T.A.R. Puglia Lecce Sez. I, Sent., 13-01-2011, n. 43 Ricorso giurisdizionale; Rapporto di pubblico impiego

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo e motivi della decisione

1. Il ricorrente è dipendente INPS presso la sede di Casarano.

In data 19 aprile 1988 veniva sospeso cautelarmente dal servizio in quanto sottoposto a procedimento penale.

La sospensione ha avuto la durata di cinque anni ed è stata poi revocata di diritto, ai sensi dell’art. 9 della legge n. 19 del 1990, in data 24 aprile 1993.

Con sentenza n. 335 dell’11 dicembre 1995, il Tribunale Penale di Lecce ha assolto il ricorrente perché, in relazione al reato contestato, il fatto non sussisteva, senza peraltro poter procedere in ordine all’altro reato che si riteneva di perseguire (truffa tentata continuata), attesa l’esistenza, in proposito, di un precedente provvedimento giurisdizionale ormai passato in giudicato.

Successivamente, lo stesso richiedeva all’amministrazione di appartenenza la corresponsione delle differenze salariali tra quanto ricevuto nel periodo quinquennale di sospensione e quanto dovuto a titolo di stipendio intero, oltre rivalutazione ed interessi.

L’amministrazione dava riscontro alla predetta diffida solo parzialmente, ossia mediante corresponsione delle sole differenze retributive e senza liquidazione degli interessi e della rivalutazione monetaria.

2. L’interessato interponeva dunque gravame per ottenere le predette somme accessorie.

3. Si costituiva in giudizio l’INPS per chiedere il rigetto del gravame, sostenendo in particolare che: a) non si fosse formato alcun silenzio in ordine alla missiva del 6 luglio 1996, dato che l’amministrazione avrebbe riscontrato tale richiesta mediante corresponsione delle differenze salariali; b) i motivi di ricorso sarebbero solo genericamente formulati; c) sarebbe comunque infondata la pretesa relativa alla corresponsione di interessi e rivalutazione, dato che il ritardo con cui si era proceduto alla rifusione degli stipendi arretrati non era dovuto a fatto dell’amministrazione ma del ricorrente. Si contestava in ogni caso il diritto al cumulo delle due voci (interessi e rivalutazione) in virtù del divieto disposto dall’art. 16, comma 6, della legge n. 412 del 1991 e del decreto ministeriale di attuazione n. 352 del 1998.

4. Con ordinanza n. 1155 del 5 dicembre 1998, questo Tribunale amministrativo accoglieva l’istanza di tutela cautelare in favore del ricorrente.

5. A seguito della predetta decisione l’istituto intimato provvedeva sì a corrispondere interesse e rivalutazione monetaria ma, a giudizio della difesa di parte ricorrente, senza l’applicazione dei criteri stabiliti in tal senso dalla sentenza n. 3 del 1998 dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato. In particolare, interessi e rivalutazione monetaria sarebbero stati calcolati sull’intera somma dovuta a titolo di differenze retributive e non sui singoli ratei di volta in volta maturati alle rispettive scadenze. Il computo in via cumulativa delle due voci veniva inoltre bloccato al 31 dicembre 1994: da quella stessa data venivano dunque corrisposti i soli interessi.

6. Alla pubblica udienza del 1° dicembre 2010 la causa veniva infine trattenuta in decisione.

7. Tutto ciò premesso si affronta, in via preliminare, la questione relativa all’ammissibilità o meno della speciale procedura del silenziorifiuto in materia di pubblico impiego.

7.1. E’ noto al riguardo che tale materia, almeno per le fattispecie, come quella qui esaminata, sorte al 30 giugno 1998 e proposte entro il 15 settembre 2000, rientra(va) nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.

Trattandosi in particolare di controversia avente natura patrimoniale, e dunque concernente diritti soggettivi in senso stretto – dal momento che si invoca la corresponsione di interessi e rivalutazione su stipendi arretrati – trovano applicazione alcuni peculiari principi che si differenziano da quelli valevoli per il normale processo giurisdizionale amministrativo, ossia per la giurisdizione generale di legittimità.

Tra questi, quello per cui il ricorso giurisdizionale non richiede, ai fini della sua ammissibilità, l’impugnazione di un formale provvedimento ovvero l’impugnativa di un silenzio rifiuto sull’istanza tendente ad ottenere la corresponsione degli emolumenti che si assumono dovuti (Consiglio Stato, sez. IV, 30 maggio 2002, n. 2994), atteso che la posizione del singolo di fronte all’amministrazione va qualificata come vero e proprio diritto soggettivo (Consiglio Stato, sez. VI, 10 aprile 2003, n. 1893).

