Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 16-02-2011, n. 3821 Controversie di lavoro; Lavoro subordinato

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza resa il 31.10.2005 dal Tribunale di Firenze, era stata respinta la domanda proposta da V.G., intesa ad ottenere l’accertamento del carattere discriminatorio del licenziamento intimatogli il 14.5.2004 dalla società Helitalia p.a. e la declaratoria di nullità dello stesso, con ogni provvedimento consequenziale.

Su appello del V., la Corte di Appello di Firenze, con sentenza depositata il 16.1.2007. dichiarato inammissibile per mancata prova della notifica il gravame incidentale della società, confermava la sentenza di primo grado.

Osservava la Corte che l’impugnazione aveva ad oggetto la dichiarazione di nullità del licenziamento per motivi discriminatori ed era diversa, quanto al petitum, dalla domanda oggetto del lodo arbitrale nel quale si era discusso della giustificatezza del provvedimento espulsivo.

Escludeva la pretesa discriminatorietà dell’atto espulsivo, asseritamente ricondotta a ragioni di appartenenza del V. ad una associazione religiosa, sul rilievo che la contestazione disciplinare concerneva un comportamento non legato all’appartenenza alla medesima, ma soltanto l’autorizzazione ad entrare in azienda e ad operare una prova attitudinale per il personale non fondata su criteri scientifici. Rilevava che ogni diversa questione, attinente alla idoneità di quanto accertato a giustificare la risoluzione del rapporto, era affidata a lodo arbitrale ed alla sua eventuale impugnazione e che, poichè il comportamento del dipendente si configurava negligente ai fini di causa sotto i profili considerati, doveva escludersi ogni intento discriminatorio.

Avverso detta pronunzia propone ricorso per cassazione il V., affidato a due motivi di impugnazione.

Resiste con controricorso la Helitalia spa, che conclude per il rigetto de ricorso.

Entrambe le parti hanno depositato memorie ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione

Con il primo motivo il V. deduce la violazione dell’art. 115 c.p.c., comma 2 (art. 360 c.p.c., n 3 o n. 4), contestando l’indebita estensione della nozione di "fatto notorio" quale accolta – secondo la costante giurisprudenza della S.C. – dall’art. 112 c.p.c., sul rilievo che costituisce affermazione non coerente con i principi affermati dalla giurisprudenza in tema di fatto notorio quella che pretende di accreditare alla collettività di persone di media cultura conoscenze di qualità negative di persone fisiche o di associazioni private. Pone al riguardo quesito di diritto ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c..

Lamenta, con il secondo motivo, violazione del D.Lgs. n. 216 del 2003, artt. 2 e 4 anche in relazione al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 43, commi 1 e 2 nonchè dell’art. 15 dello Statuto dei lavoratori e della L. n. 108 del 1990, art. 43, commi 1 e 2, art. 3 (art. 360 c.p.c., n. 3).

Osserva che i passaggi argomentativi della pronunzia della corte territoriale sono tali da omettere l’applicazione della norma posta dalla D.Lgs. n. 216 del 2003, art. 4, comma 4 e del richiamato art. 2729 c.c., violano la nozione legale di discriminazione, che è oggettiva e non necessariamente ed esclusivamente dipendente dall’effettiva volontà discriminatoria datoriale; che non rilevano la natura discriminatoria dell’ordine di servizio, presupposto dalla contestazione e ritenuto disatteso, per la dedotta culpa in vigilando, di non trattare con una società di consulenza perchè legata ad un’associazione con scopi religiosi e non scientifici.

Rileva, poi, che era stato dedotto in giudizio che i primi e più significativi addebiti e parte del quinto che la datrice di lavoro aveva mosso al dirigente erano pretestuosi e rappresentavano elementi dedotti in causa gravi, precisi e concordanti, che il giudice avrebbe dovuto valutare ai sensi dell’art. 2729 c.c.. In particolare, censura la decisione laddove ha fatto applicazione di una nozione strettamente soggettiva di discriminazione, fondata sull’accertamento di una effettiva volontà discriminatoria del soggetto agente, disattendo una delle acquisizioni più significative della elaborazione dottrinale, giurisprudenziale e normativa in materia, secondo la quale, ai fini della individuazione del trattamento discriminatorio, ciò che rileva è il mero fatto oggettivo che il lavoratore non avrebbe subito il trattamento sfavorevole se non si fosse trovato ad integrare il fattore di rischio contemplato dall’ordinamento. Nella ipotesi specifica, il mero fatto che il V. non sarebbe stato licenziato se l’Helitalia non avesse reputato che il ricorrente fosse legato o affiliato ala detta associazione, o che, in ogni caso, la favorisse colpevolmente (sia pure per culpa in vigilando), rendeva di per sè il trattamento riservato al prestatore di lavoro direttamente discriminatorio, a prescindere dall’accertamento di una effettiva volontà discriminatoria della società datrice di lavoro. Aggiunge che la sentenza impugnata ha anche erroneamente applicato, in connessione con l’erronea nozione di discriminazione seguita, il D.Lgs. n. 216 del 2003, art. 4, comma 4, omettendo di valutare, ai sensi dell’art. 2729 c.c., quali presunzioni gravi, precise e concordanti, i concludenti elementi di fatto raccolti in sede istruttoria svolta dinanzi al Collegio arbitrale ed integralmente riversata nel giudizio in questione, che aveva fatto emergere una prova diretta della natura discriminatoria de licenziamento intimato ai V.. Ha, poi, ignorato la sentenza i pur univoci elementi presuntivi inferibili dal fatto (secondario) che ben quattro (e parte significativa del quinto) dei complessivi cinque addebiti disciplinari contestati al ricorrente erano del tutto infondati e pretestuosi, come accertato dal collegio arbitrale. Anche a conclusione dei rilievi posti a fondamento del secondo motivo di impugnazione il V. formula quesito di diritto ai sensi dell’art. 366 c.p.c..

