Cass. pen. Sez. IV, Sent., (ud. 25-11-2010) 18-01-2011, n. 1228 Riparazione per ingiusta detenzione

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo e motivi della decisione

La Corte d’Appello di Reggio Calabria rigettava l’istanza di equa riparazione proposta da R.S. per un periodo di ingiusta detenzione dall’11 novembre 1997 al 31 gennaio 1998 in carcere e fino al 5 giugno 1998 in detenzione domiciliare.

La Corte ancorava il proprio convincimento ai seguenti elementi: a) il R.S. era stato arrestato per il reato di spaccio di droga in base alle dichiarazioni di due collaboratori di giustizia, P.C. e P.F. i quali avevano riferito di avere ceduto al R.S. cocaina in (OMISSIS); b) tale accusa era stata ritenuta riscontrata dal GIP sulla base di questi elementi:

1) P.C. aveva identificato il R.S. come proprietario di una Mercedes con la quale svolgeva l’attività di tassista: a dire del pentito il R.S. aveva alloggiato presso l’albergo del pentito stesso ed era poi ripartito con a bordo il fratello (del P.) F.; 2) in data (OMISSIS) il R.S. era stato controllato dai Carabinieri in località (OMISSIS), sede dell’omonimo albergo, alla guida di una Mercedes tg. (OMISSIS): all’atto del controllo, il R.S. si era mostrato reticente in merito alle ragioni della sua presenza sul posto.

Il GIP aveva assolto il R.S. sulla base della ritenuta inutilizzabilità delle dichiarazioni dei pentiti perchè "irritualmente acquisite, mancando la fase di garanzia relativa agli avvisi così come modificati dalla legge sul giusto processo". La Corte distrettuale riteneva sussistente, all’atto dell’emissione dell’ordinanza cautelare, il riscontro all’ipotesi accusatoria, tale da integrare il profilo di colpa grave, unitamente alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia poi ritenute inutilizzabili in sede di cognizione solo per motivi di "forma".

Ricorrono per cassazione, tramite il difensore cassazionista, G. E., R.C., e R.A., prossimi congiunti ed eredi del R.S. frattanto deceduto, deducendo violazione di legge e vizio motivazionale sul rilievo che la Corte distrettuale avrebbe errato nel ritenere utilizzabili, nel giudizio dell’equa riparazione, le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, ritenute inutilizzabili dal giudice della cognizione, e nel dare rilievo – quale elemento cui ancorare il convincimento della sussistenza di una condotta del R.S. connotata dalla colpa grave ostativa al riconoscimento dell’equa riparazione – ad un episodio (controllo del R.S. alla guida di una "Mercedes" ad opera dei Carabinieri) avvenuto molti anni addietro rispetto all’emissione del provvedimento restrittivo a carico del R.S. stesso.

I ricorsi devono essere rigettati per le ragioni di seguito indicate.

Non ignora il Collegio che le Sezioni Unite di questa Corte (Sent. n. 1153/08 del 30 Ottobre 2008 – dep. 13 gennaio 2009 – Racco) hanno enunciato il principio della inutilizzabilità nel giudizio di equa riparazione di intercettazioni dichiarate inutilizzabili nel giudizio di cognizione; inutilizzabilità che – in quanto derivante dalla violazione di norme in vigore al momento dell’esecuzione dell’intercettazione stessa (artt. 267, 268, 271 c.p.p.), con riferimento ad un diritto costituzionalmente garantito (art. 15 Cost.) – deve considerarsi per così dire "genetica" perchè riferibile ad un dato probatorio acquisito in violazione di un divieto stabilito dalla legge in vigore in quel momento, con conseguente impossibilità di porlo a fondamento dell’ordinanza cautelare quale grave indizio di colpevolezza (proprio perchè illegittimamente acquisito), ed impossibilità di qualsiasi forma di "recupero" o "sanatoria" essendo normativamente prevista addirittura la distruzione della documentazione relativa alle intercettazioni illegalmente eseguite salvo che costituisca corpo del reato (art. 271 c.p.p., comma 3).

Ben diversa è la situazione processuale nella concreta fattispecie.

