Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 03-11-2010) 21-01-2011, n. 2173

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

La Corte di appello di Palermo con sentenza del 24.11.2009 confermava la sentenza del Tribunale di Trapani del 23.11.2005 di condanna del C.F. alla pena di anni due e mesi tre di reclusione, di anni due e mesi nove di reclusione del C.L., di anni tre di reclusione del C.N. con ordine della confisca delle quote sociali della "Sudscavi srl" nonchè dei beni di cui ai nn. 4, 5, 6, 7, 8, 9, e 10 del provvedimento di sequestro emesso dal GIP di Palermo in data 15.4.2004 nonchè dei beni in sequestro intestati a C.N. e concessi in locazione alla predetta società "Sudscavi srl" con contratto del 21.1.2003.

Gli imputati oggi ricorrenti risultano condannati per il reato di cui alla L. n. 356 del 1992, art. 12 quinquies per avere il C. N. titolare della omonima ditta individuale, in concorso con il fratello C.L. quale prestanome e con il padre C. F. che trasmetteva all’esterno del carcere ove il N. era detenuto le istruzioni da questi impartite, attribuito fittiziamente la titolarità delle quote di partecipazione alla società " Sud scavi srl" intestandole a S.M. e G. V. giudicati separatamente e la proprietà di alcuni beni aziendali della ditta C.N. (4 autocarri) alla predetta srl, al fine di eludere le leggi in materia di prevenzione patrimoniale. Venivano disposti anche i provvedimenti di sequestro prima ricordati.

La Corte territoriale rilevava che non poteva accedersi alla tesi difensiva del C.L. secondo la quale la nuova società sarebbe stata da lui costituita solo per continuare a lavorare dopo l’arresto del fratello N. e per aiutare questi a pagare i debiti accumulati come, comprovato dal fatto che i mezzi acquistati per iniziare l’attività non provenivano dal C.N..

Ciò doveva essere escluso innanzitutto alla luce delle conversazioni captate tra il N. ed il padre L. in cui il primo invitava a formare una nuova società dando sul punto anche indicazioni precise, altrimenti i suoi beni sarebbero caduti sotto sequestro. La nuova ditta venne costituita immediatamente dopo tali conversazioni, risulta operante nel medesimo settore ed ha la sue sede a pochi metri da quella precedente. I soci sono oltre al C.L. il S. e il G. ex dipendenti del C.N. che hanno patteggiato la pena dopo aver ammesso di non aver pagato alcuna somma e di aver continuato a lavorare come dipendenti. Ulteriori successive intercettazioni comprovano il reale contenuto dell’operazione; il C.N. incarica il 9.1.2003 la moglie A.G. di dire al fratello L. che deve lasciare la carica di amministratore restando solo dipendente; la moglie riferisce poi che era stata data esecuzione alle disposizioni;

seguono ulteriori conversazioni nelle quali il N. manifesta la sua crescente preoccupazione per il possibile sequestro dei beni. Era emersa poi la sostanziale fittizietà delle ricevute per l’acquisto di tre automezzi di proprietà del N. come comprovato dall’amministatore giudiziario dott. Sc.; peraltro dopo tale preteso acquisto non era stato modificato l’importo per l’affitto dei residui automezzi. Per la Corte il fatto che il L. abbia investito nell’operazione anche altri beni non comprova la genuinità dell’operazione che aveva solo lo scopo di sottrarre ad eventuali provvedimenti di sequestro i beni del fratello detenuto.

Vi era una pacifica continuità materiale ed operativa delle due iniziative imprenditoriali che erano mutate solo nominalisticamente.

La Corte richiamava le dichiarazioni rese dal dott. Sc. amministratore dei beni in sequestro e dal suo coadiutore A. S. alla luce delle quali non si poteva ritenere credibile la tesi difensiva secondo cui il prezzo per l’acquisto dei mezzi della ditta del N. non sarebbe stata in concreto versata per compensare precedenti crediti del L. nei confronti del fratello, visto anche la sproporzione tra debito e credito.

Nel ricorso nel primo motivo si deduce la violazione di legge nonchè la carenza e manifesta illogicità della motivazione della sentenza impugnata in ordine alla sussistenza degli elementi integranti la fattispecie di cui è processo.

