Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 17-02-2011, n. 3862 Contratto a termine

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con ricorso notificato in data 27 gennaio 2007, la società p.a.

Poste Italiane chiede, con cinque motivi, la cassazione della sentenza depositata il 27 gennaio 2006, con la quale la Corte d’appello di Milano aveva confermato le decisioni del giudice di primo grado di accertamento della nullità del termine apposto al contratto di lavoro intercorso con M.M. dall’1 giugno al 31 agosto 2002 e con L.N.M. dal 20 giugno al 31 agosto 2002 (con la seguente causale "per "esigenze tecniche, organizzative e produttive anche di carattere straordinario conseguenti a processi di riorganizzazione, ivi ricomprendendo un più funzionale riposizionamento di risorse sul territorio, anche derivanti da innovazioni tecnologiche ovvero conseguenti all’introduzione e/o sperimentazione di nuove tecnologie, prodotti o servizi nonchè all’attuazione delle previsioni di cui agli accordi del 17, 18 e 23 ottobre, 11 dicembre 2001 e 11 gennaio 2002, 13 febbraio e 17 aprile 2002 e di condanna della società a ripristinare il rapporto di lavoro e a risarcire alla parte resistente i danni conseguenti dalla data di costituzione in mora della società, coincidente con la richiesta di tentativo obbligatorio di conciliazione.

I motivi di ricorso attengono:

1) alla contraddittorietà della motivazione, che in una prima parte a-vrebbe ritenuto sussistente un piano di ristrutturazione costituente legittima causale del termine, stante la delega in bianco dalla legge alla contrattazione collettiva, esercitata con l’art. 25 del CCNL del 2001 e poi avrebbe viceversa affermato la necessità di una verifica in concreto della situazione legittimante il termine;

2) alla violazione della L. n. 56 del 1987, art. 53 del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 11 e art. 1362 c.c. e segg., in connessione con l’art. 25 del C.C.N.L. del 2001 e al vizio di motivazione, per avere ritenuto insussistente il nesso causale tra le esigenze generali indicate nella causale e la specifica assunzione dei due lavoratori;

3) alla violazione del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 1 e al vizio di motivazione, per avere ritenuto generica la causale indicata nei contratti a termine, pertanto inidonea a giustificare la relativa apposizione ai sensi del D.Lgs. n. 368 del 2001;

4) alla violazione dell’art. 112 c.p.c., per non essersi pronunciata in ordine alla deduzione della società secondo la quale la eventuale nullità del termine nel quadro della disciplina del D.Lgs. n. 368 del 2001 non comporterebbe la trasformazione del contratto a tempo indeterminato e al vizio di motivazione per avere confermato sul punto, senza illustrarne le ragioni, la decisione del primo giudice che tale trasformazione aveva disposto;

5) al vizio di motivazione nonchè alla violazione degli artt. 2094, 2099, 1206, 1207 e 1217 c.c. per avere fatto decorrere il danno da risarcire dalla data della lettera di richiesta del tentativo obbligatorio di conciliazione, che, viceversa non conterrebbe alcuna offerta di prestazione, che del resto difetterebbe anche nel ricorso introduttivo.

M.M. resiste alle domande con rituale controricorso, mentre il L. non si è costituito in questa sede.

Motivi della decisione

Il ricorso nei confronti di L.M.N. non risulta ritualmente notificato nei termini di legge.

Esso, relativo ad una sentenza depositata il 27 gennaio 2006 e mai notificata, risulta infatti dagli atti consegnato all’ufficiale giudiziario per la notifica a mezzo del servizio postale in data 27 gennaio 2007 e da questi spedito al L. in piego raccomandato con avviso di ricevimento nella stessa data, per mezzo dell’ufficio postale di (OMISSIS).

La ricorrente non ha peraltro mai depositato l’avviso di ricevimento da parte del L. (non costituito in questa sede), come era viceversa suo onere ai fini dell’attestazione dell’avvenuta notifica (cfr., da ultimo, Cass. 10 agosto 2010 n. 18551), necessaria per l’ammissibilità del ricorso.

Il ricorso di Poste Italiane nei confronti di L.N. M. va pertanto dichiarato inammissibile, senza pronuncia sulle spese di quest’ultimo, inesistenti in questo giudizio di cassazione.

Il ricorso nei confronti di M.M. è viceversa infondato.

