Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 16-12-2010) 22-01-2011, n. 2233 Reato continuato e concorso formale

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo e motivi della decisione

Per poter disporre di un immediato quadro di riferimento è opportuno premettere alla esposizione dei fatti, una tavola sinottica dei cinque capi di imputazione oggetto di giudizio.

Tavola sinottica dai capi di imputazione sub A, B, C, D ed E. A- A.I., L.G., R.G., M.M., Bu.Gi., P.V., B.L., Bo.Ma., G.C., G.S. V., sono accusati A) del delitto di cui all’art. 416 bis c.p., commi 1, 2, 3, 4, 5 e 6, per avere fatto parte, in concorso tra loro ed unitamente ad altre numerose persone (tra le quali Fa.

G., Di.Ga.Ma., Lo.Gr.) ed in numero superiore a cinque, dell’associazione mafiosa "cosa nostra", e per essersi, insieme, avvalsi della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento ed omertà che ne deriva, per commettere delitti contro la vita, l’incolumità individuale, la libertà personale, il patrimonio, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o, comunque, il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, di appalti e servizi pubblici, per realizzare profitti e vantaggi ingiusti per sè e per gli altri, per intervenire sulle istituzioni e la pubblica amministrazione.

B- B.L. accusato al capo B) del reato p. e p. dall’art. 81 cpv, art. 629, commi 1 e 2 – con riferimento all’art. 628 c.p., comma 3, nn. 1 e 3 – e D.L. n. 152 del 1991, art. 7 per avere, con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso costretto Ca.

S. e Mo.Fr., soci del caseificio COMES – mediante condotta idonea ad incutere timore e a coartare la volontà del soggetto passivo, per la personalità sopraffattrice dell’agente, per le circostanze ambientali in cui si trovava ad operare la persona offesa, per l’ingiustizia della pretesa, per le modalità della richiesta di denaro, per i danneggiamenti subiti dai soci del suddetto caseificio – a versare somme di denaro, quantificabili all’incirca in Euro 500,00 mensili, al fine di garantire "protezione" dei mezzi e dell’attività lavorativa, paventando di fatto gravi ritorsioni nel caso di rifiuto del pagamento.

C- A.I., B.L., Bu.Gi., G. C., G.S.V. accusati al capo C) del reato previsto dagli artt. 81 cpv e 110 c.p., art. 629 c.p., commi 1 e 2 – con riferimento all’art. 628 c.p., comma 3, nn. 1 e 3 – e D.L. n. 152 del 1991, art. 7, per avere A.I., R.G. e B.L., con violenza e minaccia, consistita nell’avvalersi della forza di intimidazione che derivava dalla comune appartenenza all’organizzazione criminale denominata Cosa Nostra, costretto l’imprenditore V.V. a versare periodiche somme di denaro in relazione alla costruzione di alloggi di edilizia economica e popolare per conto della cooperativa TRE TORRI, nonchè di numero ventidue villette a schiera in territorio di Campobello di Licata, oltre la realizzazione da parte di imprese a lui riconducibili di altri lavori in territorio di Agrigento e Porto Empedocle, ed altresì, in esecuzione di un medesimo disegna criminoso, in concorso tra loro e con Bu.Gi., G.C. e G. S.V. per aver costretto sempre il V.V., mediante violenza consistita nell’incendio di un carrello elevatore di sua proprietà oltre alla consumazione di altri atti intimidatori, nonchè minaccia consistita nel far proferire da anonimo interlocutore la seguente frase "non lo capisci che ve ne dovete andare?", nonchè tramite esplicita richiesta estorsiva avanzata da G.S.V. e BU.Gi., a cedere alla SIR.TECM s.r.l., impresa i cui rappresentanti risultano in stretti rapporti sia con i G. sia con gli appartenenti alla consorteria mafiosa di Campobello di Licata una parte dei lavori concernenti la costruzione delle 22 villette a schiera in territorio di Campobello di Licata procurando a loro e ad altri un ingiusto profitto con relativo danno del V.V.. Con l’aggravante di avere commesso il fatto soggetti facenti parte dell’associazione di cui all’art. 416 bis c.p., tra loro riuniti, avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416 bis c.p. ed al fine di agevolare l’associazione criminale Cosa Nostra. In Campobelio di Licata fino al luglio del 2004. D- Bo.Ma. accusato al capo D) del reato p e p. dall’art. 635, comma 2 in relazione all’art. 625 c.p., n. 7 e D.L. n. 152 del 1991, art. 7 per avere distrutto, in concorso con persona ancora da identificare, l’espositore girevole posto davanti il negozio di rivendita di sanitari di Ca.Lu. sito in (OMISSIS) ed esposto per destinazione alla pubblica fede; con l’aggravante di avere commesso il fatto avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416 bis c.p. ed al fine di agevolare l’associazione criminale Cosa Nostra.

E- P.V. accusato al capo E) del delitto p. e p. dall’art. 110, art. 629, commi 1 e 2 in relazione all’art. 628 cpv. c.p., nn. 1 e 3, D.L. n. 152 del 1991, art. 7, per essersi, in concorso con altri associati tra i quali Ma.An., Si.Gi., Si.Ig., Ca.Fr., Lo.Gr., T.R., V.M.D. – per i quali si procede in separata sede, in qualità di appartenente all’associazione mafiosa di cui al capo a), al fine di agevolarne l’attività ed avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416 bis c.p., procurato un ingiusto profitto, costringendo SO. C., amministratore unico della SOECO s.r.l., a corrispondere una somma di denaro non quantificata a titolo di "pizzo".