Ed invero, la inutilizzabilità delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia P.C. e P.F. è stata dichiarata dal giudice della cognizione in relazione all’entrata in vigore della L. n. 63 del 2001, successiva all’emissione dell’ordinanza cautelare a carico del R.S.: di tal che, quelle dichiarazioni legittimamente furono poste a base dell’ordinanza cautelare secondo la legge in vigore in quel momento, e ritenute corroborate da taluni specifici episodi valutati dal giudice della riparazione come rivelatori di frequentazione con l’ambiente malavitoso; la inutilizzabilità è derivata, dunque, dalla successiva L. n. 63 del 2001, che prevedeva anche il recupero, ai fini probatori, delle dichiarazioni, acquisite prima della legge stessa e senza (ovviamente) l’osservanza delle formalità poi introdotte da tale legge, mediante il meccanismo processuale della rinnovazione appositamente predisposto e non attuato nel caso in esame sol perchè il giudice della cognizione non vi fece ricorso. Di tal che, legittimamente la Corte d’Appello ha tenuto conto anche di quelle dichiarazioni, posto che, se non le avesse ritenute utilizzabili, avrebbe valorizzato una inutilizzabilità scaturita "ex post" in conseguenza della successiva entrata in vigore di una nuova legge (processuale) – che, è bene ribadirlo, prevedeva espressamente, a differenza dell’esito delle intercettazioni telefoniche eseguite "contra legem", anche una procedura di recupero e sanatoria delle dichiarazioni acquisite sotto l’impero della precedente normativa – pur essendo richiesta al giudice della riparazione una valutazione "ex ante", vale a dire con riferimento alla situazione fattuale, processuale e normativa esistente al momento dell’emissione della ordinanza cautelare (in tal senso ha già avuto modo di esprimersi questa stessa Quarta Sezione, in relazione a fattispecie analoga, con la sentenza n. 47684 del 2008 – dep. 22 dicembre 2008 – P.G. in proc. Miele).

Ma vi è di più. La Corte territoriale non si è limitata a valorizzare le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia P. F. e P.C., bensì anche la accertata frequentazione del R.S. con gli stessi P., all’epoca inseriti e coinvolti in prima persona nel contesto malavitoso, con riferimento a due specifici episodi (cfr. pag. 3 dell’impugnata ordinanza): a) un controllo da parte dei Carabinieri del R.S. alla guida della "Mercedes" nella località in cui P.C. gestiva un albergo: nella circostanza il R.S. si mostrò reticente circa i motivi della sua presenza in zona; b) la diretta osservazione del R.S., in un’altra occasione, alla guida della medesima "Mercedes", in compagnia di P.C..

La Corte di merito ha dunque considerato gravemente colposa siffatta condotta del R.S., da questi posta in essere volontariamente e consapevolmente: condotta che, valutata con il parametro dell’id quod plerumque accidit, secondo le regole di esperienza comunemente accettate, è stata ritenuta tale da creare una situazione di allarme e da rendere legittimo l’intervento dell’autorità giudiziaria.

