Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 14-02-2011, n. 3615 Contratto a termine

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza n. 265/2005 il Giudice del lavoro del Tribunale di Alessandria respingeva il ricorso di S.C. diretto ad ottenere l’accertamento della nullità del termine apposto ai contratti di lavoro a tempo determinato stipulati con le Poste Italiane s.p.a. e il riconoscimento della sussistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, con conseguente riammissione in servizio e corresponsione delle retribuzioni non percepite.

Lo S. proponeva appello avverso la detta sentenza, chiedendone la riforma con l’accoglimento della domanda.

La società si costituiva e resisteva al gravame.

La Corte d’appello di Torino, con sentenza depositata il 16-2-2006, in accoglimento dell’appello, dichiarava la nullità del termine apposto al (primo) contratto decorrente dal 9-6-1999 e conseguentemente l’esistenza fra le parti da tale data di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato e condannava la società a riammettere in servizio l’appellante ed a corrispondergli, a titolo di risarcimento del danno, le retribuzioni maturate dal 2-4-2004 oltre interessi e rivalutazione, il tutto oltre al pagamento delle spese del doppio grado.

Per la cassazione di tale sentenza la società ha proposto ricorso con due motivi.

Lo S. ha resistito con controricorso ed ha proposto ricorso incidentale condizionato con un duplice motivo.

Motivi della decisione

Preliminarmente vanno riuniti i ricorsi avverso la stessa sentenza ex art. 335 c.p.c..

Con il primo motivo la ricorrente principale, denunciando violazione della L. n. 56 del 1987, art. 23 dell’art. 1362 c.c. e segg. e vizio di motivazione, deduce che la sentenza impugnata, violando il principio della "delega in bianco" contenuta nell’art. 23 citato, è "errata a monte, nella misura in cui esige la prova del nesso di collegamento in relazione ad una fattispecie di termine di fonte contrattuale che tale collegamento non ha voluto elevare a requisito di legittimità delle assunzioni".

In sostanza, secondo la ricorrente, la Corte di merito "sostituendosi indebitamente alla volontà delle parti collettive, ha "integrato" la previsione contrattuale in esame introducendovi surrettiziamente una limitazione "causale" che le parti collettive non hanno mai voluto nè previsto", essendo le assunzioni a termine giustificate soltanto dalla sussistenza del processo di ristrutturazione.

Con il secondo motivo la ricorrente, denunciando violazione dell’art. 1372 c.c., comma 1, dell’art. 1362 c.c., comma 2, dell’art. 1427 c.c. e segg., dell’art. 2697 c.c. e dell’art. 115 c.p.c. nonchè vizio di motivazione, lamenta che la Corte d’Appello erroneamente ha disatteso l’eccezione di risoluzione per mutuo consenso, nonostante la prolungata inerzia della resistente (dalla cessazione del primo contratto alla messa in mora del 2-4-2004) che non può che essere interpretata come espressione di un definitivo disinteresse alla prosecuzione del rapporto di lavoro.

Il secondo motivo, che in ordine logico va esaminato per primo, risulta infondato.

In base al principio più volte dettato da questa Corte, che il Collegio intende qui riaffermare, "nel giudizio instaurato ai fini del riconoscimento della sussistenza di un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato, sul presupposto dell’illegittima apposizione al contratto di un termine finale ormai scaduto, affinchè possa configurarsi una risoluzione del rapporto per mutuo consenso, è necessario che sia accertata – sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell’ultimo contratto a termine, nonchè del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali circostanze significative – una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo; la valutazione del significato e della portata del complesso di tali elementi di fatto compete al giudice di merito, le cui conclusioni non sono censurabili in sede di legittimità se non sussistono vizi logici o errori di diritto" (v. Cass. 10-11-2008 n. 26935, Cass. 28-9-2007 n. 20390, Cass. 17-12-2004 n. 23554, Cass. 11/12/2001 n. 15621).

Peraltro, come pure è stato precisato, "grava sul datore di lavoro, che eccepisca la risoluzione per mutuo consenso, l’onere di provare le circostanze dalle quali possa ricavarsi la volontà chiara e certa delle parti di volere porre definitivamente fine ad ogni rapporto di lavoro" (v. Cass. 2-12-2002 n. 17070).

Orbene sul punto la Corte d’Appello, dopo aver premesso che l’inerzia del lavoratore non è di per sè sufficiente ad integrare tale fattispecie risolutoria, che richiede invece un comportamento del contraente quantomeno incompatibile con la volontà di mantenere il vincolo contrattuale, comportamento non ravvisabile nel caso in esame tenuto conto anche che, dopo la cessazione di fatto del rapporto alla data del 30-9-1999, fra lo S. e le Poste intercorsero altri 4 contratti a termine, ciò che evidentemente rende manifesta la volontà del lavoratore di lavorare alle dipendenze della società appellata".

Tale accertamento di fatto, compiuto dalla Corte di merito in aderenza al principio sopra richiamato, risulta altresì congruamente motivato e resiste alle censure della società ricorrente.

Parimenti, poi, non può essere accolto il primo motivo, anche se la motivazione della sentenza merita di essere in parte corretta ai sensi dell’art. 384 c.p.c., u.c., come più volte affermato da questa Corte in casi analoghi di ricorsi avverso sentenze dello stesso tenore (v. fra le altre Cass. 24-3-2009 n. 7042, Cass. 22-1-2009 n. 1626, Cass. 7-1-2009 n. 1626 Cass. 12-11-2008 n. 27030, Cass. 19/11/2008 n. 27470).

