Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 04-11-2010) 14-01-2011, n. 749 Violenza sessuale

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

La Corte di Appello di Potenza , in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Potenza del 31 ottobre 2007, ha confermato la condanna di S.G., alla pena di anni sei di reclusione, P.A., alla pena di anni cinque di reclusione, Sa.An., alla pena di anni 4 e mesi 2 di reclusione, oltre a pene accessorie e condanna al risarcimento dei danni in favore delle parti civili, per reati di cui all’art 81 cpv. c.p., art. 609-bis c.p., comma 2, n. 1), per aver abusato delle condizioni di inferiorità psichica di Sa.Ro. (affetta da encefalopatia congenita) inducendola ad avere ripetutamente con gli stessi rapporti sessuali completi, In (OMISSIS).

S.G. ha proposto ricorso in cassazione chiedendo l’annullamento della sentenza o in subordine l’annullamento con rinvio con la rinnovazione del dibattimento o in via ancor più gradata, per la riduzione della pena, per i seguenti motivi:

1. Mancata assunzione di una prova decisiva.

I giudici di merito sarebbero stati indotti in errore per la mancata assunzione in dibattimento della persona offesa, Sa.

R., ascoltata unicamente in incidente probatorio, nonostante la richieste della difesa, che avrebbe voluto far verificare la capacità testimoniale della persona offesa, separatamente rispetto alla verifica della capacità di autodeterminazione. La sentenza impugnata risulterebbe lacunosa per quanto concerne il giudizio di attendibilità formulato nei riguardi della deposizione della persona offesa, in quanto non renderebbe esplicita la valutazione effettuata sulla credibilità della stessa, accompagnata dalla doverosa valutazione dei riscontri oggetti vi.

Sarebbero presenti lacune e manifeste illogicità anche in riferimento al rigetto della richiesta di riapertura del dibattimento avanzata dalla difesa ai fini dell’acquisizione di numeroso materiale che, esistente nel fascicolo del P.M., non era stato acquisito al dibattimento, nonchè dell’escussione diretta di alcuni testimoni che sono stati specificamente indicati nel ricorso.

2. Mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione.

La Corte di appello avrebbe erroneamente ritenuto che la parte offesa, da un lato, non avrebbe capacità di autodeterminazione nell’ambito della sfera sessuale, dall’altro, avrebbe una capacità testimoniale perfettamente integra, tanto da rappresentare l’unico elemento di accusa.

P.A. ha presentato ricorso per cassazione chiedendo l’annullamento della sentenza o in subordine l’annullamento con rinvio con la rinnovazione del dibattimento o in via ancor più gradata, la riduzione della pena, per i seguenti motivi;

1. mancata assunzione di una prova decisiva.

La parte offesa è stata escussa nella forma dell’incidente probatorio, senza mai comparire durante l’istruttoria dibattimentale, malgrado le richieste delle difese sul punto, tale audizione sarebbe stata indispensabile alla luce delle contrastanti risultanze peritali sulla sua capacità e sulla sua libera volizione. Inoltre la stessa non sarebbe del tutto priva di autonoma capacità di autorappresentazione e di volizione, come sarebbe potuto emergere dall’istruttoria dibattimentale e da altri documenti non acquisiti a dibattimento. In tal modo sarebbe risultato evidente che il ricorrente aveva consumato rapporti sessuali con la Sa. nella convinzione della loro consensualità. 2. Mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione.

La Corte avrebbe errato nel valutare la prova sotto il profilo della ritenuta incapacità di autodeterminazione sessuale della Sa. e della sua ritenuta capacità testimoniale. La Corte di appello sarebbe incorsa in un’erronea valutazione delle risultanze delle perizie in atti, ritenendo più grave la patologia della parte offesa rispetto alle patologie psichiatriche riscontrate dai periti.

I giudici hanno anche errato nel ritenere che il P., in quanto frequentatore della sua casa perchè all’epoca fidanzato della sorella, fosse consapevole della incapacità della persona offesa.

