T.A.R. Sicilia Palermo Sez. I, Sent., 18-01-2011, n. 58 Applicazione della pena; Armi da fuoco e da sparo Detenzione abusiva e omessa denuncia Porto abusivo di armi

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo e motivi della decisione

Con il ricorso in esame, notificato il 23 aprile 2007, e depositato il successivo 11 maggio, il sig. G.P. ha impugnato il provvedimento indicato in epigrafe, deducendone l’illegittimità per il seguente motivo: "violazione di legge ed eccesso di potere".

Si è costituita in giudizio, per resistere al ricorso, l’amministrazione intimata.

In prossimità dell’udienza di discussione, la difesa erariale ha prodotto una memoria.

Il ricorso è stato definitivamente trattenuto in decisione alla pubblica udienza del 9 novembre 2010.

Il provvedimento impugnato ha respinto il ricorso gerarchico presentato dal ricorrente, avverso il rigetto dell’istanza di rinnovo del porto di fucile, pronunciato dal Questore di Palermo in data 17 giugno 2006.

Tanto il provvedimento che ha respinto l’originaria istanza, quanto quello di reiezione del rimedio gerarchico, argomentano in base al rilievo ostativo della mancanza dei requisiti soggettivi previsti dal T.U.L.P.S. per l’uso delle armi, in relazione all’avvenuta applicazione al P. – ai sensi dell’art. 444 cod. proc. pen. – della pena di anni uno di arresto ed euro 344 di ammenda, con sentenza del Tribunale di Caltanissetta, n. 18/2002, per il reato di cui agli artt. 2 e 30 dell. B) L. 157/1992 e L.R. 33/1997, per avere abbattuto una specie di fauna selvatica protetta.

Il ricorso censura la valutazione, quale precedente penale (sintomatico della inidoneità alla detenzione di armi) di detta sentenza di applicazione di pena.

La censura è infondata.

Mette conto anzitutto rilevare che per giurisprudenza assolutamente consolidata, il potere dell’amministrazione relativo alla costante verifica dei presupposti per il rilascio di autorizzazioni all’uso delle armi, configura un sistema nell’ambito del quale si deve riconoscere all’Autorità di P.S. una sfera di ampia discrezionalità in ordine al diniego od alla revoca delle licenze od autorizzazioni medesime (ex multis, Cons. Stato, Sez. IV, sent. 28 marzo 1990, n. 221; T.A.R. Lazio, Sez. I, 20 novembre 1990, n. 1116; T.A.R. Toscana, 3 febbraio 1996, n. 59; T.A.R. EmiliaRomagna., Bologna, sez. I, sentenza 4 ottobre 2002 n. 1417).

Una simile ampiezza del potere amministrativo in discorso non è affatto tautologica, ma è piuttosto correlata – in una adeguata considerazione complessiva ed unitaria del rapporto fra potere autoritativo e situazioni giuridiche soggettive che lo fronteggiano – al rilievo che "il possesso da parte di un cittadino di un’arma, o l’utilizzo della medesima a fine di caccia, non rientra nello "statuto ordinario dei diritti della personalità appartenenti al singolo", ma costituisce un quid pluris, la cui concessione risente della necessità che, stante il potenziale pericolo rappresentato dal possesso e dall’utilizzo dell’arma, l’Amministrazione si cauteli mercè un giudizio prognostico che, ex ante, escluda la possibilità di abuso" (Consiglio di Stato, sez. VI, 4 giugno 2010, n. 3558).

L’esercizio del potere in questione deve essere preceduto da idonea istruttoria, e corroborato da adeguata motivazione (come affermato dal C.G.A, nella decisione 730/2010): nel caso di specie, tuttavia, la difesa della parte ricorrente intende censurare, più che una motivazione o un’istruttoria mancanti o carenti, una motivazione e un’istruttoria che, immuni dalle censure denunciate, hanno piuttosto condotto a risultati obiettivamente sfavorevoli per il ricorrente.

In ogni caso, come ricordato anche di recente dalla giurisprudenza, il sindacato giurisdizionale sull’esercizio di siffatto potere discrezionale è coerentemente incentrato sui vizi di illogicità manifesta o di travisamento dei fatti (Consiglio Stato, sez. I, parere 9 giugno 2010, n. 285): e non, dunque sulla sostituzione della valutazione del ricorrente a quella – purché sia, come nel caso di specie, non manifestamente illogica, e non fondata su elementi di fatto travisati – operata dall’amministrazione competente.

Si afferma infatti che detto sindacato è"assimilabile a quello ricorrente con riguardo alla fattispecie di discrezionalità tecnica (se nell’ambito delle valutazioni quella effettuata rientri nell’ambito della attendibilità); quindi, deve all’uopo rammentarsi che, anche laddove la giurisdizione amministrativa si estenda al merito (il che non è nel caso di specie), il profilo di congruenza motivazionale, assenza di parametri di abnormità, e sufficienza ed attendibilità delle risultanze istruttorie costituisce l’essenza del convincimento giudiziale, che, ove penetrantemente diretto a sindacare l’opportunità e la convenienze delle scelte (soprattutto ove le stesse si risolvano in un giudizio) sostituirebbe la propria valutazione a quella della Amministrazione e sconfinerebbe, quindi, in compiti di amministrazione attiva sostitutivi dell’Amministrazione e, come tali, inammissibili" (Consiglio di stato, sez. VI, 4 giugno 2010, n. 3558, cit.).