In Agrigento in epoca anteriore e prossima al 15 novembre del 2003. 1.) il dispositivo della sentenza 25 novembre 2009 della Corte di appello di Palermo, impugnata.

La Corte di appello di Palermo, con sentenza 25 novembre 2009, in parziale riforma della sentenza 30 novembre 2007 pronunziata dal Giudice dell’Udienza Preliminare presso il Tribunale di Palermo, ed appellata da A.I., B.L., Bo.Ma., Bu.Gi., G.C., G.S.V., L.G., M.M. e R.G., nonchè dal Pubblico Ministero nei confronti di P.V., ha dichiarato P.V. colpevole del reato ascrittogli al capo A) e lo ha condannato alla pena di anni cinque di reclusione, oltre al pagamento delle spese processuali di entrambi i gradi del giudizio e di mantenimento durante la custodia cautelare in carcere, dichiarandolo interdetto in perpetuo dai pubblici uffici e in stato di interdizione legale durante la pena, disponendo, nei confronti del medesimo che, a pena espiata, sia sottoposto alla misura di sicurezza della libertà vigilata per la durata di anno uno; ha assolto G. C. dal reato ascrittogli al capo A) dichiarando cessata l’efficacia della misura cautelare in atto applicatagli; ha confermato nel resto l’impugnata sentenza condannando A. I., B.L., Bo.Ma., Bu.Gi., G.S.V., L.G., M.M. e R.G. al pagamento delle ulteriori spese processuali del presente grado di appello.

1.1) i motivi di ricorso del Procuratore generale nei confronti di G.C. e P.V..

Il Procuratore generale presso la Corte di appello di Palermo ha proposto ricorso per Cassazione avverso la sentenza emessa il 25/11/2009 dalla Corte d’Appello di Palermo, 4^ sezione penale, con la quale G.C. è stato assolto dal reato di concorso esterno in associazione mafiosa e P.V. è stato assolto dal reato di estorsione ascrittogli al capo E) della rubrica.

1.2) le difformi decisioni del G.U.P. e della Corte di appello per G.C. e P.V..

Come già detto, il G.U.P. di Palermo, con sentenza 30 novembre 2007, ha dichiarato G.C. colpevole del reato di concorso esterno in associazione mafiosa "cosa nostra", così riqualificato il reato di partecipazione all’associazione mafiosa commesso in Campobello di Licata fino alla data della sentenza (capo A);

il G.U.P. ha inoltre assolto il medesimo imputato dal reato di estorsione aggravata continuata, in danno di V.V., commesso in Campobello di Licata fino al luglio del 2004 (capo C), per non avere commesso il fatto.

La Corte di appello di Palermo, con sentenza 25 novembre 2009 in parziale riforma della sentenza del G.U.P. ha invece assolto G. C. dal reato ascrittogli al capo A) (senza precisarne la causale nella formula di proscioglimento, usata in dispositivo: 248- 396) dichiarando cessata l’efficacia della misura cautelare in atto applicatagli.

Quanto al P.V., il G.U.P. di Palermo, con sentenza 30 novembre 2007, lo ha assolto dai reati di partecipazione all’associazione mafiosa "cosa nostra", commesso in Campobello di Licata ed altre località delle province agrigentina e catanese fino al 19 agosto 2005 (capo A) e di estorsione aggravata in danno di So.Ca., commessa in Agrigento in epoca anteriore e prossima al 15 novembre del 2003 (capo E) per non avere commesso il fatto.

La Corte di appello di Palermo, invece, con sentenza 25 novembre 2009, in parziale riforma della sentenza pronunziata dal G.U.P. appellata dal Pubblico Ministero, ha dichiarato P.V. colpevole del reato ascrittogli al capo A) e lo ha condannato alla pena di anni cinque di reclusione, oltre al pagamento delle spese processuali di entrambi i gradi del giudizio e di mantenimento durante la custodia cautelare in carcere, dichiarandolo interdetto in perpetuo dai pubblici uffici e in stato di interdizione legale durante la pena, disponendo, nei confronti del medesimo che, a pena espiata, sia sottoposto alla misura di sicurezza della libertà vigilata per la durata di anno uno.

1.3) l’impugnazione del Procuratore generale presso la Corte di appello di Palermo contro G.C. e la decisione di rigetto di questa Corte.

Il Procuratore generale presso la Corte di appello di Palermo ha proposto ricorso per Cassazione avverso la sentenza 25 novembre 2009 della Corte d’Appello di Palermo, 4^ sezione penale, con la quale G.C. è stato assolto dal reato di concorso esterno in associazione mafiosa e P.V. è stato assolto dal reato di estorsione ascrittogli al capo E) della rubrica.

1.3.1) la posizione di G.C. e la decisione della Corte.

Quanto al G.C., con un primo motivo di impugnazione il Procuratore generale deduce inosservanza ed erronea applicazione della legge, in relazione all’art. 530 c.p.p..

Rileva, in proposito, il ricorrente P.M. che la Corte d’Appello ha assolto G.C. dal reato di concorso esterno ascrittogli al capo A), senza avere precisato e pronunciato la relativa declaratoria di assoluzione, ed ha condannato P.V. alla pena di anni cinque di reclusione, confermando nel resto l’impugnata sentenza e, quindi, anche il precedente verdetto assolutorio emesso dal Giudice di prime cure nei confronti del medesimo in ordine al delitto di estorsione in pregiudizio del So.Ca. di cui al capo E).