7.2. Sotto questo profilo, la domanda volta ad esperire la procedura del silenziorifiuto (in merito alla mancata risposta dell’INPS sulla richiesta di corresponsione di interessi e rivalutazione su somme arretrate), deve dunque ritenersi inammissibile. Tuttavia, per il principio di economia dei mezzi giuridici e di conversione degli atti processuali in ragione della funzione effettivamente svolta, si ritiene ad ogni buon conto di considerare il resto del gravame alla stregua di una ordinaria azione di accertamento avente ad oggetto la pretesa patrimoniale più volte evidenziata.

8. Va innanzitutto rigettata, in questa direzione, l’eccezione sollevata dall’amministrazione resistente in merito alla genericità dei motivi addotti a sostegno del ricorso.

8.1. A tale riguardo si osserva che, per giurisprudenza costante, l’onere della specificità dei motivi deve considerarsi assolto ove sia possibile desumere dal ricorso la natura e la portata delle doglianze avanzate, ancorché non siano indicati gli articoli di legge o di regolamento di cui si asserisce la violazione.

In base a tale indirizzo, dunque, soltanto quando le censure non indichino altresì i principi violati e le ragioni per le quali l’amministrazione avrebbe dovuto adottare un determinato atto va affermata l’assoluta genericità del motivo così formulato, con conseguente declaratoria di inammissibilità (T.A.R. Lazio Roma, sez. II, 24 aprile 2007, n. 3679).

8.2. Nel caso di specie deve ritenersi che il ricorrente abbia assolto a tale onere, dal momento che principi e criteri relativi all’azione amministrativa sono stati sufficientemente enunciati nel ricorso introduttivo, all’interno del quale si fa riferimento sia a disposizioni normative (seppure non espressamente richiamate), sia ad applicazioni della giurisprudenza che ha avuto modo di pronunziarsi sulle questioni oggetto della presente controversia.

9. Si passa ora a determinare il thema decidendum dell’odierno giudizio. Esso consiste: in primo luogo, nel determinare se ricorrano o meno i presupposti per riconoscere il diritto alla corresponsione di interessi e rivalutazione sulle somme dovute a titolo di stipendi arretrati, relativi ossia alla parte di retribuzione non percepita durante il periodo di sospensione dal servizio (an); in secondo luogo, qualora si riconosca tale diritto, quale sia il criterio di calcolo di tali voci e, in particolare, se sia possibile o meno il loro cumulo (quomodo).

9.1. Sotto il primo profilo si rammenta che dal sistema delineato dal DPR n. 3 del 1957 (Testo Unico degli impiegati civili dello Stato) emerge un obbligo restitutorio integrale (c.d. restituito in integrum), e non soltanto parziale, a carico dell’Amministrazione che abbia sospeso cautelarmente dal servizio un proprio dipendente, già inquisito in sede penale e poi prosciolto definitivamente dagli addebiti con formula piena. Pertanto, il debito dell’Amministrazione nei confronti di quest’ultimo per gli assegni medio tempore non percepiti conserva carattere retributivo, con l’effetto che tale debito risulta comprensivo degli importi corrispondenti a rivalutazione e interessi per le somme pagate in ritardo (Cons. Stato, Sez. IV, sent. 8 ottobre 1987, n. 587). In altre parole, intervenuto il proscioglimento dell’interessato con la formula piena, nella specie "perché il fatto non sussiste", gli effetti ripristinatori derivanti dalle norme del T.U. n. 3 del 1957 devono farsi decorrere dalla data in cui il dipendente avrebbe potuto prendere servizio se non fosse stato sospeso cautelarmente, con la seguente erogazione della rivalutazione e gli interessi legali sulle somme dovute (Cons. Stato, Sez. VI, sent. 10 giugno 1992, n. 476).

Ne deriva, da quanto appena riportato, che tali voci (interessi e rivalutazione) debbono essere considerate non in funzione risarcitoria, bensì alla stregua di elementi della retribuzione in senso stretto, ossia di componenti accessori del credito di lavoro.

Si richiama sul punto la giurisprudenza che si è espressa in tema di effetti della sospensione cautelare (cfr. Cass. Civ., sentt. n. 17763 del 2004 e n. 3209 del 1998), secondo la quale tale istituto non può mai assumere carattere sanzionatorio, essendo destinata a cadere con l’accertamento di merito, che solo può incidere sul rapporto di lavoro.