Quanto alla censura volta a contestare la nozione di fatto notorio utilizzata dalla Corte territoriale, deve rilevarsi, in via generale, che il ricorso alle nozioni di comune esperienza (fatti notori) ex art. 115 c.p.c., comma 2 attiene all’esercizio di un potere discrezionale riservato al giudice de merito e che il relativo esercizio, sia positivo che negativo, non è sindacabile in sede di legittimità non essendo egli tenuto ad indicare gli elementi sui quali la determinazione si fonda, essendo, invece, censurabile – stabilendo se nelle forma del ricorso ex art. 360 c.p.c., n. 4 od in quelle del ricorso per violazione di legge ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 – l’assunzione, a base della decisione, di una inesatta nozione del notorio, che va inteso quale fatto generalmente conosciuto, almeno in una determinata zona o in un particolare settore di attività o di affari da una collettività di persone di media cultura (cfr, in tal senso, Cass. 29.4.2005 n. 9001; 21.2.2007 n. 4051; 9.9.2008 n. 22880 e 12.3.2009 n. 6023). Dirimente risulta tuttavia, nel caso considerato, al di là della verifica della esattezza della nozione del notorio assunta dal giudicante, la circostanza che il dato in esame e le argomentazioni svolte dalla Corte di Appello in ordine all’associazione ed alle vicende relative alla stessa sono state funzionali, come rettamente osservato dalla controricorrente, ad integrare il parametro di misura della diligenza tenuta dal V., il quale, tra molteplici soluzioni offerte dal mercato in materia di testi attitudinali e formativi – aveva acriticamente deciso di fruire di strumenti offerti da soggetto in relazione al quale non aveva condotto alcuna indagine conoscitiva per verificare la rispondenza dei testi proposti alle esigenze delle azienda. La censura è evidentemente funzionale alla dimostrazione della erroneità della decisione nella parte in cui aveva escluso il carattere discriminatorio del licenziamento, ma la stessa, in relazione al suo oggetto si fonda su circostanza ininfluente, atteso che non è idonea a confutare l’assunto, valorizzato dalla corte territoriale, che il dirigente non si era attenuto alle linee operative della società nei momento in cui aveva consentito, senza approfondire dovutamente le caratteristiche della società specializzata cui aveva demandato il corso di comunicazione aziendale, di somministrare ai dirigenti sottoposti quesiti volti ad indagare sulla loro vita privata, rispetto ai quali si erano manifestate le reazioni di alcuni essi.

La scelta, da parte del V., di un qualunque altro soggetto latore di una specificità ideologica propria sarebbe stata ugualmente censurata in termini disciplinari nella misura in cui non fosse stata operata con il grado di diligenza qualificato richiesto dalle funzioni dirigenziali.

La pronunzia della Corte territoriale è, dunque, tale da non potersi ritenere adottata in violazione delle norme invocate.

Con riguardo al secondo motivo di ricorso, il ricorrente assume che ciò che rileva nel giudizio da compiersi in merito alla dedotta natura discriminatoria del licenziamento, in virtù di quanto affermato anche dalla giurisprudenza comunitaria, saldamente ancorata ad una concezione funzionale dell’illecito discriminatorio, è unicamente l’effetto, – pregiudizievole che discende da atti e comportamenti che, prescindendo dalla motivazione addotta, come anche dall’intenzione di chi ti adotta, pongano il destinatario in una situazione di svantaggio rispetto a quanti siano estranei ai fattori di rischio vietato. Richiama il contenuto della norma di cui al D.Lgs. n. 216 del 2003, art. 2 che definisce la nozione di discriminazione diretta ("quando per religione, per convinzioni personali, per handicap, per età o per orientamento sessuale, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga") e quella di discriminazione indiretta (" quando un disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere le persone che professano una determinata religione o ideologia di altra natura, e persone portatrici di handicap, le persone di una particolare età o di un orientamento sessuale in una situazione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone").