Il ricorso censura il fatto che la Corte, nel deliberare la sentenza di assoluzione di G.C., a norma dell’art. 530 c.p.p., avrebbe dovuto precisare in base a quale formula veniva fondato il giudizio assolutorio e cioè se il fatto non sussiste, se l’imputato non lo ha commesso ovvero se il fatto non costituisce reato e ciò nel presupposto, non espresso, che la valutazione della Corte consolidasse il risultato di un vaglio critico che avesse dimostrato la completa innocenza dell’incolpato.

Lamenta ancora il ricorrente come non risulti neppure chiaro se il giudice, invece, nel caso di una serie incompleta di prove a carico del G.C., abbia pronunciato sentenza di assoluzione perchè mancava, ovvero fosse insufficiente o contraddittoria la prova che l’imputato avesse commesso il fatto, ovvero che il fatto costituisse reato.

Il motivo, come oggi argomentato dal Procuratore generale in udienza, che ne ha chiesto la declaratoria di inammissibilità, è inaccoglibile per difetto di interesse della parte proponente ed avuto riguardo al tenore della "pars motiva" della sentenza (pagg.

248/274), pur in assenza della indicazione della causa nel dispositivo, e tenuto conto che tale inadempienza non costituiva in alcun modo il lamentato limite (formale o sostanziale) all’esercizio dei poteri-doveri della parte pubblica, a fronte di un inesistente contrasto tra dispositivo e motivazione, e di una causale del proscioglimento inequivocamente chiarita nella motivazione.

La formula – in concreto utilizzata – "assolve G.C. dal reato ascrittogli al capo a)", pur formalmente incompleta, non abbisognava infatti di ulteriori precisazioni, considerato che l’estensore della decisione distrettuale si è infatti – sul punto – così inequivocamente espresso: "In conclusione, quindi, il compendio probatorio complessivamente acquisito, a parere di questa Corte, è insufficiente a provare, al di là di ogni ragionevole dubbio, la colpevolezza dell’imputato per l’assenza di adeguato riscontro alle dichiarazioni di Di.Ga.Ma. e, più in generale, in ordine al contributo fornito dal G.C. in favore dell’associazione mafiosa. Pertanto, in accoglimento del gravame, e restando quindi assorbite le altre questioni sollevate dall’appellante non espressamente considerate sopra, G.C. deve essere assolto dal reato ascrittogli ai sensi dell’art. 530 c.p.p., comma 2".

Il motivo va quindi dichiarato inammissibile.

Con un secondo motivo si lamenta, sempre per il G.C., contradditorietà e manifesta illogicità della motivazione.

L’assunto del ricorrente è che vi sia stata decisione di assoluzione, nonostante il fatto che il giudice di prime cure, avesse acclarato la riconducibilità della società al G.C. ed ai suoi figli, nonchè l’esistenza di un rapporto preferenziale e di cointeressenza tra tale società e la famiglia mafiosa di Campobello di Licata, che aveva fatto convergere sul G.C. il proprio apporto elettorale.

L’ A.I., secondo il Procuratore generale, non si limitava a percepire soldi dalle imprese a titolo di "messa a posto" in misura percentuale al volume di affari, ma tutelava gli interessi della società Anaconda, esercitando pressioni nei confronti dei terzi, affinchè la società avesse l’opportunità di assumere appalti, per lavori per i quali non aveva requisiti tecnici ed imprenditoriali, ed esercitando la scelta di alcuni fornitori, soprattutto quelli che monopolizzavano nella zona la fornitura del calcestruzzo ed il mercato degli inerti.

Altrettanto monca sarebbe la valutazione della Corte circa la non riconducibilità a G.C. della società Anaconda dopo le formali dismissioni delle quote.

L’impugnazione della parte pubblica prosegue, sempre su tale registro critico, segnalando che il G.C., nella qualità di concorrente esterno della famiglia mafiosa di Campobello di Licata, avrebbe posto in essere un contributo obiettivamente adeguato e soggettivamente adatto ad irrobustire l’organizzazione mafiosa nel settore di pertinenza della associazione, relativo ad illecita infiltrazione nei pubblici appalti, nell’assegnazione delle aree alle cooperative, allertate a tal riguardo dal correo Bu.Gi. e nell’assegnazione dei lavori esecutivi delle opere da realizzare alla società Anaconda Costruzioni, cui lo stesso G.C. era interessato insieme al figlio G.S.V. e al genero Bu.Gi., entrambi condannati sia per il reato fine che per i reati mezzo.

Per l’impugnante risulterebbe, in particolare, comprovato l’attivo, consapevole e ripetuto comportamento, posto in essere dal G.C., causalmente idoneo a fornire un contributo alla vita dell’organizzazione mafiosa, avuto riguardo ad una serie di circostanze che non sarebbero state esattamente valutate dai giudici di merito ed in particolare "nel sostegno elettorale", ed in una serie di "contropartite" per i mafiosi che avevano dato l’appoggio elettorale.

In tale ambito la Corte di appello non avrebbe colto l’esatto profilo dell’interesse del G.C., che non era soltanto quello di favorire i suoi familiari, ma anche quello di favorire Cosa nostra, in tutte le influenze che avrebbe avuto la famiglia mafiosa di Campobello, capeggiata dall’ A., nella realizzazione delle nuove costruzioni.