La sentenza impugnata ha affermato che il contratto individuale era disciplinato dall’art. 25 del C.C.N.L., applicabile al rapporto, del 11 gennaio 2001, con la quale clausola "i contratti collettivi hanno rimesso ad un previo accordo la valutazione circa la sussistenza concreta delle condizioni che legittimano il ricorso ai contratti a termine", così come nella previgente disciplina contrattuale "gli accordi attuativi avevano lo scopo di integrare la clausola assolutamente generica dell’ari. 25 del C.C.N.L. 26 novembre 1994 "e ne avevano concretamente individuato l’efficacia temporale".

Nè il contrario avviso, secondo la Corte territoriale potrebbe derivare dal fatto che il contratto individuale è stato stipulato dopo l’entrata in vigore del D.Lgs. n. 368 del 2001, che, pur con un approccio alla disciplina del contratto a tempo determinato ispirato alla liberalizzazione della casistica delle causali che lo autorizzano, richiede comunque anch’esso la specificazione delle ragioni per l’apposizione del termine", mentre nel caso in esame "la società si è limitata a dedurre motivi di carattere generale, offrendo di provare circostanze organizzative generiche, senza alcun cenno alla riconducibilità in concreto delle assunzioni alle esigenze produttive e organizzative.

Il ricorso non rileva la contraddittorietà di tale motivazione, derivante dal fatto che dopo l’entrata in vigore del D.Lgs. 6 settembre 2001, n. 368 gli accordi e contratti collettivi hanno perduto il potere di individuare ipotesi aggiuntive di possibile contratto a termine, salva l’ipotesi considerata al decreto medesimo, art. 11, comma 2.

Ne consegue infatti che l’invocazione, ai sensi del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 11, comma 2 della norma del contratto collettivo 11.1.01 (dettata in attuazione della L. n. 56 del 1987, art. 23), per la disciplina del contratto a tempo determinato è alternativa e non concorrente col richiamo alla disciplina di cui al decreto medesimo, art. 1 applicabile al di fuori delle ipotesi considerate al suddetto art. 11, comma 2, il quale al comma 1 abroga anche la L. n. 56 del 1987, art. 23.

Censurando ambedue i piani della motivazione, senza prendere peraltro posizione in ordine alla disciplina applicabile, la ricorrente non propone peraltro alcuna censura in ordine all’assunto, espresso nella sentenza, secondo cui l’art. 25 del C.C.N.L., per poter utilizzare la generica causale in esso indicata imporrebbe la stipula di un previo accordo collettivo in ordine all’accertamento della sussistenza in concreto delle condizioni legittimanti l’assunzione a termine, limitandosi a riprodurre il testo della norma collettiva nella parte che prevede la causale considerata generica dalla Corte territoriale, sostenendone la sufficiente specificità, ma senza contestare l’esistenza di una parte ulteriore della norma medesima che rinvierebbe ad accordi successivi la specificazione della causale.

Con riguardo poi alla disciplina di cui al D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 1 relativo alla "Attuazione della direttiva 1999/70/CE relativa all’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso dall’UNICE, dal CEEP e dal CES", esso stabilisce ai primi due commi:

"1. E’ consentita l’apposizione di un termine alla durata del rapporto di lavoro subordinato a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo.

2 – L’apposizione del termine è priva di effetto se non risulta, direttamente o indirettamente, da atto scritto nel quale sono specificate le ragioni di cui al comma 1".

Come già rilevato da questa Corte nella sentenza 1 febbraio 2010 n. 2279 (cfr. altresì Cass. sent. n. 10033/10 nonchè, con specifico riguardo alle esigenze sostitutive le sentenze nn. 1576 e 1577/10), con l’espressione sopra riprodotta, di chiaro significato già alla stregua delle parole usate, il legislatore ha inteso stabilire un vero e proprio onere di specificazione delle ragioni oggettive del termine finale, perseguendo la finalità di assicurare la trasparenza e la veridicità di tali ragioni nonchè l’immodificabilità delle stesse nel corso del rapporto (così Corte Costituzionale sent. 14 luglio 2009 n. 214).

Il D.Lgs. n. 368 del 2001, abbandonando il precedente sistema di rigida tipicizzazione delle causali che consentono l’apposizione di un termine finale al rapporto di lavoro (in parte già oggetto di ripensamento da parte del legislatore precedente), in favore di un sistema ancorato alla indicazione di clausole generali (ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo), cui ricondurre le singole situazioni legittimanti come individuate nel contratto, si è infatti posto il problema, nel quadro disciplinare tuttora caratterizzato dal principio di origine comunitaria del contratto di lavoro a tempo determinato (cfr., in proposito, Cass. 21 maggio 2008 n. 12985) del possibile abuso insito nell’adozione di una tale tecnica.