3. Violazione di legge nella valutazione degli elementi di dosimetria della pena, atteso il tempo trascorso e l’evoluzione della personalità del ricorrente, Sa.An. ha proposto ricorso chiedendo l’annullamento della sentenza, o la rinnovazione parziale del dibattimento, o la riduzione della pena, per i seguenti motivi.

1. Inosservanza od erronea applicazione della legge penale in quanto mancherebbero gli elementi costitutivi del reato di cui all’art. 609- bis c.p.. La sentenza avrebbe dovuto tenere in maggior conto la situazione di degrado della famiglia: i coniugi Sa., entrambi affetti da menomazione psichica, ritardo intellettivo di grado medio, con sei figli, tutti affetti da menomazioni psichiche ad esclusione di Sa.Ma.Ro.. La colpevolezza del Sa. si sarebbe invece stata fondata sulla perizia psichiatrica eseguita a cura del dott. s. che ha stabilito che lo stesso era capace di intendere e di volere al momento dei fatti, pur riconoscendo le condizioni di miseria, promiscuità e ritardo intellettivo dell’intero nucleo familiare, anche per effetto del suo dissolvimento connesso ad adozioni. Nel caso di specie, anche volendo prescindere dalla ritenuta capacità di intendere e di volere, risulterebbero peraltro assenti le condotte di induzione ed abuso, necessarie ad integrare la fattispecie. Il ricorrente ritiene di non avere mai sopraffatto la libertà sessuale della propria sorella R., tanto che la stessa ebbe a descrivere il ricorrente come un bravo fratello ed assunse un atteggiamento protettivo dopo l’arresto. Il fatto che la Sa. abbia riferito di quanto il fratello le diceva ("non lo devi dire a nessuno sennò qua passiamo i guai tutti e due"), non mostrerebbe che il fratello fosse consapevole del disvalore penale della sua condotta e della situazione di minorata difesa della sorella, ma evidenzierebbe la mera preoccupazione che il rapporto sessuale divenisse di pubblico dominio.

2. mancato riconoscimento della sussistenza dell’attenuante di cui all’art. 609-bis c.p., comma 3. Qualora la Corte dovesse ritenere che vi sia stata violenza sessuale il fatto dovrebbe essere valutato come fatto di lieve entità per le concrete modalità della condotta tenuta dal Sa..

3. Gli altri motivi di ricorso (mancata assunzione di una prova decisiva, mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione, erronea valutazione delle risultanze delle perizie in atti, erronea valutazione della conoscibilità della minorazione della parte offesa, violazione di legge nella valutazione degli elementi di dosimetria della pena) riproducono le argomentazioni contenute nel ricorso presentato dai coimputati, quanto alla erronea valutazione della prova sotto il profilo della ritenuta incapacità di autodeterminazione sessuale della Sa. e della ritenuta sua capacità testimoniale.

Motivi della decisione

I motivi di ricorso non sono fondati.

1. Quanto alla doglianza avanzata, con analoghe argomentazioni, da tutti gli imputati circa la mancata audizione nel dibattimento della persona offesa e alla mancata rinnovazione istruttoria in appello di tale prova testimoniale, i giudici hanno ritenuto che il processo di merito avesse assolto alla propria funzione conoscitiva, nel rispetto delle regole processuali e del principio del contraddittorio, dando atto che le dichiarazioni della Sa. erano state assunte nel corso di un rituale incidente probatorio e ritenendo di non potere accogliere le istanze degli appellanti, posto che le stesse non fornivano alcuna individuazione di specifici temi probatori in relazione alla necessità di una nuova audizione della parte offesa.

I giudici di appello hanno poi ritenuto che anche le altre richieste di acquisizione di atti fossero mancanti di qualsivoglia spiegazione in ordine alle specifiche ragioni di rilevanza e pertinenza rispetto ai temi della decisione e non fossero pertanto accoglibili.