La parte pubblica ricorrente lamenta ancora che la corte distrettuale, pur confermando che il G.C. era al vertice di un centro di potere affaristico-imprenditoriale, sfruttando la posizione di preminenza derivante dalla carica di Sindaco, ha ritenuto non riscontrato l’intervento del G.C. per favorire imprese riconducibili ad esponenti mafiosi, sia pure eventualmente, attraverso la cooperazione con le imprese di famiglia del G.C..

Conclusione questa che non avrebbe esattamente percepito il fatto che la mafia di Campobello, per il tramite di A.I., aveva la supervisione ed il controllo capillare, non soltanto di tangenti e dei pagamenti estorsivi che entravano nelle casse dell’organizzazione, ma anche di tutti i fornitori degli imprenditori edili e soprattutto della fornitura del calcestruzzo.

Ciò avrebbe comportato l’aumento del potere economico e la crescita imprenditoriale del G.C. e delle altre imprese del luogo in cui ruotavano personaggi e intranei mafiosi; inoltre il G.C., ricevendo l’apporto elettorale dell’ A., ben conoscendo la sua caratura criminale, non disponeva di un semplice sostenitore appartenente alla mafia, magari conosciuto incidentalmente, bensì della figura apicale della consorteria mafiosa di Campobello.

Da ciò l’assunto conclusivo del ricorso secondo cui l’imputato ebbe ad incidere effettivamente e significativamente sulla conservazione e sul rafforzamento delle capacità operative dell’intera organizzazione criminale.

Il gravame della parte pubblica, come evidenziato dal Procuratore generale di udienza, il quale, come già detto, ha concluso per la sua inammissibilità, in alcune parti è infondato ed in altre non supera la soglia critica dell’ammissibilità, considerato che eccede dalla competenza della Corte di cassazione ogni potere di revisione degli elementi materiali e fattuali, trattandosi di accertamenti rientranti nel compito esclusivo del giudice di merito.

Ne consegue che il controllo sulla motivazione da parte della Suprema Corte è circoscritto, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), alla verifica di tre requisiti, la cui esistenza rende la decisione intoccabile in sede di legittimità: l’esposizione delle ragioni giuridicamente apprezzabili che l’hanno determinata;

l’assenza di manifesta illogicità dell’esposizione, ossia la coerenza delle argomentazioni rispetto al fine che l’hanno determinate; il mancato affioramento di alcuni dei predetti vizi dall’atto impugnato (Cass. pen. sez. 6^,, 5334/1992 Rv.

194203,Verdelli).

In altre parole, considerato che il controllo di legittimità sulla motivazione è diretto ad accertare se la base della pronuncia del giudice di merito, esista un serio e concreto apprezzamento degli elementi di prova e se la motivazione non sia puramente assertiva o palesemente affetta da vizi logici, restano fuori da tale controllo le eventuali isolate incongruenze logiche o disarmonie nella struttura delle argomentazioni, a meno che esse non si propongano con manifesta evidenza, attengano a punti e snodi essenziali della decisione, ed appaiano così macroscopiche ed assolutamente incompatibili con altri passaggi argomentativi, risultanti dal testo del provvedimento impugnato.

Da ciò promana e trae fondamento la "regola di chiusura del sistema" che esclude l’ingresso in sede di legittimità a quei motivi di ricorso che trovino fondamento su una diversa prospettazione dei fatti, oppure su altre spiegazioni formulate, per quanto plausibili o logicamente sostenibili (Cass. pen. sez. 6^, 1762/1998 Rv. 210923;

502/1992 Rv. 191249, N. 3047 del 1992 Rv. 191772, N. 93919 del 1992 Rv. 192758, N. 4008 del 1993 Rv. 193928, N. 1434 del 1996 Rv.

205656).

Orbene il tenore dell’impugnazione non rispetta i limiti tipici del gravame utilizzato, considerato che i pretesi vizi della motivazione, sotto i dedotti profili di contraddittorietà e manifesta illogicità, non appaiono sussistenti e comunque, le evidenziate incongruenze ed insufficienze sono tutte superabili in una visione complessiva dell’intera struttura motivazionale, la quale ha offerto, nella specie, congrua giustificazione dell’inadeguatezza dei dati processuali acquisiti per una pronuncia di responsabilità del G. C..

La Corte di appello, infatti, a seguito di un articolato e logico giudizio, incensurabile per la sua coerenza, ha correttamente affermato che non vi sono elementi probatori che consentano di ricondurre anche all’operato di G.C. il coinvolgimento della Anaconda Costruzioni nel sistema di ripartizione dei lavori edili, gestito da A.I. in qualità di responsabile della "famiglia" mafiosa di Campobello di Licata e, quindi, di ritenere che il detto imputato abbia contribuito al rafforzamento del detto sodalizio mafioso sul territorio.

In definitiva, quindi, il compendio probatorio è stato ritenuto insufficiente a provare, al di là di ogni ragionevole dubbio, la colpevolezza dell’imputato e tale conclusione è stata sostenuta – come già detto – per l’assenza di adeguato riscontro alle dichiarazioni di Di.Ga.Ma. e, più in generale, in ordine al contributo fornito dal G.C. in favore dell’associazione mafiosa: da ciò "l’assoluzione dal reato ascrittogli ai sensi dell’art. 530 c.p.p., comma 2" (pag. 275 sentenza impugnata).