In caso di esito positivo per il lavoratore, questi avrà diritto di essere sollevato da tutte le conseguenze dannose derivanti dalla sospensione, per cui il rapporto di lavoro riprende il suo corso, a tutti gli effetti, dal momento in cui fu sospeso: dunque, come se la sospensione cautelare (in tutto od in parte) non ci fosse mai stata.

Il meccanismo del t.u. 10 gennaio 1957 n. 3 ha così fissato il principio generale della restituito in integrum, il quale opera per l’appunto con effetti pienamente ripristinatori e, di conseguenza, integralmente retroattivi.

In caso di forzosa astensione dall’attività di servizio – rivelatasi poi basata su elementi infondati, o comunque non del tutto fondati – il pubblico dipendente ha dunque diritto ad una completa ricostruzione, ai fini economici e giuridici, della propria posizione.

In questa direzione, la misura cautelare della sospensione si pone come una vera e propria condizione sospensiva della risoluzione del rapporto e, come tale, opera retroattivamente; con l’ulteriore conseguenza che – in caso di avveramento della condizione – il recesso del datore di lavoro avrà effetto dalla data di applicazione della misura cautelare.

Nel caso opposto, di mancato avveramento della condizione (del quale appunto si discute nel caso di specie), a seguito dell’insussistenza dei presupposti per la risoluzione del rapporto di lavoro, questo dovrà proseguire regolarmente fin dall’inizio della sospensione e la maturazione delle retribuzioni dovrà intendersi, con una fictio iuris, avvenuta di mese in mese, con le normali scadenze contrattuali.

Da questi principi generali, si ricava pertanto il diritto del lavoratore sospeso a percepire, oltre alla retribuzione arretrata, anche la rivalutazione e gli interessi dalle singole scadenze al saldo, applicandosi alla fattispecie la regola di cui all’art. 429 codice di procedura civile.

Per le ragioni anzidette si deve ritenere dunque fondata la richiesta volta ad ottenere interessi e rivalutazione sugli stipendi arretrati.

9.2. Quanto al secondo aspetto, si rammenta che il cumulo di interessi legali e rivalutazione monetaria, originariamente ammesso ai sensi dell’art. 429, comma 3, c.p.c., per i soli crediti di lavoro di natura privatistica, venne poi estesa, pur se poggiando su diverse disposizioni ordinamentali (artt. 1182, 1219 e 1224 c.c., nonché art. 36 Cost.), dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (sent. n. 7 del 1981), anche al settore del pubblico impiego.

Lo stesso Consiglio di Stato (Ad. Plen. n. 3 del 1998) è nuovamente intervenuto in materia per sopire una lunga disputa relativa ai criteri di calcolo delle suddette voci, ossia sulle modalità con cui operare il loro cumulo, affermando che non si deve procedere al calcolo degli interessi sulla somma originariamente dovuta e via via rivalutata, dovendosi piuttosto operare il calcolo delle suddette voci (interessi e rivalutazione), in quanto entrambi accessori del credito, separatamente sull’importo nominale della retribuzione.

Dopo l’estensione del predetto cumulo anche ai crediti di natura previdenziale ed assistenziale (Corte Cost., sent. n. 156 del 1991), è intervenuto il legislatore statale che, prima nel settore previdenziale ed assistenziale (legge n. 421 del 1991) e poi in quello dei crediti di lavoro (legge n. 724 del 1994) ha stabilito il ritorno al divieto di cumulo fra interessi legali e rivalutazione monetaria sia con riferimento al settore privato, sia con riferimento al settore pubblico.

Per ulteriore completezza, si rammenta che la Corte costituzionale, con sentenza n. 459 del 2000, ha poi ristabilito la possibilità di cumulo per il settore privato, pur se limitatamente ai crediti di lavoro.

Per quanto di interesse in questa sede, è agevole in ogni caso osservare che il divieto di cumulo per i crediti di lavoro, valevole anche per il pubblico impiego, di cui all’art. 16, comma 6, della legge n. 724 del 1994, è stato disposto a decorrere dal 1° gennaio 1995, mentre per i crediti sorti entro il 31 dicembre 1994 è rimasto intatto il sistema del cumulo delineato dalla richiamate decisioni del Supremo Consesso Amministrativo.