Per evitare siffatto rischio di un uso indiscriminato dell’istituto, il legislatore ha imposto la trasparenza, la riconoscibilità e la verificabilità della causale assunta a giustificazione del termine, già a partire dal momento della stipulazione del contratto di lavoro, attraverso la previsione dell’onere di specificazione, vale a dire di una indicazione sufficientemente dettagliata della causale nelle sue componenti identificative essenziali, sia quanto al contento che con riguardo alla sua portata spazio – temporale e più in generale circostanziale.

In altri termini, per le finalità indicate, tali ragioni giustificatrici, contrariamente a quanto sostenuto dalla ricorrente, devono essere sufficientemente particolareggiate, in maniera da rendere possibile la conoscenza dell’effettiva portata delle stesse e quindi il controllo di effettività su di esse.

Questa Corte ha peraltro affermato, nell’occasione prima ricordata, che siffatta specificazione delle ragioni giustificatrici del termine può risultare anche indirettamente nel contratto di lavoro e da esso per relationem in altri testi scritti accessibili alle parti, in particolare nel caso in cui, data la complessità e la articolazione del fatto organizzativo, tecnico o produttivo che è alla base della esigenza di assunzioni a termine, questo risulti analizzato in documenti specificatamente ad esso dedicati per ragioni di gestione consapevole e/o concordata con i rappresentanti del personale.

Senonchè nel caso in esame, nella ritenuta (dalla Corte d’appello) evidente assoluta genericità della clausola appositiva del termine, la ricorrente, oltre a negare che una maggiore specificità fosse necessaria quanto al nesso di causalità tra le esigenze di riorganizzazione e la singola assunzione e ad affermare, a monte, che un articolato sviluppo di tali indicazioni sarebbe fatto notorio e comunque risulterebbe anche negli accordi richiamati nel contratto individuale, non evidenzia poi, almeno attraverso la riproduzione degli snodi essenziali, il contenuto di tali accordi, limitandosi ad una generico richiamo ad esigenze nascenti dalla riorganizzazione in atto e dall’attuazione degli accordi medesimi, sulla mobilità.

I primi tre motivi di ricorso sono pertanto inammissibili.

Per quanto riguarda il quarto motivo, l’implicita conferma della sentenza di primo grado in ordine alla conversione a tempo indeterminato del contratto di lavoro, in caso di accertamento della nullità del termine in esso apposto, appare conforme alla interpretazione del D.Lgs. citato da parte di questa Corte, che con sentenza 21 maggio 2008 n. 12985, cui il collegio intende dare continuità, ha affermato che "il D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 1 anche anteriormente alla modifica introdotta dalla L. n. 247 del 2007, art. 39 ha confermato il principio generale secondo cui il rapporto di lavoro subordinato è normalmente a tempo indeterminato, costituendo l’apposizione del termine un’ipotesi derogatoria pur nel sistema, del tutto nuovo, della previsione di una clausola generale legittimante l’apposizione del termine "per ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo". Pertanto, in caso di insussistenza delle ragioni giustificative del termine e pur in assenza di una norma che sanzioni espressamente la mancanza delle dette ragioni, in base ai principi generali in materia di nullità parziale del contratto e di eterointegrazione della disciplina contrattuale, nonchè alla stregua dell’interpretazione dello stesso art. 1 citato nel quadro delineato dalla direttiva comunitaria 1999/70/CE (recepita con il richiamato decreto), e nel sistema generale dei profili sanzionatori nel rapporto di lavoro subordinato, tracciato dalla Corte cost. n. 210 del 1992 e n. 283 del 2005, all’illegittimità del termine ed alla nullità della clausola di apposizione dello stesso consegue l’invalidità parziale relativa alla sola clausola e l’instaurarsi di un rapporto di lavoro a tempo indeterminatò".

Ne consegue la irrilevanza del vizio di motivazione denunciato (arg. ex art. 284 c.p.c., u.c.).

Infine è inammissibile l’ultimo motivo di ricorso.