Da ultimo, quanto al dedotto difetto di motivazione (da mancate risposte a rilievi specifici) è pacifico che il giudice di merito non ha affatto l’obbligo di soffermarsi a dare conto di ogni singolo elemento indiziario o probatorio (favorevole o contrario) acquisito in atti, potendo egli invece limitarsi a porre in luce quelli che, in base al giudizio effettuato, rappresentino elementi essenziali ai fini del decidere, purchè tale valutazione risulti logicamente coerente.

Sotto tale profilo, dunque, la censura di non aver preso in esame tutti i singoli elementi risultanti in atti, costituisce una censura del merito della decisione, in quanto tende, implicitamente, a far valere una differente interpretazione del quadro indiziario, sulla base di una diversa valorizzazione di alcuni elementi rispetto ad altri.

Risulta, invero, che i giudici di merito e con accettabili argomentazioni giustificative: hanno ritualmente assunto e correttamente valutato le prove; hanno controllato la loro attendibilità e congruenza; hanno individuato le fonti del loro convincimento, scegliendole, ragionevolmente, tra le complessive risultanze processuali; hanno conclusivamente indicato e scelto tra esse fonti, nell’ambito dei loro poteri-doveri di discrezionalità (ribaditi dall’immutato indirizzo interpretativo della Corte suprema), quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, dando così accettabile e condivisibile prevalenza ai mezzi di prova che sono stati acquisiti nei limiti tracciati dalle norme sulle prove legali.

Il risultato è stato, come peraltro avvenuto per la disamina di tutte le posizioni degli altri ricorrenti diversi dalla parte pubblica, quello di una motivazione nella quale i giudici di merito hanno fornito l’esigibile giustificazione razionale delle conclusioni assunte, nel rispetto delle regole che nel nostro sistema disciplinano la valutazione della prova, con conseguente rigetto delle doglianze ammissibili sul punto.

1.3.2) la posizione di P.V..

Con un terzo motivo che concerne il solo P. il Procuratore generale lamenta mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione nell’assoluzione dall’imputazione di estorsione aggravata in danno di So.Ca..

Osserva il Procuratore generale che la Corte di appello "con stringata ed ingiustificata motivazione" ha confermato il giudizio assolutorio del P. in ordine al reato di estorsione contestatogli, omettendo sistematicamente di rispondere alle censure mosse da P.M. appellante nei motivi di gravame.

In sostanza ed in estrema sintesi, il ricorrente rileva che la corte distrettuale avrebbe errato nella valutazione degli elementi di prova, ritenendo "non-dimostrata" la partecipazione di P. a questo episodio delittuoso, a fronte di dati favorevoli assolutamente generici e non univoci, valutata la conversazione intercettata 8 novembre 2003, alla identificazione del " V." in P. V..

L’errore del giudice dell’assoluzione sarebbe consistito nella omessa valutazione complessiva ed unitaria delle fonti di prova a carico dell’imputato, anche in relazione al ruolo di esattore in favore di Fa. ed ai rapporti dello stesso P. con i protagonisti della conversazione intercettata.

La Corte avrebbe quindi errato nella valutazione degli elementi di prova; ed infatti, ritenuta provata, come affermato in sentenza, la fattispecie di reato di estorsione aggravata subita da So.

C., la sentenza impugnata, senza nessun vaglio critico sugli argomenti posti a fondamento dell’appello del P.M., avrebbe ribadito che non risulta dimostrata la partecipazione di P. in questo episodio delittuoso.

Infine, sul punto, il ricorso propone una serie molto articolata di dati che, secondo l’impugnazione, diversamente apprezzati, potrebbero consentire una diversa conclusione in termini di colpevolezza.

Nello specifico si evidenzia che il latitante Fa., nella esigenza di trovare nuovi punti di riferimento sul territorio, avrebbe utilizzato il P. per agganciare il Bu. e, tramite questi, l’ A..

In tale metodica operativa sarebbe emerso – per il ricorrente – il ruolo svolto dal P. nella trasmissione dei "pizzini" e nell’esazione delle tangenti estorsive per conto del capo-mafia Fa.Gi., e di ciò vi sarebbe espressione nell’episodio estorsivo in danno dell’imprenditore So.Ca..

Anche questo motivo, per come prospettato, per alcuni profili è da rigettarsi, in relazione alla ineccepibile risposta della gravata sentenza e, per altri, non supera la soglia della ammissibilità, tendendo esso, nel suo argomentare, a proporre una "ricostruzione- valutazione dei fatti", diversa da quella fatta propria dai giudici di merito con un ragionamento logico e conseguente espresso in sentenza, il quale, per la sua coerenza e aderenza alle emergenze processuali, si sottrae a critiche in questa sede.

In definitiva, lo si ripete, ed il discorso vale anche per tutti gli altri ricorrenti, nell’argomentare dei giudici di merito, non è ravvisabile alcun vizio logico di natura testuale idoneo a produrre contraddittorietà per contrasto tra le premesse (due diverse ricostruzioni del fatto o l’adozione di regole d’inferenza confliggenti), oppure tra le premesse e la conclusione; nè, tanto meno, è ragionevolmente sostenibile una distorsione di dati processuali e documentali, considerato che nessun travisamento della prova appare realizzato e che la diversa tesi, fortemente propugnata nel ricorso, si risolve nella prospettazione di una "mirata rilettura" di quegli elementi di fatto che sono stati posti a fondamento della decisione, nonchè nella autonoma assunzione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, da preferirsi a quelli adottati dal giudice del merito, perchè delineati come maggiormente plausibili, oppure perchè assertivamente dotati di una migliore capacità esplicativa, nel contesto in cui la condotta si è in concreto esplicata.