Nello specifico, poi, due profili appaiono al collegio dirimenti nel senso della infondatezza del gravame.

In punto di diritto, la giurisprudenza ha già chiarito che "la prevalente giurisprudenza, cui aderisce il Tribunale, ritiene che la sentenza pronunciata ex art. 444 c.p.p. equivale a quella di condanna, in quanto il patteggiamento investe la pena e non il titolo di imputazione, tanto che il giudice può disattendere la richiesta delle parti quando ritiene di pervenire ad una pronuncia di assoluzione o di estinzione del reato (cfr. TAR Piemonte, II sez., 23.10.1997, n. 535; C.d.S., Sez. VI, 24.08.1996, n. 1067). In altre parole, i vantaggi di tale sentenza per l’imputato rimangono confinati nello stretto ambito penale, in quanto per le conseguenze extrapenali del fatto non sussiste alcuna preclusione, né per l’autorità amministrativa, che ai sensi dell’art. 445, comma 1, c.p.p. è tenuta ad equiparare detta pronuncia a quella di condanna, né per il condannato, che, nei limiti previsti dai rispettivi ordinamenti processuali, è ammesso a provare nelle ulteriori sedi di giudizio quanto non ha voluto o potuto addurre innanzi al giudice penale (Tar Lombardia – Brescia, 13.12.1993; Tar LombardiaMilano 29.12.2006 n. 4379). Anche recentemente la giurisprudenza ha affermato che nel rito del patteggiamento "il momento c.d. negoziale investe, invero, il "quantum" della pena, ma non certo il merito della sussistenza degli estremi della responsabilità penale che, ancorché con cognizione sommaria, è sempre accertata dal giudice. Quanto su esposto trova riscontro nella disciplina positiva dell’istituto in base alla quale l’applicazione della pena a seguito del c.d. patteggiamento avviene sempre su motivata valutazione da parte del giudice dell’insussistenza dei presupposti per addivenire ad una sentenza di proscioglimento ai sensi dell’art. 129 c.p. (perché il fatto non sussiste, l’imputato non lo ha commesso, il fatto non costituisce reato, ecc.) e previo accertamento della corretta qualificazione giuridica del fatto ascritto e delle circostanze ad esso afferenti, quali presupposti della formulazione della richiesta di applicazione negoziata della pena. A mezzo del modello processuale delineato dall’art. 444 c.p.p. e segg. si perviene all’ascrizione dell’illecito penale ad un soggetto determinato, muovendo dall’ammissione di responsabilità dello stesso inquisito congiunta alla proposta dell’applicazione della pena in misura determinata, e lo stesso art. 445 c.p.p. espressamente qualifica come "pronuncia di condanna" la sentenza che definisce il processo" (cfr. C.d.S., sez. VI, 22.05.2007 n. 2592). Pertanto, la circostanza che l’art. 445 c.p.p. preveda che la sentenza di condanna patteggiata "non ha efficacia nei giudizi civili o amministrativi" non preclude che essa debba essere valorizzata nei procedimenti finalizzati all’adozione di un atto amministrativo. In altre parole, ai fini dell’emanazione di un provvedimento amministrativo è del tutto indifferente il rito con il quale è stata pronunciata la sentenza penale di condanna, in quanto, a tali fini, anche la decisione "patteggiata" va equiparata ad una pronuncia di condanna, secondo quanto precisato nell’art. 445, comma 2, c.p.p." (T.A.R. Piemonte, Torino, sez. II, sentenza 1° dicembre 2008, n. 3054).

In punto di fatto, inoltre, quand’anche – per mera ipotesi – l’amministrazione non considerasse il fatto nella sua dimensione giuridicopenale, ma unicamente nella sua rilevanza storicofattuale, è di palese evidenza come l’accertamento di un episodio di grave abuso nella detenzione di un’arma (uccisione di un esemplare di fauna selvatica protetta), è univocamente sintomatico, secondo un procedimento di inferenza logica condotta alla stregua di un criterio di normalità sociale, della prognosi negativa circa il successivo e futuro utilizzo dell’arma stessa.

L’infondatezza del superiore motivo di impugnazione appare dirimente, in quanto lascia immune dalle dedotte censure di illegittimità un significativo ed autosufficiente elemento motivatorio del provvedimento impugnato (il che esime dall’esame della seconda parte della censura, relativa ad una ulteriore ragione del diniego, in quanto la rilevanza del citato precedente penale è di per se" ampiamente sufficiente a sorreggere la motivazione del provvedimento impugnato).

Ne consegue il rigetto del ricorso e la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del giudizio, liquidate come in dispositivo, secondo la regola della soccombenza.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia (Sezione Prima)

definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge.

Condanna P.G. al pagamento delle spese di lite nei confronti dell’amministrazione intimata, da distrarsi in favore dell’Avvocatura dello Stato, distrattaria per legge, che liquida in complessivi Euro 2.000,00, oltre I.V.A. e C.P.A. come per legge.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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