Secondo i principi elaborati ed affermati nell’ambito della giurisprudenza di questa Suprema Corte, nei procedimenti per la riparazione per l’ingiusta detenzione, in forza della norma di cui all’art. 646 c.p.p., cpv 2, – da ritenersi applicabile per il richiamo contenuto nel terzo comma dell’art. 315 c.p.p. – la cognizione della Corte di Cassazione deve intendersi limitata alla sola legittimità del provvedimento impugnato, ovviamente anche sotto l’aspetto della congruità e logicità della motivazione, e non al merito. E, per quel che concerne la verifica dei presupposti e delle condizioni richieste perchè sussista in concreto il diritto all’equa riparazione – in particolare, l’assenza del dolo o della colpa grave dell’interessato nella produzione dell’evento restrittivo della libertà personale – le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con la sentenza N. 43 del 13/12/1995 – 9/2/1996, hanno enunciato il principio di diritto secondo cui la Corte territoriale deve procedere ad autonoma valutazione delle risultanze processuali rispetto al giudice penale. Ed in epoca ancor più recente, le stesse Sezioni Unite (SU 26.6.2002, De Benedictis, RV 222263) hanno ulteriormente precisato quanto segue: "in tema di riparazione per l’ingiusta detenzione, il giudice di merito, per valutare se chi l’ha patita vi abbia dato o concorso a darvi causa con dolo o colpa grave, deve apprezzare, in modo autonomo e completo, tutti gli elementi probatori disponibili, con particolare riferimento alla sussistenza di condotte che rivelino eclatante o macroscopica negligenza, imprudenza o violazione di leggi o regolamenti, fornendo del convincimento conseguito motivazione, che, se adeguata e congrua, è incensurabile in sede di legittimità (Nell’occasione, la Corte ha affermato che il giudice deve fondare la deliberazione conclusiva su fatti concreti e precisi e non su mere supposizioni, esaminando la condotta tenuta dal richiedente sia prima, sia dopo la perdita della libertà personale, indipendentemente dall’eventuale conoscenza, che quest’ultimo abbia avuto, dell’inizio dell’attività di indagine, al fine di stabilire, con valutazione ex ante, non se tale condotta integri estremi di reato, ma solo se sia stata il presupposto che abbia ingenerato, ancorchè in presenza di errore dell’autorità procedente, la falsa apparenza della sua configurabilità come illecito penale, dando luogo alla detenzione con rapporto di causa ad effetto)". Nella fattispecie in esame, la Corte d’Appello di Reggio Calabria ha motivato il proprio convincimento con le considerazioni sopra sinteticamente ricordate; orbene appare all’evidenza che trattasi di un "iter" motivazionale assolutamente incensurabile in quanto caratterizzato da argomentazioni pienamente rispondenti a criteri di logicità ed adeguatezza, nonchè in sintonia con i principi enunciati da questa Corte in tema di dolo e colpa grave quali condizioni ostative al diritto all’equa riparazione: si ha colpa grave allorquando il soggetto sia venuto meno all’osservanza di un dovere obiettivo di diligenza, con possibilità di prevedere che, non rispettando una regola precauzionale, venendo meno all’osservanza del dovere di diligenza, si sarebbe verificato l’evento "detenzione" (cfr., fra le tante: Sez. 4, n. 3912/96 – cc. 29/11/95 – RV. 204286;

Sez. 4, n. 596/96, RV. 204624); la sinergia, sulla custodia cautelare, del comportamento dell’istante può riguardare "sia il momento genetico che quello del permanere della misura restrittiva" (così, "ex plurimis", Sez. 4, n. 963/92, RV. 191834).

Giova evidenziare, ancora, che le Sezioni Unite di questa Corte, con la sentenza n. 43 del 1995 già sopra ricordata, hanno sottolineato che: a) "deve intendersi dolosa……non solo la condotta volta alla realizzazione di in evento voluto e rappresentato nei suoi termini fattuali, sia esso confliggente o meno con una prescrizione di legge, ma anche la condotta consapevole e volontaria i cui esiti, valutati dal giudice del procedimento riparatorio con il parametro dell’id quod plerumque accidit secondo le regole di esperienza comunemente accettate, siano tali da creare una situazione di allarme sociale e di doveroso intervento dell’autorità giudiziaria a tutela della comunità, ragionevolmente ritenuta in pericolo"; b) "poichè inoltre, anche ai fini che qui interessano, la nozione di colpa è data dall’art. 43 cod. pen., deve ritenersi ostativa al riconoscimento del diritto alla riparazione…….quella condotta che, pur tesa ad altri risultati, ponga in essere, per evidente, macroscopica negligenza, imprudenza, trascuratezza, inosservanza di leggi, regolamenti o norme disciplinari, una situazione tale da costituire una non voluta, ma prevedibile, ragione di intervento dell’autorità giudiziaria che si sostanzi nell’adozione di un provvedimento restrittivo della libertà personale o nella mancata revoca di uno già emesso". Nè rileva che gli episodi valutati dalla Corte territoriale fossero risalenti nel tempo rispetto all’emissione del provvedimento cautelare a carico del R.S..

Al rigetto del gravame segue, per legge, la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

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