Quanto alle conseguenze economiche della pronuncia di nullità del termine e di conversione del contratto, la Corte territoriale, confermando la pronuncia di primo grado, ha infatti correttamente applicato i principi ripetutamente affermati in proposito da questa Corte (cfr., ad es. recentemente, Cass. sentt. nn. 1752/10, 20316/08 e 12985/08), secondo cui "In caso di sospensione volontaria della prestazione, come è nei fatti quella in esame, ancorchè dipendente dalla scadenza di un termine successivamente dichiarato nulla, non è dovuta la retribuzione, in ragione della tendenziale effettività e corrispettività delle prestazioni nel rapporto di lavoro, finchè il lavoratore non provveda a mettere nuovamente a disposizione la stessa (con un atto giuridico in senso stretto di carattere recettizio), anche se "per facta concludentia" e senza ricorrere a specifici requisiti formali, determinando conseguentemente una situazione di "mora accipiendi" del datore di lavoro, da cui deriva, ai sensi dell’art. 1206 c.c. e segg. il diritto del lavoratore al risarcimento del danno nella misura del retribuzioni perdute a causa dell’ingiustificato rifiuto della prestazione offerta da parte del datore di lavoro" (Cass. 3 marzo 2006 n. 4677).

In tale quadro di riferimento, i giudici di merito hanno accertato che una tale offerta della prestazione lavorativa era contenuta nella lettera del M. di richiesta del tentativo obbligatorio di conciliazione ex art. 41 c.p.c. Trattasi di accertamento di fatto che la ricorrente avrebbe potuto contrastare, in ossequio alla regola della autosufficienza del ricorso per cassazione, con la specificazione e riproduzione del contenuto di tale richiesta, mentre si è limitata, in maniera inammissibile, ad affermare apoditticamente che la lettera non conteneva alcuna offerta della prestazione.

Nel corso della discussione orale, la società ricorrente ha invocato, in via subordinata, quanto alle conseguenze economiche della dichiarazione di nullità della clausola appositiva del termine, l’applicazione dello ius superveniens, rappresentato della L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, commi 5, 6 e 7 in vigore dal 24 novembre 2010, del seguente tenore:

"Nei casi di conversione del contratto a tempo determinato, il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del lavoratore stabilendo una indennità omnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nella L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 1.

In presenza di contratti ovvero accordi collettivi nazionali, territoriali o aziendali, stipulati con le OO.SS. comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, che prevedano l’assunzione, anche a tempo indeterminato, di lavoratori già occupati con contratto a termine nell’ambito di specifiche graduatorie, il limite massimo dell’indennità fissata dal comma 5 è ridotto alla metà.

Le disposizioni di cui ai commi 5 e 6 trovano applicazione per tutti i giudizi, ivi compresi quelli pendenti alla data di entrata in vigore della presente legge. Con riferimento a tali ultimi giudizi, ove necessario, ai soli fini della determinazione della indennità di cui ai commi 5 e 6, il giudice fissa alle parti un termine per l’eventuale integrazione della domanda e delle relative eccezioni ed esercita i poteri istruttori ai sensi dell’art. 42 c.p.c.".

Con riguardo alla richiesta della società, e a prescindere dall’esame della problematica relativa alla possibilità di ricomprendere tra i giudizi pendenti cui il comma 7 ora riportato applica i precedenti commi 5 e 6 anche il giudizio di cassazione, va premesso, in via di principio, che costituisce condizione necessaria per poter applicare nel giudizio di legittimità lo ius superveniens che abbia introdotto, con efficacia retroattiva, una nuova disciplina del rapporto controverso, il fatto che quest’ultima sia in qualche modo pertinente rispetto alle questioni oggetto di censura nel ricorso, in ragione della natura del controllo di legittimità, il cui perimetro è limitato dagli specifici motivi di ricorso (cfr.

Cass. 8 maggio 2006 n. 10547).

In tale contesto, è altresì necessario che il motivo di ricorso che investe, anche indirettamente, il tema coinvolto dalla disciplina sopravvenuta, oltre ad essere sussistente, sia altresì ammissibile secondo la disciplina sua propria.

Poichè nel caso in esame, il motivo che investe le conseguenze risarcitorie della ritenuta nullità del termine apposto al contratto di lavoro intercorso è inammissibile, la richiesta di applicazione dello ius superveniens formulata dalla difesa della ricorrente non può comunque essere presa in esame.

Concludendo, alla stregua delle considerazioni svolte, il ricorso nei confronti di M.M. va respinto, con le normali conseguenze in ordine al regolamento delle spese di questo giudizio di cassazione, come operato in dispositivo.

P.Q.M.

LA CORTE dichiara inammissibile il ricorso nei confronti di L.N.M. e lo rigetta nei confronti di M.M.; nulla per le spese di L.; condanna la società a rimborsare al M. le spese di questo giudizio, liquidate in Euro 20,00 per esborsi ed Euro 3.000,00, oltre spese generali (12,50%), IVA e CPA, per onorari.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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