Da ciò il rigetto della corrispondente doglianza, attesa anche l’assenza di violazione delle regole di giudizio che informano il senso ed il peso della valutazione delle prove.

Per tali ragioni il ricorso del Procuratore generale nei confronti di G.C. e P. vanno rigettati.

2.) A.I. (capi A e C).

Con sentenza in data 30 novembre 2007 il Giudice dell’udienza Preliminare del Tribunale di Palermo, all’esito del processo celebrato con il rito abbreviato, ha dichiarato A.I. colpevole dei reati di partecipazione all’associazione mafiosa "cosa nostra" commesso in Campobello di Licata fino al 19 agosto 2005 (capo A) e di estorsione aggravata continuata in danno di V. V., commesso in Campobello di Licata fino al luglio del 2004 (capo C) e, unificati i reati sotto il vincolo della continuazione e tenuto conto della diminuzione per il rito, lo ha condannato alla pena di anni dieci di reclusione con le pene accessorie dell’interdizione in perpetuo dai pubblici.

La Corte di appello ha confermato tale affermazione di colpevolezza e la condanna alla pena di anni dieci di reclusione.

2.1) i motivi di ricorso per cassazione dell’ A. e la decisione della Corte di legittimità.

L’impugnazione dell’ A. è articolata in sette motivi di ricorso che sostanzialmente riprendono e sviluppano la gran parte delle censure formulate nei due atti di appello, segnalando, talora, omesse risposte, talaltra; illogicità della motivazione.

Con un primo motivo di impugnazione viene dedotta inosservanza ed erronea applicazione della legge, nonchè vizio di motivazione sotto il profilo dell’affermazione di responsabilità per il reato associativo. ottenuta sulla base di una suggestiva ricostruzione di frammenti di conversazioni, alle quali sarebbe stato attribuito un significato non oggettivo, ma frutto di pregiudizi e sospetti.

In particolare si lamenta che la Corte di appello:

a) abbia dato certezza ad elementi e circostanze dubbie, nonostante le precise osservazioni critiche degli atti di appello;

b) non abbia vagliato con rigore l’attendibilità intrinseca ed estrinseca nonchè le dichiarazioni dei collaboratori I., Mi., Di.Ga. senza tener conto della loro risalenza ( I.) e successione nel tempo, con erronea applicazione delle regole sulla attendibilità frazionata;

c) abbia enfatizzato le conversazioni intercettate in soli quattordici giorni ricostruendo un loro tenore certo a fronte di incertezze di significato dovute anche ad utilizzo di linguaggio criptico;

d) abbia identificato gli autori delle conversazioni collegando nomi di battesimo a cognomi e ritenendo sempre identica ed illecita la tematica del conversare;

e) abbia omesso di considerare la storia di vita dell’Accascio;

f) abbia scorrettamente dedotto la "direzione della cosca mafiosa di Campobello di Licata da parte dell’ A." in relazione alla condotta estorsiva posta in essere da S.G.;

g) abbia del pari male interpretato la vicenda della parcella del geologo ing. ma., leggendo in modo "contra reum" la condotta di mediazione del ricorrente;

h) abbia contro ogni logica ritenuto che la "società Anaconda di G.C. e Bu." fosse una società assoggetta all’ A.;

i) abbia costruito un’ipotesi di reità del ricorrente nella vicenda della costruzione degli alloggi di edilizia economia e popolare della "Cooperativa Polis" in contrada Milici di Campobello di Licata, senza considerare che i colloqui intercettati sono "pluritematici" e che la posizione dell’ A. è quella di colui che si limita ad annuire;

l) abbia ripetuto lo stesso errore di valutazione per la vicenda della costruzione degli alloggi di edilizia economia e popolare della "Cooperativa S. Antonio" e delle altre cooperative di Canicattì in contrada Gessi di Campobello di Licata; per il controllo del settore del calcestruzzo in Campobello di Licata;

m) abbia "fantasiosamente" e "arditamente" affermato un ruolo del ricorrente di assistenza economica e giudiziaria degli interessi economici dei familiari di Fa.Gi., attribuendo ad A. l’identità dello zio indicato nella conversazione intercettata.

Il motivo, pur nella sua ampia articolazione, è inaccoglibile perchè, in alcuni punti, privo di fondamento ed in altri inammissibile, avuto riguardo alla ricostruzione dei fatti ed alle corrispondenti valutazioni realizzate dai giudici di merito – nella specie – con una doppia conforme conclusione di responsabilità ed una corrispondente ricostruzione unitaria dei fatti penalmente rilevanti.

Richiamato preliminarmente ed in linea di principio quanto da ultimo detto per il ricorso – rigettato – del Procuratore generale (cfr.1.3.2, P., ultima parte), va infatti precisato che, nella verifica della consistenza dei rilievi mossi alla sentenza della Corte di secondo grado, tale decisione non può essere valutata isolatamente, ma deve essere esaminata in stretta ed essenziale correlazione con la sentenza di primo grado, dal momento che entrambe risultano sviluppate e condotte secondo linee logiche e giuridiche sostanzialmente concordanti e con uniformi protocolli assiologici.

