Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 07-02-2011, n. 2996

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

La Corte di Appello di Bologna, riformando la sentenza di primo grado, accoglieva la domanda di R.G. avente ad oggetto la condanna S.I. alla restituzione della somma di L. 43.000.000 quale quota residua del prestito, pari a L. 50.000.000, dallo S. ricevuto a titolo di mutuo come da dichiarazione da quest’ultimo sottoscritta di riconoscimento del debito.

La Corte territoriale rilevava, innanzitutto, che l’atto sottoscritto dallo S., intitolato "dichiarazione di riconoscimento del debito", era atto unilaterale di ricognizione del debito. Affermava, poi, la predetta Corte, che l’atto in questione, in quanto atto unilaterale, non poteva contenere una condizione sospensiva e che comunque il tenore letterale delle parole ed il comportamento successivo dello S., il quale aveva già parzialmente adempiuto all’obbligo di restituzione, escludevano che il dichiarante si fosse impegnato alla restituzione della somma solo se e quando avesse ricevuto le provvigioni dalla società.

Avverso tale sentenza S.I. ricorre in cassazione sulla, base di tre censure precisate da memoria.

Resiste con controricorso la parte intimata.

Motivi della decisione

Con il primo motivo del ricorso lo S., deduce violazione dell’art. 1362 e segg., degli artt. 1813 e 1414 c.c. nonchè degli artt. 115 e 116 c.p.c. e omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione. Assume che una corretta interpretazione del chirografo avrebbe dovuto portare la Corte bolognese a riconoscere che la scrittura andava interpretata e qualificata come contratto di mutuo.

Tanto, specifica il ricorrente, in considerazione delle clausole riportate nel testo, della forma dello stesso, della contestualità tra pagamento e riconoscimento del debito, della previsione della sottoscrizione anche da parte del R. e dalla ratifica di fatto da parte del R. segnata dal successivo utilizzo giudiziale dell’atto.

Con la seconda censura il ricorrente denuncia violazione degli artt. 1324, 1353, 1354 c.c., degli artt. 115 e 116 c.p.c. e omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione. Prospetta al riguardo il ricorrente che, erroneamente, la Corte del merito ha ritenuto che un atto unilaterale non possa essere sottoposto a condizione sospensiva.

Con il terzo motivo del ricorso lo S. allega violazione dell’art. 1362 e segg., degli artt. 115 e 116 c.p.c. nonchè omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione. Prospetta il ricorrente che la Corte territoriale non tenendo conto della volontà dei contraenti, della portata complessiva dell’atto e del criterio di buona fede e di quello della conservazione degli atti ha ritenuto erroneamente che il testo della dichiarazione non contenesse una condizione sospensiva.

Le censure, che in quanto strettamente connesse dal punto di vista logico – giuridico, vanno trattate unitariamente, sono infondate.

Occorre premettere che secondo giurisprudenza di questa Corte l’interpretazione del contratto e degli atti di autonomia privata costituisce un’attività riservata al giudice di merito, ed è censurabile in sede di legittimità soltanto per violazione dei criteri legali di ermeneutica contrattuale ovvero per vizi di motivazione, qualora la stessa risulti contraria a logica o incongrua, cioè tale da non consentire il controllo del procedimento logico seguito per giungere alla decisione. Ai fini della censura di violazione dei canoni ermeneutici, non è peraltro sufficiente l’astratto riferimento alle regole legali di interpretazione, ma è necessaria la specificazione dei canoni in concreto violati, con la precisazione del modo e delle considerazioni attraverso i quali il giudice se ne è discostato, nonchè, in ossequio al principio di specificità ed autosufficienza del ricorso, con la trascrizione del testo integrale della regolamentazione pattizia del rapporto o della parte in contestazione, ancorchè la sentenza abbia fatto ad essa riferimento, riproducendone solo in parte il contenuto, qualora ciò non consenta una sicura ricostruzione del diverso significato che ad essa il ricorrente pretenda di attribuire. La denuncia del vizio di motivazione dev’essere invece effettuata mediante la precisa indicazione delle lacune argomentative, ovvero delle illogicità consistenti nell’attribuzione rilevarsi che il ricorrente ancorchè denunci nella rubrica dei motivi, rispetto all’interpretazione della dichiarazione sottoscritta dallo stesso S., il vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione omette del tutto d’indicare le illogicità o le lacune argomentative che inficerebbero il ragionamento dei giudici di appello riguardo all’esegesi dell’atto in questione.

Così delimitato l’ambito d’indagine devoluto a questa Corte rileva il Collegio che quanto all’interpretazione dell’atto, fornita dalla Corte del merito, quale negozio unilaterale di ricognizione del debito e non di contratto di mutuo come sostenuto dal ricorrente, la relativa critica si esaurisce nella mera indicazione dei criteri legali d’interpretazione che sarebbero stati violati e nella conseguente prospettazione di una diversa e più favorevole interpretazione. Del resto, e vale la pena di rimarcarlo, il ricorrente allega che risulta pacifica la dazione del denaro all’atto della sottoscrizione della dichiarazione, ma tale circostanza non emerge dalla sentenza impugnata e il ricorrente omette del tutto d’indicare da quali elementi si dovrebbe dedurre tale pacifico dato.

La stessa allegata "sottoscrizione anche da parte del R. (prevista nella stesura dattilografica sebbene poi non effettivamente eseguita)" è solo asserita ma non supportata, in adempimento del principio di autosufficienza del ricorso, dalla indicazione di elementi di riscontro. Nè tanto meno sono indicati gli estremi che porterebbero in base alla valutazione complessiva dell’atto a ritenere non rispettosa dei canoni legali d’interpretazione l’esegesi fornita dalla Corte di Appello.

Analoghe considerazioni valgono in ordine alla critica sollevata riguardo all’affermazione della Corte di Appello secondo la quale l’atto in questione non può essere interpretato nel senso che lo S. s’impegnava alla restituzione della somma solo e quando gli fossero state corrisposte le provvigioni della società. Infatti al riguardo il ricorrente, benchè richiami i criteri ermeneutici che sarebbero stati violati, non fornisce alcuna precisazione circa le modalità e le argomentazioni attraverso le quali il giudice se ne sarebbe discostato, limitandosi a prospettare, attraverso il predetto richiamo, una diversa interpretazione più favorevole alla sua tesi.

Nè il ricorrente tiene conto, nello sviluppare la sua critica, delle considerazioni svolte al riguardo dalla Corte territoriale la quale fonda la propria interpretazione, oltre che sul dato letterale indicativo della volontà della parte, anche sul comportamento successivo della stessa, consistito nell’aver dopo la sottoscrizione della dichiarazione parzialmente adempiuto all’obbligo di restituzione versando un acconto di L. 7.000.000 a prescindere, quindi, dall’avveramento della prospettata condizione sospensiva – ossia dall’avvenuta corresponsione delle provvigioni-. Risultando, conseguentemente, intangibile l’esegesi fornita dalla Corte di Appello dell’atto in questione anche in punto di non avvenuta apposizione di condizione sospensiva, risulta del tutto ultronea qualsiasi questione circa l’inapponibilità della condizione sospensiva agli atti unilaterali di cui al secondo motivo che, pertanto, va dichiarato assorbito. Il ricorso di conseguenza va respinto.

Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza.

P.Q.M.

LA CORTE rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità liquidate in Euro 20,00 per esborsi, oltre Euro 3.000,00 per onorario ed oltre IVA, CPA e spese generali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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