Nel ricorso si ricostruiscono i dubbi di costituzionalità sollevati sin dall’approvazione della normativa in questione che poi erano stati riscontrati nell’avvenuta dichiarazione di incostituzionalità della fattispecie incriminatrice di cui al secondo comma dell’art. 12 quinquies. Nel ricorso si rammenta l’orientamento formatosi nel tempo nella giurisprudenza di legittimità per evitare il deficit di tassatività della norma. Ciò posto si rileva che gli elementi emersi non integrano in alcun modo la sussistenza del reato, così come interpretato dalla Suprema Corte. Infatti in primo luogo non erano emersi episodi di sorta di riciclaggio o di illecita formazione dei beni del C.L.. In alcun modo viene dimostrato o addirittura dedotto che il denaro usato dal C.L. non fosse suo. Mentre si era dimostrato documentalmente la provvista di fondi attraverso la vendita dei cosiddetti catastini, ci si era limitati alle generiche e non riscontrate affermazioni del custode giudiziario Sc.. Erano stati invece documentati i passaggi di denaro dal C.L. all’azienda del fratello. Mentre emergeva che il C.N. aveva insistito per l’acquisto di tutti i suoi beni, il fratello aveva acquistato solo beni di modesto valere e comunque in numero limitato. Era stata disposta la riapertura del dibattimento per sentire gli amministratori giudiziari, il che mostrava come i giudici non potessero decidere allo stato degli atti, ma poi era stata denegata la chiesta perizia rivolta a chiarire definitivamente e senza dubbi gli scambi tra le due società. Era stato denegato l’accesso agli atti di causa anche di un atto giudiziario in cui un appartenente ad un clan mafioso aveva dichiarato che il L. come soggetto che si era ribellato alle pretese di associazioni con fine illecito. Dalle intercettazioni risultava che il N. aveva intimato al fratello di acquisire tutti i suoi beni, ma invece emergeva nei fatti la resistenza del L. ad eseguire i desiderata del fratello; i beni concretamente acquistati erano stati pochissimi, i più essendo rimasti nella società del N. e presi solo in affitto. Non vi era stata pertanto alcuna commistione tra i patrimoni delle due ditte. In appello era emerso che non vi era stata alcuna trascrizione dell’acquisto del bene più prezioso della ditta del N..

L’imputato C.L. si era rivolto alla polizia per chiedere protezione; anche se le ditte operavano nello stesso settore questo non voleva dire aver trasferito fittiziamente valori da quella del N. alla seconda del L., posto che era emerso che nella nuova azienda il L. aveva investito Euro 80.000 frutto della vendita dei cosiddetti catastini. Non si era proceduto all’acquisto di mezzi solo dalla ditta individuale C.N. ma anche da altri soggetti; la maggior parte dei beni di questi era rimasta nella disponibilità di quest’ultimo. La confisca peraltro non avrebbe potuto essere estesa agli acquisti operati da terzi con denaro del L. di provenienza lecita e documentata. Non poteva essere utilizzata la sentenza di patteggiamento del S. e del G. posto che gli stessi nulla avevano dichiarato in dibattimento e stante la nota inidoneità delle sentenze di tal genere a fungere da piena prova o da elemento di affidabile convincimento in altro procedimento, con grave violazione del principio del giusto processo e dell’art. 111 Cost..

Motivi della decisione

Il ricorso non appare fondato e pertanto non può essere accolto.

Va premesso che l’atto di impugnazione, pur proposto nell’interesse dei tre imputati C., è ritagliato sulla sola posizione del C.L. in quanto si tende nel complesso a dimostrare la genuinità dell’attività commerciale intrapresa dopo l’arresto del fratello N., con esclusione quindi in radice che tale attività fosse diretta alla sottrazione dei beni della ditta del N. a misure di prevenzione patrimoniale.

Ora va ricordato con riferimento al vizio di motivazione che le S.U. della Corte (S.U. 24.9.03, Petrella) hanno confermato che l’illogicità della motivazione censurabile a norma dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. E) è quella evidente, cioè di spessore tale da risultare percepibile "ictu oculi", in quanto l’indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di Cassazione limitarsi, per espressa volontà del legislatore, a riscontrare l’esistenza di un logico apparato argomentativo, senza possibilità di verifica della rispondenza della motivazione alle acquisizioni processuali. In conclusione il compito del giudice di legittimità è quello di stabilire se il giudice di merito abbia nell’esame degli elementi a sua disposizione fornito una loro corretta interpretazione, ed abbia reso esaustiva e convincente risposta alle deduzioni delle parti applicando esattamente le regole della logica per giustificare la scelta di determinate conclusioni a preferenza di altre (Cass. 6^ 6 giugno 2002, Ragusa). Esula infatti dai poteri della Corte di Cassazione quello di una diversa lettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è riservata in via esclusiva al giudice di merito senza che possa integrare vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa valutazione delle risultanze processuali ritenute dal ricorrente più adeguate (Cass. S.U. 2.7.97 n. 6402, ud. 30.4.97, rv.

207944, Dessimone). Ora la motivazione della Corte territoriale appare congrua e immune da vizi logici. Ha già ampiamente valutato, come detto, che non poteva accedersi alla tesi difensiva del C. L. secondo la quale la nuova società sarebbe stata da lui costituita solo per continuare a lavorare dopo l’arresto del fratello N. e per aiutare questi a pagare i debiti accumulati come comprovato dal fatto che i mezzi acquistati per iniziare l’attività non provenivano dal C.N.. Ciò doveva essere escluso innanzitutto alla luce delle conversazioni captate tra il N. ed il padre L. in cui il primo invitava a formare una nuova società dando sul punto anche indicazioni precise altrimenti i suoi beni sarebbero caduti sotto sequestro. La nuova ditta venne costituita immediatamente dopo tali conversazioni, risulta operante nel medesimo settore ed ha la sue sede a pochi metri da quella precedente. I suoi soci sono, oltre al L., il S. e il G. ex dipendenti del C.N. che hanno patteggiato la pena dopo aver ammesso di non aver pagato alcuna somma e di aver continuato a lavorare come dipendenti (il che costituisce un fatto obiettivo e storico indipendentemente dal valore probatorio della sentenza di patteggiamento). Ulteriori successive intercettazioni testimoniano del reale contenuto dell’operazione; il C. N. incarica il 9.1.2003 la moglie A.G. di dire al fratello L. che deve lasciare la carica di amministratore restando solo dipendente; la moglie riferisce poi che era stata data esecuzione alle disposizioni; seguono ulteriori conversazioni nelle quali il N. manifesta la sua crescente preoccupazione per il possibile sequestro dei beni. Era emersa poi la sostanziale fittizietà delle ricevute per l’acquisto di tre automezzi di proprietà del N. come comprovato dall’amministatore giudiziario dott. Sc.; peraltro dopo tale preteso acquisto non era stato modificato l’importo per l’affitto dei residui automezzi.