In base all’indirizzo ormai consolidato in materia dettalo da questa Corte (con riferimento al sistema vigente anteriormente al D.Lgs. n. 368 del 2001), sulla scia di Cass. S.U. 2-3-2006 n. 4588, è stato precisato che l’attribuzione alla contrattazione collettiva, L. n. 56 del 1987, ex art. 23 del potere di definire nuovi casi di assunzione a termine rispetto a quelli previsti dalla L. n. 230 del 1962, discende dall’intento del legislatore di considerare l’esame congiunto delle parti sociali sulle necessità del mercato del lavoro idonea garanzia per i lavoratori ed efficace salvaguardia per i loro diritti (con l’unico limite della predeterminazione della percentuale di lavoratori da assumere a termine rispetto a quelli impiegati a tempo indeterminato) e prescinde, pertanto, dalla necessità di individuare ipotesi specifiche di collegamento fra contratti ed esigenze aziendali o di riferirsi a condizioni oggettive di lavoro o soggettive dei lavoratori ovvero di fissare contrattualmente limiti temporali all’autorizzazione data al datore di lavoro di procedere ad assunzioni a tempo determinato" (v. Cass. 4-8-2008 n. 21063. V. anche Cass. 20-4-2006 n. 9245, Cass. 7-3-2005 n. 4862, Cass. 26-7-2004 n. 14011). "Ne risulta, quindi, una sorta di "delega in bianco" a favore dei contratti collettivi e dei sindacati che ne sono destinatari, non essendo questi vincolati alla individuazione di ipotesi comunque omologhe a quelle previste dalla legge, ma dovendo operare sul medesimo piano della disciplina generale in materia ed inserendosi ne sistema da questa delineato." (v., fra le altre, Cass. 4-8-2008 n. 21062, Cass. 23-8-2006 n. 18378).

In tale quadro, ove però un limite temporale sia stato previsto dalle parti collettive, la sua inosservanza determina la nullità della clausola di apposizione del termine (v. fra le altre Cass. 23/8/2006 n. 18383, Cass. 14-4-2005 n. 7745, Cass. 14-2-2004 n. 2866).

In particolare, quindi, come questa Corte ha più volte affermato, "in materia di assunzioni a termine di dipendenti postali, con raccordo sindacale del 25 settembre 1997, integrativo dell’art. 8 del c.c.n.l. 26 novembre 1994, e con il successivo accordo attuativo, sottoscritto in data 16 gennaio 1998, le parti hanno convenuto di riconoscere la sussistenza della situazione straordinaria, relativa alla trasformazione giuridica dell’ente ed alla conseguente ristrutturazione aziendale e rimodulazione degli assetti occupazionali in corso di attuazione, fino alla data del 30 aprile 1998; ne consegue che deve escludersi la legittimità delle assunzioni a termine cadute dopo il 30 aprile 1998. per carenza del presupposto normativo derogatorio, con la ulteriore conseguenza della trasformazione degli stessi contratti a tempo indeterminato, in forza della L. 18 aprile 1962, n. 230, art. 1" (v., fra le altre, Cass. 1/10/2007 n. 20608, Cass. 27-3-2008 n. 7979. Cass. 18378/2006 cit).

In base al detto orientamento, ormai consolidato, deve quindi ritenersi illegittimo il termine apposto al contratto in esame per il solo fatto che lo stesso è stato stipulato dopo il 30 aprile 1998 ed è pertanto privo di presupposto normativo (tale considerazione, del resto, pur richiamata nella sentenza impugnata, è stata considerata assorbita dalla Corte di Torino in ragione della ritenuta necessità della prova del collegamento concreto della assunzione de qua con la ristrutturazione in atto).

In tali sensi, quindi, va respinto il ricorso principale, in parte correggendosi, come sopra, la motivazione dell’impugnata sentenza, restando assorbito il ricorso incidentale condizionato, non essendo stata, peraltro, avanzata alcuna altra censura, che riguardi in qualche modo le conseguenze economiche della dichiarazione di nullità della clausola appositiva del termine ed il capo relativo al risarcimento del danno.

Al riguardo osserva il Collegio che in sede di discussione la società ricorrente ha invocato, in via subordinata, l’applicazione dello ius superveniens, rappresentato dalla L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, commi 5, 6 e 7 in vigore dal 24 novembre 2010.

Orbene, a prescindere da ogni altra considerazione, va premesso, in via di principio, che costituisce condizione necessaria per poter applicare nel giudizio di legittimità lo ius superveniens che abbia introdotto, con efficacia retroattiva, una nuova disciplina del rapporto controverso, il fatto che quest’ultima sia in qualche modo pertinente rispetto alle questioni oggetto di censura nel ricorso, in ragione della natura del controllo di legittimità, il cui perimetro è limitato dagli specifici motivi di ricorso (cfr. Cass. 8 maggio 2006 n. 10547. Cass. 27-2-2004 n. 4070).

Tale condizione non sussiste nella fattispecie.

Infine la società, in ragione della soccombenza, va condannata al pagamento delle spese in favore dello S..

P.Q.M.

LA CORTE riunisce i ricorsi, rigetta il ricorso principale, assorbito l’incidentale; condanna la società a pagare allo S. le spese, liquidate in euro 30,00 oltre Euro 2.500,00 per onorari, oltre spese generali IVA e CPA. Così deciso in Roma, il 20 gennaio 2011.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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