Nessuna illogicità quindi si ravvisa nella sentenza impugnata, la quale ha dato conto di quali ragioni conducessero ad un giudizio confermativo delle condanne già pronunciate in primo grado e che ha anche fornito una congrua motivazione sul mancato accoglimento delle censure di appello presentate dagli imputati, posto che, come è ormai stato affermato dalla giurisprudenza, il giudice d’appello ha l’obbligo di motivare espressamente sulla richiesta di rinnovazione del dibattimento solo nel caso di suo accoglimento, quando ritenga invece di respingerla, può anche motivarne il rigetto in maniera implicita, evidenziando la sussistenza di elementi sufficienti ad affermare o negare la responsabilità penale (cfr. Sez. 3, n. 24294 del 25/6/2010, D.S.B., Rv. 247872; si veda anche Sez. 4, n. 47095 dell’I 1/12/2009, Sergio e altri, Rv. 245996).

Risulta infondata anche la censura relativa alla lamentata lacunosità della sentenza in relazione alla valutazione circa la incapacità di autodeterminazione della sfera sessuale da parte della persona offesa ed al giudizio di attendibilità delle sue dichiarazioni, in collegamento con la sua capacità a testimoniare.

Quanto al primo aspetto, questa Corte, nel solco dei principi di diritto da tempo elaborati sul tema, ha recentemente precisato (Sez. 3, n. 44978 del 22/12/2010, imp. C.L.G.) che indurre ad un atto sessuale mediante abuso delle condizioni di inferiorità psichica altro non è che approfittare di tali condizioni e l’abuso si verifica quando esse vengono strumentalizzate per accedere alla sfera intima della sessualità della persona, che a causa della sua vulnerabilità soggettiva connessa all’infermità psichica, viene ad essere utilizzata quale mezzo per soddisfare le voglie sessuali dell’autore del comportamento di induzione: in tal modo non c’è una relazione sessuale tra due persone in grado di autodeterminarsi nell’esplicazione della propria libertà sessuale, ma la fruizione del corpo della persona vulnerabile, perchè affetta ad infermità psichica, la quale viene ridotta a mero "oggetto" dell’atto sessuale dal soggetto prevaricatore. E’, naturalmente, il giudice di merito che deve verificare sia la situazione di inferiorità psichica della vittima, che le modalità con le quali sono stati posti in essere comportamenti di induzione all’atto sessuale, abusando delle predette condizioni, e la sentenza impugnata ha correttamente dato conto in motivazione di questi elementi. Ha indicato il materiale probatorio già esaminato dai giudici di primo grado, dei quali ha condiviso le conclusioni, ponendo in evidenza il punto evidenziato: ossia la incapacità della Sa.Ro. di vivere una sessualità consapevole. I giudici di merito hanno posto a base del loro argomentare la infermità mentale della persona offesa (del resto mai posta in discussione da parte degli stessi imputati), affetta non solo da patologie psichiatriche riscontrate dai periti nominati nel corso del giudizio, ma da un vero e proprio deficit mentale (encefalopatia congenita di carattere ereditario), individuato nel procedimento di volontaria giurisdizione che condusse alla dichiarazione di inabilitazione della stessa. Inoltre hanno anche ritenuto provate le condotte di abuso ed induzione poste in essere dagli imputati, soggetti che non erano entrati in contatto con la giovane in circostanze occasionali e contingenti, tali da impedire la percezione dello stato mentale della stessa nella sua "fragilità caratteriale e volitiva", ma che si trovavano in una relazione interpersonale a seguito della frequentazione con la di lei famiglia.