Per la Corte il fatto che il L. abbia investito nell’operazione anche altri beni non comprova la genuinità dell’operazione che aveva solo lo scopo di sottrarre ad eventuali provvedimenti di sequestro i beni del fratello detenuto, visto che la ratio dell’intera operazione è fuori discussione e la grande sproporzione tra i beni acquistati e quelli investiti e documentati dal C.L..

Vi era una pacifica continuità materiale ed operativa delle due iniziative imprenditoriali che erano mutate solo nominalisticamente.

La Corte richiamava le dichiarazioni rese dal dott. Sc. amministratore dei beni in sequestro e dal suo coadiutore A. S. alla luce delle quali non si poteva ritenere credibile la tesi difensiva secondo cui il prezzo per l’acquisto dei mezzi della ditta del N. non sarebbe stata in concreto versata per compensare precedenti crediti del L. nei confronti del fratello.

Dal riassunto sommario degli elementi sui quali è fondata la conferma della sentenza emerge chiaramente che gli stessi portano ad escludere l’autenticità ed autonomia dell’operazione commerciale intrapresa dal C.L. (che risulta essere una prosecuzione della precedente del fratello) e mostrano univocamente la vera finalità della stessa, chiaramente ricavabile dalle indicazioni molto precise del N. dopo il suo arresto. Le dichiarazioni testimoniali dello Sc. e del suo assistente e gli altri elementi prima ricordati costituiscono un riscontro oggettivo ed indubitabile al fatto che gli investimenti nella nuova società furono del tutto insufficienti e che la stessa si avvalse di mezzi provenienti da quella del N., sottraendoli così ad eventuali misure di prevenzione. La mancata esecuzione di una perizia sul punto è stata ragionevolmente e logicamente spiegata in relazione alla mancanza di elementi di dubbio dopo l’ampia e dettagliata escussione dei due testi, alle cui dichiarazioni peraltro non si muovono nemmeno nel ricorso censure circostanziate e puntuali.

La disposta confisca è stata nel provvedimento impugnato giustificata sia in relazione all’art. 240 c.p., comma 1, trattandosi di beni che servirono a commettere il reato, sia ai sensi della L. n. 356 del 1992, art. 12 sexies emergendo la sproporzione con i redditi dichiarati o le entrate accertate. La ditta del C.N. aveva redditi insufficienti anche per sostenere l’imputato e la sua famiglia e quindi inidonee per l’acquisto dei numerosi beni strumentali. Inoltre sono state confiscate le quote sociali della nuova società formalmente intestate a S.M. e G. V. che hanno loro stessi ammesso di essere dei semplici prestanome in quanto dipendenti del C.N.. Anche su tale punto la motivazione appare coerente ed immune da vizi di ordine logico ed argomentativo posto che l’intera nuova società appare nata al fine di sottrarre beni della ditta del C.N. alle possibili (e molto probabili) misure di prevenzione.

Per contro le censure mosse in ricorso sono di merito e ripropongono questioni già ampiamente esaminate dai giudici di merito che hanno escluso, come detto, che il C.L. abbia trasgredito alle indicazioni del fratello in quanto è emerso che, al contrario, sia stata data ad esse una sostanziale esecuzione, non solo per quanto riguarda la formazione della nuova società, ma anche riguardo alla sua compagine sociale ed all’acquisto di beni senza una effettiva corresponsione delle relative somme. Non si vede peraltro come le dichiarazioni di un collaboratore di giustizia sulla personalità del C.L. possano illuminare il caso; posto che nel presente procedimento emerge che il C.L. ha aiutato il proprio fratello N. (non un’associazione mafioso in sè) a salvare il patrimonio della società omonima, messo a repentaglio dalle sue disavventure giudiziarie, (l’aggravante di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 7 giova ricordare è stata elusa).

Ai sensi dell’art. 616 c.p.p., con il provvedimento che dichiara inammissibile il ricorso, gli imputati che lo hanno proposto devono essere condannati al pagamento delle spese del procedimento, nonchè ciascuno – ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità – al pagamento a favore della Cassa delle ammende della somma di Euro mille, così equitativamente fissata in ragione dei motivi dedotti.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e ciascuno al versamento di Euro mille alla Cassa delle ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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