’importazione e all’esportazione, nonche’ qualsiasi altra misura
di effetto equivalente. L’istituzione di un marchio di origine e
qualita’ da parte di uno Stato o di una Regione costituirebbe, per
l’appunto, una «misura ad effetto equivalente».
Inoltre, sarebbe violato l’art. 120, primo comma, Cost., perche’
l’istituzione di un marchio con le modalita’ sopra indicate sarebbe
di ostacolo al libero scambio delle merci anche all’interno del
mercato nazionale, in quanto i consumatori sarebbero attratti dal
particolare marchio legato ad una specifica Regione rispetto alle
merci provenienti da altre Regioni.
3. – La questione e’ ammissibile.
Si deve premettere che, come piu’ volte affermato da questa
Corte, l’art. 11 Cost., prevedendo che l’Italia «consente, in
condizioni di parita’ con gli altri Stati, alle limitazioni di
sovranita’ necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la
giustizia tra le Nazioni», ha permesso di riconoscere alle norme
comunitarie efficacia obbligatoria nel nostro ordinamento (ex
plurimis: sentenze n. 102 del 2008; n. 349 e 284 del 2007; n. 170 del
1984). Il testo dell’art. 117, primo comma, Cost., introdotto dalla
legge costituzionale del 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V
della parte seconda della Costituzione) – nel disporre che «La
potesta’ legislativa e’ esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel
rispetto della Costituzione, nonche’ dei vincoli derivanti
dall’ordinamento comunitario (….)» – ha ribadito che tali vincoli
si impongono al legislatore nazionale (statale, regionale e delle
Province autonome).
Da tale quadro normativo costituzionale consegue che, con la
ratifica dei Trattati comunitari, l’Italia e’ entrata a far parte di
un ordinamento giuridico autonomo e coordinato con quello interno, ed
ha trasferito, in base al citato art. 11 Cost., l’esercizio di
poteri, anche normativi, nelle materie oggetto dei Trattati medesimi.
Le norme dell’Unione europea vincolano in vario modo il legislatore
interno, con il solo limite dell’intangibilita’ dei principi
fondamentali dell’ordinamento costituzionale e dei diritti
inviolabili dell’uomo, garantiti dalla Costituzione (ex plurimis:
sentenze n. 102 del 2008; nn. 349, 348 e 284 del 2007; n. 170 del
1984).
Nella fattispecie, che qui interessa, di leggi regionali della
cui compatibilita’ col diritto dell’Unione europea (come interpretato
e applicato dalle istituzioni e dagli organi di detta Unione) si
dubita, va rilevato che l’inserimento dell’ordinamento italiano in
quello comunitario comporta due diverse conseguenze, a seconda che il
giudizio in cui si fa valere tale dubbio penda davanti al giudice
comune ovvero davanti alla Corte costituzionale a seguito di ricorso
proposto in via principale.
Nel primo caso, le norme dell’Unione, se munite di efficacia
diretta, impongono al giudice di disapplicare le norme interne
statali e regionali, ove le ritenga non compatibili. Nel secondo
caso, le medesime norme «rendono concretamente operativo il parametro
costituito dall’art. 117, primo comma, Cost. (come chiarito, in
generale, dalla sentenza n. 348 del 2007), con conseguente
declaratoria d’illegittimita’ costituzionale delle norme regionali
che siano giudicate incompatibili con il diritto comunitario»
(sentenza n. 102 del 2008, citata).
Alla luce di tali principi, le censure mosse all’art. 21 della
legge regionale n. 7 del 2011 devono essere dichiarate ammissibili,
perche’ le norme dell’Unione europea sono state correttamente evocate
dal ricorrente nel presente giudizio per il tramite dell’art. 117,
primo comma, Cost., quale elemento integrante il parametro di
legittimita’ costituzionale.
4. – La questione e’, altresi’, fondata.
Ai sensi dell’art. 34 del TFUE (gia’ art. 28 del TCE), «Sono
vietate tra gli Stati membri le restrizioni quantitative
all’importazione nonche’ qualsiasi misura di effetto equivalente».
Il successivo art. 35 (gia’ articolo 29 del TCE) dispone che
«Sono vietate tra gli Stati membri le restrizioni quantitative
all’esportazione e qualsiasi misura di effetto equivalente».
L’art. 36 del TFUE (gia’ art. 30 del TCE), infine, stabilisce che
«Le disposizioni degli articoli 34 e 35 lasciano impregiudicati i
divieti o restrizioni all’importazione, all’esportazione e al
transito giustificati da motivi di moralita’ pubblica, di ordine
pubblico, di pubblica sicurezza, di tutela della salute e della vita
delle persone e degli animali o di preservazione dei vegetali, di
protezione del patrimonio artistico, storico o archeologico
nazionale, o di tutela della proprieta’ industriale e commerciale.
Tuttavia, tali divieti o restrizioni non devono costituire un mezzo
di discriminazione arbitraria, ne’ una restrizione dissimulata al
commercio tra gli Stati membri».
Dalle suddette disposizioni si evince il rilievo centrale che,
nella disciplina del mercato comune delle merci, ha il divieto di
restrizioni quantitative degli scambi e di misure di effetto
equivalente, concernente sia le importazioni, sia le esportazioni. In
particolare, la giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione
europea ha elaborato una nozione ampia di "misura di effetto
equivalente", nozione riassunta nel principio secondo cui «ogni
normativa commerciale degli Stati membri che possa ostacolare
direttamente o indirettamente, in atto o in potenza, gli scambi
intracomunitari va considerata come una misura di effetto equivalente
a restrizioni quantitative» (Corte di giustizia, sentenza 11 luglio
1974, in causa 8/1974, Dassonville contro Belgio).
Nel quadro di tale principio, la Corte suddetta ha affermato che
la concessione, da parte di uno Stato membro, di un marchio di
qualita’ a prodotti finiti fabbricati in quello Stato, comportava per
esso il venir meno agli obblighi derivanti dall’art. 30 del Trattato
CE, divenuto, in seguito a modifica, art. 28 CE (Corte di giustizia,
sentenza 5 novembre 2002 in causa C-325/2000, Commissione contro
Repubblica Federale di Germania).
Ad avviso della Corte, la disciplina controversa aveva, quanto
meno potenzialmente, effetti restrittivi sulla libera circolazione