In definitiva nella specie, ci si trova di fronte a due sentenze, di primo e secondo grado, che concordano nell’analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento delle rispettive decisioni, con una struttura motivazionale della sentenza di appello che si salda perfettamente con quella precedente sì da costituire un unico complessivo corpo argomentativo, privo di lacune, considerato che la sentenza impugnata ha dato comunque congrua e ragionevole giustificazione del finale giudizio di colpevolezza.

In tale evenienza, l’esito del giudizio di responsabilità non può essere invalidato dalle prospettazioni alternative del ricorrente, le quali si risolvono nel delineare una "mirata riponderazione" di quegli elementi di fatto che sono stati posti a fondamento della decisione, nonchè nella autonoma assunzione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti ricostruiti, da preferirsi a quelli adottati dal giudice del merito, in quanto illustrati come maggiormente plausibili, oppure perchè assertivamente dotati di una migliore capacità esplicativa, nel contesto in cui la condotta si è in concreto esplicata.

Invero, non si deve dimenticare che "narrare i fatti è anche evidenziare e proporre le loro implicite connessioni funzionali":

già la successione degli eventi, quale diffusamente e linearmente proposta nella esposizione della corte distrettuale, corrisponde – nella fattispecie – ad una scelta, rispetto a quello che si ritiene essere il senso desumibile dalla complessiva scansione delle condotte degli imputati e delle loro interrelazioni.

E’ noto, nelle scienze della comunicazione, che il linguaggio dei fatti può avere una sua implicita molteplicità di registri e la "scelta dell’interpretazione ragionevole" compete al solo giudice di merito e che, quando essa risulti condotta in modo coerente, con giustificazioni adeguate, prive di invalidità od aporie logiche, senza petizioni di principio o tautologie, si sottrae in modo automatico ad ogni possibilità di controllo in sede di giudizio di legittimità.

Sulla base di tali canoni valutativi vanno ora esaminate le doglianze dell’ A., inammissibili o prive di fondamento.

Va subito premesso, trattandosi di tematica comune a più ricorrenti ( A., Bu., G.S.V., P.), che, contrariamente all’assunto delle difese degli imputati, i giudici di merito hanno sottoposto a rigoroso vaglio critico le dichiarazioni di tutti i collaboratori di giustizia, valutandone "l’attendibilità intrinseca" (personalità, storia di vita, genesi della decisione di collaborazione, condotta processuale) e su di essa misurando e tarando "l’attendibilità estrinseca" dei dichiaranti stessi, in funzione dei riscontri tra le medesime affermazioni e le conferme, in sede processuale e negli esiti delle attività di Polizia giudiziaria, in modo particolare delle intercettazioni.

In tale ambito, i giudici di merito risultano aver del pari correttamente soppesato e risolto le tematiche della ed "attendibilità frazionata", dando risposte puntuali e ragionevoli alle doglianze dell’appello, con ciò adeguatamente argomentando sulle osservazioni dianzi elencate sub b) (attendibilità intrinseca ed estrinseca dei collaboratori I., Mi., Di.Ga. senza tener conto della loro risalenza, per l’ I. e successione nel tempo, con erronea applicazione delle regole sulla attendibilità frazionata) senza errori metodologici o illogicità.

Quanto alle altre critiche: sub a) (aver dato certezza ad elementi e circostanze dubbie); sub c) (aver enfatizzato le conversazioni intercettate ricostruendo un loro tenore certo a fronte di incertezze di significato); sub d) (identificazione degli autori delle conversazioni collegando nomi di battesimo a cognomi e ritenendo sempre identica ed illecita la tematica del conversare), per ognuna di esse esiste un’adeguata, coerente ed accettabile risposta non superata dalle letture alternative proposte in ricorso.

Va infatti sottolineato che la decisione della corte distrettuale, dopo aver individuato i 15 profili di doglianza in via principale ed i 6 in via subordinata dell’atto di appello, ha per ognuno di essi indicato un’esaustiva e condivisibile risposta critica senza omissioni rilevanti e non ovviabili dall’esame complessivo della giustificazione offerta.

In ogni caso, tali prospettazioni critiche (in particolare quelle sub a, sub c, e sub d) si risolvono in una non consentita richiesta di rivalutazione dei dati probatori, prospettata – talora – anche in modo generico e disancorato dalla motivazione del provvedimento impugnato il quale, minutamente articolato con simmetrica valutazione- risposta alle critiche d’appello, risulta immune da illogicità di sorta, ed appare altresì sicuramente contenuto entro i margini accettabili della plausibile opinabilità di apprezzamento e valutazione (v. per tutte: Cass. pen sez. 1^, 46997/2007; Cass., Sez. 1^, 5 maggio 1967, n. 624, Maruzzella, r.v. 105775; Cass., Sez. 4^, 2 dicembre 2003, n. 4842, Elia, rv 229369).

In definitiva, i rilievi, le deduzioni e le doglianze espressi, benchè formulati abilmente sotto la prospettazione di vizi della motivazione, si sviluppano tutti negli ambiti delle censure di merito, sicchè, integrando motivi diversi da quelli consentiti dalla legge con il ricorso per cassazione, vanno dichiarati inammissibili a sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 3.

In particolare quanto alla interpretazione (contestata in ricorso) delle conversazioni, va subito sul punto ribadito – in relazione a consolidata e conforme giurisprudenza – che i dati, raccolti nel corso delle intercettazioni, ben possono costituire fonte diretta di prova della colpevolezza dell’imputato e senza necessità di riscontri in altri elementi esterni, qualora siano ad un tempo:

a) gravi, cioè consistenti e resistenti alle obiezioni e quindi attendibili e convincenti;

b) precisi e non equivoci, cioè non generici e non suscettibili di diversa interpretazione altrettanto verosimile;

c) concordanti, cioè non contrastanti tra loro e, più ancora, con altri dati o elementi certi (Cass. pen. sez. 4^, 22391/2003, Rv.224962, Qehalliu Luan; Massime precedenti Conformi: N. 1035 del 1991 Rv. 189043).