Alla stregua di tali considerazioni, rileva la contraddizione logica in cui è incorsa, a suo dire, la Corte di Appello, laddove ha affermato che la Helitalia spa non avrebbe addebitato al V. la diretta appartenenza, avendogli, piuttosto, soltanto addebitato a titolo di colpa in vigilando di avere consentito ad una associazione discussa di penetrare in azienda e comunque di averla autorizzata ad utilizzare un test attitudinale. Evidenzia che tale contraddizione risiederebbe nella ragione decisiva che nella stessa motivazione espressa dall’atto di recesso quella sanzionata dallo stesso collegio fiorentino sia risultata la ricollegabilità dell’attività rimproverata al V., sia pure a titolo di culpa in vigilando, all’azione di una setta religiosa.

Senonchè, non ritiene questa Corte che nei termini evidenziati si sia espressa la valutazione compiuta dal giudice del merito, atteso che il dato dell’appartenenza della associazione che aveva approntato i feste somministrati a un particolare orientamento etico religioso risulta preso in considerazione nella misura in cui lo stesso si era riverberato negativamente nel contesto aziendale, suscitando l’indagine conoscitiva condotta da tale società reazione tra i dipendenti, turbati per il carattere invasivo dei testi nei riguardi della loro vita privata e per il condizionamento negativo derivatone.

Ed invero, la condotta sanzionata, ossia il monitoraggio posto in essere senza la necessaria preventiva informazione del Consiglio di Amministrazione ed in violazione delle linee operative dell’azienda, contrariamente a quanto assume il ricorrente, è stato correttamente ritenuto dalla Corte di merito, con motivazione incensurabile sotto i profili evidenziati, oltre che un dato oggettivamente provato, ragione di per sè suscettibile di essere valutata in termini di rilevanza disciplinare che di certo non dissimula un intento discriminatorio del provvedimento espulsivo, pienamente giustificato dalla negligenza posta in essere dal dirigente V.. E ciò, come è dato evincere dalla argomentata articolazione motivazionale, a prescindere da ogni supposta adesione del V., ma attribuendo rilievo all’incauto affidamento a società facente capo ad associazione di orientamento etico religioso discutibile di un’attività aziendale delicata, quale quella attinente alla comunicazione endoaziendale, senza che da ciò possa in alcun modo inferirsi un contegno anche indirettamente discriminatorio riferito alla esclusione in via di principio di ogni possibilità di contatto con società ideologicamente connotate, ove tale connotazione non avesse avuto i riflessi che avevano fatto paventare un condizionamento degli stessi soggetti sottoposti al test.

Deve escludersi, pertanto, che la Corte territoriale sia incorsa nella denunziata violazione delle norme richiamate in tema di divieto di trattamenti discriminatori giustificati da ragioni di appartenenza ad un particolare credo ideologico o religioso, laddove si consideri che anche quanto si assume in merito alla mancata valutazione di elementi di fatto indiziari valutabili alla stregua dell’art. 2729 c.c., comma 1 – in particolare l’esito dell’accertamento condotto in sede arbitrale – non risulta provato ed, anzi, emerge che al riguardo la società ha affermato che la prova raggiunta ha consentito di ritenere provata la rilevanza dei relativi addebiti. Nulla risulta dedotto con riguardo alla valutazione operata dai giudici del merito delle risultanze del giudizio arbitrale, la relativa omissione essendo invocata in termini di assoluta genericità ed alcuna censura viene mossa circa i criteri ed i vizi logico giuridici in cui sarebbe incorsa la valutazione compiuta, sicchè anche da tale punto di vista il ricorso è privo di fondamento. La dedotta applicazione delle regole in tema di giudizio fondata su elementi presuntivi non si riconnette, invero, a dati certi che consentano di ritenere un’omessa valutazione di dati pacificamente e inconfutabilmente acquisiti agli atti di causa, dovendo al riguardo anche osservarsi che le prove raccolte in un diverso giudizio danno luogo ad elementi meramente indiziari, conseguendone che la mancata valutazione di tali prove non è idonea ad integrare il vizio di motivazione, in quanto il difetto riscontrato non può costituire punto decisivo, implicando non un giudizio di certezza, ma di mera probabilità rispetto all’astratta possibilità di una diversa soluzione (cfr., in tali termini, Cass. 23.4.1998 n. 4183).

Il ricorso deve essere, pertanto, respinto ed il ricorrente deve essere condannato al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, in applicazione della regola della soccombenza.

P.Q.M.

La Corte così provvede:

rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, di cui Euro 33,00 esborsi, Euro 2.500,00 per onorario, oltre spese generali, IVA e CPA come per legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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