delle merci fra Stati membri. Infatti una simile disciplina,
introdotta al fine di promuovere la commercializzazione dei prodotti
agroalimentari realizzati in Germania ed il cui messaggio
pubblicitario sottolineava la provenienza tedesca dei prodotti
interessati, poteva indurre i consumatori ad acquistare i prodotti
recanti il marchio CMA, escludendo i prodotti importati.
A conclusioni analoghe la stessa Corte e’ pervenuta con sentenza
6 marzo 2003 in causa C-6/2002, Commissione delle Comunita’ europee
contro Repubblica Francese, relativa alla protezione giuridica
nazionale concessa ad alcuni marchi regionali.
Orbene, la norma in questa sede censurata introduce un marchio
«di origine e di qualita’», denominato «Marche Eccellenza Artigiana
(MEA)», che, con la chiara indicazione di provenienza territoriale
(«Marche»), mira a promuovere i prodotti artigianali realizzati in
ambito regionale, garantendone per l’appunto l’origine e la qualita’.
Quanto meno la possibilita’ di produrre effetti restrittivi sulla
libera circolazione delle merci tra Stati membri e’, dunque,
innegabile, alla luce della nozione comunitaria di «misura ad effetto
equivalente» elaborata dalla Corte di giustizia e dalla
giurisprudenza dianzi richiamata.
Pertanto, sussiste la denunziata violazione dei vincoli posti
dall’ordinamento dell’Unione europea e, per conseguenza, dell’art.
117, primo comma, Cost.
La Regione Marche, del resto, non contesta i principi sopra
enunciati, dichiarandosi ben consapevole della giurisprudenza della
Corte di giustizia dell’Unione europea e degli effetti che ne
discendono, in relazione alla valutazione di conformita’ delle
discipline statali o regionali dirette ad introdurre i cosiddetti
"sistemi di marcatura" dei prodotti, di cui siano titolari enti
pubblici anziche’ soggetti privati. Tuttavia, l’ente sostiene che,
proprio sulla base di quella giurisprudenza, non si potrebbe
considerare vietata, in termini assoluti e incondizionati,
l’istituzione di marchi di "origine" o di "qualita’" ad opera di enti
pubblici. A suo avviso, il divieto sarebbe configurabile soltanto in
relazione alla sussistenza di precise caratteristiche o requisiti
concreti del marchio in questione, tali da determinare un illegittimo
ostacolo alla liberta’ di concorrenza e alla libera circolazione dei
prodotti all’interno dei confini dell’Unione.
Questa tesi non puo’ essere condivisa.
Ferme le considerazioni dianzi svolte, da aversi qui per
ribadite, si deve osservare che non e’ esatto l’assunto, secondo cui
la normativa impugnata lascerebbe impregiudicata la questione se il
marchio de quo sia riferito all’origine, alla qualita’ o ad entrambi
tali profili dei prodotti cui sia attribuito e, soprattutto, se ed in
quali termini la qualita’ sia ricondotta all’origine esclusivamente
"marchigiana" dei prodotti medesimi.
In realta’, il testuale tenore della norma rende palese che il
marchio in questione e’ riferito sia all’origine sia alla qualita’
(art. 21, commi 3 e 5, della legge regionale), mentre l’origine
"marchigiana" dei prodotti e’ rimarcata con analoga chiarezza dalla
denominazione della Regione inserita nel marchio.
E’ poi irrilevante che nella norma censurata non sia indicato a
quali "lavorazioni artigiane" il marchio sia potenzialmente
attribuito, trattandosi di disposizioni di dettaglio che la norma
stessa demanda alla Giunta regionale.
Infine, quanto al quesito «se debbano considerarsi
pregiudizialmente esclusi o meno i produttori o gli operatori
economici di altri Stati dell’Unione europea – o di altre Regioni
italiane che soddisfino i requisiti previsti nei disciplinari», va
rilevato che si tratta di un profilo ipotetico, peraltro privo di
riscontri nel dettato della norma e comunque inidoneo ad escludere il
carattere potenzialmente lesivo per la libera circolazione delle
merci, sopra evidenziato.
Conclusivamente, alla stregua delle considerazioni che precedono,
deve essere dichiarata l’illegittimita’ costituzionale dell’art. 21
della legge della Regione Marche n. 7 del 2011, che ha sostituito
l’art. 34 della legge della stessa Regione n. 20 del 2003, per
violazione dell’art. 117, primo comma, Cost.
La declaratoria d’illegittimita’ costituzionale comprende
l’intera disposizione, avuto riguardo alla stretta connessione delle
norme che la compongono.
Ogni altro profilo resta assorbito.
5. – Sulla questione di legittimita’ costituzionale dell’art. 2
della legge della Regione Marche n. 7 del 2011, sostitutivo dell’art.
29 della legge regionale n. 4 del 1996, nella parte relativa ai commi
6 e 7, deve essere dichiarata la cessazione della materia del
contendere.
Infatti, la Regione ha dedotto che, pochi giorni dopo la
notificazione del ricorso introduttivo del presente giudizio, e’
entrata in vigore la legge regionale 6 luglio 2011, n. 13 (Modifiche
alle leggi regionali: 1° giugno 1999, n. 17 "Costituzione societa’
regionale di sviluppo"; 2 settembre 1997, n. 60 "Istituzione
dell’agenzia regionale per la protezione ambientale delle Marche
(ARPAM)"; 29 aprile 2011, n. 7 "Legge comunitaria regionale 2011")
con la quale, all’art. 7, il legislatore regionale ha provveduto a
sostituire integralmente il censurato art. 2, operando una nuova
sostituzione dell’art. 29 della legge regionale n. 4 del 1996. Nella
nuova versione della norma gli impugnati commi 6 e 7 non compaiono,
risultando sostituiti da un nuovo comma 6, che si limita a disporre
quanto segue: «6. Ai cittadini dei paesi terzi che vogliano
esercitare la professione di maestro di sci, si applicano le
disposizioni di cui al D.P.R. 31 agosto 1999, n. 394 (Regolamento
recante norme di attuazione del testo unico delle disposizioni
concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione
dello straniero, a norma dell’articolo 1, comma 6, del decreto
legislativo 25 luglio 1998, n. 286)».
La Regione ha anche escluso ogni ipotesi di applicazione medio
tempore della disciplina oggetto dell’impugnazione.
La difesa dello Stato, preso atto di quanto sopra, ha dichiarato
di non opporsi alla declaratoria di cessazione della materia del
contendere. Pertanto, va disposto in conformita’, come da
dispositivo.