Di fatti l’anziano S.G. frequentava il nucleo familiare della parte offesa (caratterizzato da genitori con ritardi psichici e cinque dei sei figli anch’essi affetti da ritardo mentale) ed aveva indotto la Sa. (nata del (OMISSIS)) ad avere ripetuti rapporti carnali con lui, presso una baracca non distante dall’abitazione, con la promessa di farle conoscere un giovane a lei interessato, che le era stato mostrato in una foto ritagliata da una rivista (in tale baracca, per l’appunto, l’imputato era stato colto in compagnia della giovane dalle forze dell’ordine, che avevano proceduto al suo arresto). Il P., parimenti, aveva frequentato la casa della persona offesa in quanto all’epoca era il fidanzato della sorella, sfruttando tali circostanze al punto che fu addirittura scoperto durante la consumazione di un rapporto sessuale dalla madre della vittima. Attraverso le relazioni interpersonaii e la possibilità di frequentazione dell’abitazione della persona offesa, gli imputati hanno sfruttato la sua labilità psichica operando una vera e propria sopraffazione sessuale della Sa.. Anche per quello che riguarda Sa.An. è stata ritenuta evidente la strumentalizzazione dell’inferiorità della sorella R., perpetrata agevolato dalla coabitazione nel medesimo nucleo familiare.

In sintesi, alla luce delle risultanze probatorie, la persona offesa è stata valutata dai giudici di merito come soggetto succube nelle relazioni interpersonali di cui è processo, rispetto agli atteggiamenti di sopraffazione e comunque di dominanza fisica e psicologica posti in essere dagli imputati.

Tali valutazioni non si trovano affatto in contrasto logico con la valutazione di attendibilità delle dichiarazioni testimoniali rese dalla persona offesa in incidente probatorio effettuata dai giudici di merito.

In primis, non è corretto ritenere esistente una inconciliabilità ontologica tra stato di deficit psichico e capacità a testimoniare, come sostenuto nei motivi di ricorso, anzi: è principio ormai recepito nel nostro sistema processuale, e valido anche nel codice previgente, che è legittima fonte di prova la testimonianza della persona affetta da infermità mentale, fermo restando l’obbligo per il giudice di verificare, in relazione alla peculiarità del caso concreto, la credibilità del teste in riferimento alle sue condizioni psichiche. Del resto la Corte costituzionale, con le sentenze n. 283 del 1997, n. 114 del 2001, n. 529 del 2002, n. 63 del 2005, ha confortato tale assunto, indicando anche la necessità di rispettare regole di cautela nelle modalità di assunzione di detta prova al fine di garantirne la genuinità. In particolare, con la sentenza n. 63 del 2005, il Giudice delle leggi ha evidenziato (in riferimento alla disposizione dell’art. 398 c.p.p., comma 5-bis) che "rendere testimonianza in un procedimento penale, nel contesto del contraddittorio, su fatti e circostanze legati all’intimità della persona e connessi a ipotesi di violenze subite, è sempre esperienza difficile e psicologicamente pesante: se poi chi è chiamato a deporre è persona particolarmente vulnerabile, più di altre esposta ad influenze e a condizionamenti esterni, e meno in grado di controllare tale tipo di situazioni, può tradursi in un’esperienza fortemente traumatizzante e lesiva della personalità. D’altra parte l’adozione, in questi casi, di speciali modalità protette di assunzione della prova, quanto a luogo, ambiente, tempo, assistenza di persone che conoscano il teste o di esperti, nonchè a modi concreti di procedere all’esame, non solo non contrasta con altre esigenze proprie del processo, ma, al contrario, concorre altresì ad assicurare la genuinità della prova medesima, suscettibile di essere pregiudicata ove si dovesse procedere ad assumere la testimonianza con le modalità ordinarie". Quanto detto conferma la possibilità che il soggetto affetto da infermità psichica sia pienamente capace di testimoniare, salvo attento vaglio della sua attendibilità. Nel caso di specie, la decisione impugnata ha motivato in maniera logica ed adeguata sul punto della attendibilità delle dichiarazioni rese dalla Sa., attendibilità che, peraltro, non era stata oggetto di specifico motivo di gravame avverso la sentenza di primo grado, nella quale era già stato indicato espressamente quale criterio seguito dal tribunale per valutare l’attendibilità della persona offesa, il confronto specifico dei singoli passaggi delle dichiarazioni rese, con le ulteriori prove acquisite. Secondo i giudici di appello, la Sa.Ro., nel corso dell’incidente probatorio, ebbe a rendere analitiche e circostanziate dichiarazioni, riscontrate estrinsecamente e valutate credibili sia per caratteristiche intrinseche, sia per l’assenza di sentimenti di astio e rancore nei confronti degli imputati in riferimento agli specifici accadimenti, la cui scoperta avvenne in maniera del tutto occasionale. La stessa ebbe a descrivere i rapporti sessuali con gli imputati come il frutto di situazioni caratterizzate da una sorta di inevitabilità, segno di una sua sostanziale "succubanza", alla quale corrispose il comportamento di dominanza psicologica e fisica degli imputati. Pertanto il motivo di ricorso deve essere respinto posto che, come è noto, "la valutazione della credibilità della persona offesa dal reato rappresenta una questione di fatto che ha una propria chiave di lettura nel compendio motivazionale fornito dal giudice e che non può essere rivalutata in sede di legittimità, a meno che il giudice non sia incorso in manifeste contraddizioni" (Sez. 3, n. 8382 del 25/2/2008, Finazzo, Rv. 239342), circostanza che, nel caso di specie, deve essere esclusa.