Ne deriva che, poiché nel caso di specie si tratta di situazioni, rectius di crediti di lavoro, sicuramente maturati prima (17 ottobre 1988 – 27 aprile 1993) della data legislativamente indicata ai fini dell’applicazione del divieto di cumulo (31 dicembre 2004), si deve ritenere di applicare in questo caso la regola del cumulo di interessi e rivalutazione.

E tanto con le seguenti ulteriori precisazione di cui all’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 3 del 1998:

a) come nell’ambito del rapporto assistenziale e di quello previdenziale, anche dal ritardato pagamento di crediti retributivi non scaturisce una singola e complessiva obbligazione, avente ad oggetto una prestazione unitaria da assolvere ratealmente, ma deriva una serie di obbligazioni a cadenza periodica, ciascuna delle quali realizza l’intera prestazione dovuta in quel determinato periodo, per cui ogni rateo della prestazione è soggetto, in caso di inadempimento, al regime previsto dalla legislazione vigente al momento della sua maturazione. Inoltre, la nozione di "maturazione del credito" ai sensi dell’art. 429 cod. proc. civ. coincide con quella di "esigibilità", atteso che non è configurabile ritardo nell’adempimento, quale presupposto per l’attribuzione della rivalutazione e degli interessi, anteriormente alla scadenza dell’obbligazione, con l’ulteriore precisazione che, stante l’autonomia dei singoli ratei della prestazione previdenziale, ciascuno dei quali rappresenta un credito primario, il momento della maturazione si ha con la scadenza di ciascuno di essi. In questa direzione ha dunque errato la PA, in sede di esecuzione dell’ordinanza cautelare di questa sezione, ad applicare le voci accessorie di cui si controverte sulla somma interamente dovuta a titolo di differenze nel periodo considerato, e non sui singoli atei di volta in volta maturati;

b) il criterio del cumulo di interessi e rivalutazione è applicabile anche nel caso in cui gli emolumenti retributivi, maturati entro il 31 dicembre 1994, siano pagati (limitatamente alla sorte capitale) in epoca successiva a tale data. Ciò in quanto il tardivo pagamento non può considerarsi alla stregua di un nuovo fatto generatore di autonomi e distinti crediti retributivi accessori, ma costituisce un adempimento solo parziale della precedente obbligazione, che non esclude la persistenza della mora, già in atto alla data del 31 dicembre 1994. Anche su questo punto ha errato la PA, sempre in fase di esecuzione dell’ordinanza richiamata, nel bloccare il cumulo delle due voci (interessi e rivalutazione) al 31 dicembre 1994.

Alla luce delle precisazioni svolte, nel caso in esame, la domanda di interessi e rivalutazione, e del loro corrispondente cumulo, va interamente accolta, trattandosi di ratei maturati prima del 31 dicembre 1994.

Quanto poi ai criteri di computo da applicare, soccorre anche in questo senso la richiamata decisione dell’Adunanza Plenaria, secondo i cui principi al ricorrente spettano, per tutto il periodo in cui opera il cumulo, interessi e rivalutazione sulla base delle seguenti modalità applicative:

1) gli interessi legali sono dovuti sugli importi nominali dei singoli ratei, dalla data di maturazione di ciascun rateo e fino all’adempimento tardivo, e le somme da liquidare a tale titolo devono essere calcolate sugli importi nominali dei singoli ratei, secondo i vari tassi in vigore alle relative scadenze. Gli interessi non possono, a loro volta, produrre ulteriori interessi;

2) la rivalutazione deve essere calcolata sull’importo nominale dei singoli ratei e va computata con riferimento all’indice di rivalutazione operante al momento della presente decisione. La somma dovuta a tale titolo, stante la sua natura accessoria, non deve essere a sua volta ulteriormente rivalutata. Su tale somma spettano solo gli interessi legali dalla data della costituzione in mora – cioè di regola dalla domanda, che nel caso in esame deve essere individuata in quella con la quale è stata instaurato il presente giudizio – e fino all’effettivo soddisfo.

10. Nei termini di cui si è detto il presente ricorso deve essere pertanto accolto.

Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia Lecce – Sezione Prima

definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie e, per l’effetto, condanna l’amministrazione resistente al pagamento delle somme dovute secondo i criteri ed i limiti indicati in parte motiva.

Liquida le spese del presente giudizio in euro 2.500 (duemilacinquecento), oltre IVA e CPA, da porre a carico della parte soccombente.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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