Per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE

1) dichiara l’illegittimita’ costituzionale dell’articolo 21
della legge della Regione Marche 29 aprile 2011, n. 7 (Attuazione
della Direttiva 2006/123/CE sui servizi nel mercato interno e altre
disposizioni per l’applicazione di norme dell’Unione Europea e per la
semplificazione dell’azione amministrativa. Legge comunitaria
regionale 2011), articolo che sostituisce l’articolo 34 della legge
della Regione Marche 28 ottobre 2003, n. 20 (Testo unico delle norme
in materia industriale, artigiana e dei servizi alla produzione);
2) dichiara cessata la materia del contendere relativamente alla
questione di legittimita’ costituzionale dell’articolo 2 della legge
della Regione Marche n. 7 del 2011, che ha sostituito l’articolo 29
della legge della Regione Marche 23 gennaio 1996, n. 4 (Disciplina
delle attivita’ professionali nel settore del turismo e del tempo
libero), nella parte in cui ha inserito i commi 6 e 7, questione
sollevata dal Presidente del Consiglio dei ministri in riferimento
all’art. 117, terzo comma, della Costituzione con il ricorso indicato
in epigrafe.
Cosi’ deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 2 aprile 2012.

Il Presidente: Quaranta

Il Redattore: Criscuolo

Il Cancelliere: Melatti

Depositata in Cancelleria il 12 aprile 2012.

Il Direttore della Cancelleria: Melatti

Testo non ufficiale. La sola stampa del dispositivo ufficiale ha carattere legale.

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