2. Per le ragioni esposte in precedenza risulta anche infondato lo specifico motivo di censura relativo alla erronea valutazione che i giudici di appello avrebbero operato in riferimento alla conoscibilità del deficit mentale del quale era affetta la Sa., da parte del P. e del fratello della persona offesa A..

3. Ugualmente infondata la censura avanzata da Sa.An. per il vizio di motivazione della sentenza quanto all’erronea valutazione delle risultanze delle perizie in atti, in particolare per quanto attiene la perizia psichiatrica che lo ha ritenuto capace di intendere e di volere, in quanto il motivo di ricorso finisce per censurare, in verità, le risultanze stesse della perizia, e quindi il merito, e non già la valutazione della stessa, quale risultante peraltro da un’adeguata motivazione esposta dai giudici di primo e secondo grado.

4. Per quanto attiene al motivo di ricorso presentato da Sa.An. relativo al vizio di legge per il mancato riconoscimento della circostanza attenuante di cui all’art. 609-bis c.p.p., comma 3, il motivo risulta, invero, generico: non basta l’affermazione dell’assenza di violenza nei rapporti sessuali per far considerare sussistente l’attenuante di cui trattasi, posto che i fatti addebitati non attengono a condotte violente. Inoltre la giurisprudenza ritiene che l’attenuante in questione sia applicabile quando, avuto riguardo ai mezzi, alle modalità esecutive ed alle circostanze dell’azione, si possa ritenere che la libertà sessuale della vittima – che è l’interesse tutelato dalla fattispecie – sia stata compressa in maniera lieve (così, per tutte, Sez. 3, n. 40174 del 6/12/2006, Gesmino e altro, Rv. 235576): di fatti la mitigazione della pena corrisponde alla minore lesività del fatto, da rapportare al grado di violazione del bene giuridico della libertà sessuale della vittima (Cfr. Sez. 3, n. 27272 del 14/7/2010, P. Rv. 247931);

un orientamento giurisprudenziale minoritario ritiene che possa essere data considerazione anche ad aspetti desunti dai criteri dell’art. 133 c.p., in particolare, alle condizioni soggettive dell’imputato (cfr. Sez. 3, n. 38112 del 21/11/2006, Magni e altro, Rv. 235030). Nel caso di specie, i giudici di merito hanno escluso la sussistenza della menzionata circostanza attenuante, motivando correttamente in riferimento alla gravità della lesione inferta alla vittima ed aggiungendo anche, ad abundantiam, valutazioni negative sulla personalità degli imputati.

5. Da ultimo, il motivo di ricorso relativo alla presunta violazione di legge nella valutazione degli elementi di dosimetria della pena, risulta assolutamente generico e, comunque, la sentenza è immune da censure sul punto.

I ricorsi devono pertanto essere rigettati ed al rigetto consegue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese del procedimento ex art. 616 c.p.p..

P.Q.M.

Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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