Ne consegue che il giudice di merito, in tema di valutazione della prova, con riferimento ai risultati delle intercettazioni di comunicazioni, deve accertare che il significato delle conversazioni intercettate sia connotato dai caratteri di chiarezza, decifrabilità dei significati e assenza di ambiguità, di modo che la ricostruzione del significato delle conversazioni non lasci margini di dubbio sul significato complessivo della conversazione.

Diversamente, qualora la conversazione captata non sia connotata da tali caratteristiche, a causa di una varietà polimorfa di ragioni (quali l’incompletezza dei colloqui registrati e la cattiva qualità dell’intercettazione, oppure per l’oscurità sostanziale del linguaggio usato dagli interlocutori, o la non sicura decifrabilità del contenuto od altre ragioni), ciò non declassa la prova ad indizio, in quanto – com’è stato perspicuamente rilevato – è il risultato della prova che diviene "meno certo" con la conseguente necessità di elementi di conferma che possano eliminare i ragionevoli dubbi esistenti (Cass. pen. sez. 6^ 29350/2006 Rv.

235088, Massime precedenti Conformi: N. 22391 del 2003 Rv. 224962, N. 21726 del 2004 Rv. 228573).

Infine va rammentato che la valutazione e la conseguente analisi interpretativa del linguaggio e del contenuto delle conversazioni integrano una tipica "questione di fatto", rimessa alla valutazione del giudice di merito, la quale si sottrae al sindacato di legittimità quando essa risulti motivata in conformità ai criteri della logica e delle massime di esperienza (Cass. Penale sez. sez. 2^, 41044/2005, Rv. 232697 Guttadauro; Cass. pen., sez. 5^, 3 dicembre 1997, Viscovo, RV 209566; conforme: Cass. pen., sez. 6^, 12 dicembre 1995, Falsone, RV 205661).

Tale complessa operazione logico-ricostruttiva risulta, nella fattispecie, condotta con attenzione e rigore dai giudici di merito, i quali hanno sul punto espressamente motivato, tenuto conto della variabilità dei possibili "contenuti comuni dello scambio informativo", i quali sono stati decrittati in funzione dei soggetti parlanti, dei loro contingenti e comuni interessi (leciti od illeciti) ed avuto costante e specifico riguardo allo strumento usato, all’ambiente sociale-culturale-lavorativo, o criminale di riferimento, alla frequenza dei contatti stessi, in relazione all’argomento trattato, e, a tali riguardi, alla plausibile condivisibilità o meno delle giustificazioni sottese o difensivamente prospettate.

Da ciò l’inaccoglibilità delle formulate doglianze.

Stessa valutazione di inammissibilità colpisce le altre critiche del primo motivo dell’ A. e concernenti in particolare i punti sub e) (omessa valutazione della storia di vita dell’ A.); sub f) (erronea deduzione di "direzione della cosca mafiosa di Campobello di Licata da parte dell’ A." in relazione alla condotta estorsiva posta in essere da S.G.); sub g) (errata lettura della vicenda della parcella del geologo ing. ma.); sub h) (infondata asserzione che la "società Anaconda di G.C. e Bu." fosse una società assoggetta all’ A.); sub i) (errata affermazione di colpevolezza nella vicenda della costruzione degli alloggi di edilizia economia e popolare della "Cooperativa Polis" in contrada Milici di Campobello di Licata, considerato che i colloqui intercettati erano "pluritematici" e che la posizione dell’ A. fu quella di colui che si limitava ad annuire); sub l) (ripetizione dell’errore di valutazione del primo giudice per la vicenda della costruzione degli alloggi di edilizia economia e popolare della "Cooperativa S. Antonio" e delle altre cooperative di Canicattì in contrada Gessi di Campobello di Licata, nonchè per il controllo del settore del calcestruzzo in Campobello di Licata)";

sub m) (erronea prospettazione di un ruolo del ricorrente di assistenza economica e giudiziaria degli interessi economici dei familiari di Fa.Gi., attribuendo ad A. l’identità dello zio indicato nella conversazione intercettata).

I giudici di merito, con sostanziale unitario criterio valutativo e con attenta ponderazione delle notazioni di criticità evidenziate nell’appello, hanno ripercorso, in decine di pagine di scorrevole e logica motivazione (per l’ A., da pag. 87 a pag. 145), le condotte oggetto di contestazione, indicando di volta in volta le fonti e gli elementi di prova valorizzati e la loro interpretazione nei precisi contesti in cui i fatti si sono maturati e verificati.

A fronte di tale complesso di giustificazioni, il ricorso dell’ A. (come pure quello degli altri imputati oggi ricorrenti), in assenza di "errores in procedendo" o provati travisamenti, non ha potuto altro che esprimere una serie di antipodiche considerazioni critiche, le quali, per quanto ragionate, tendono a sostituire alla valutazione dei giudici di merito un diverso e non consentito apprezzamento dei fatti.

Nel momento del controllo di legittimità, infatti, la Corte di cassazione non deve stabilire se la decisione di merito proponga effettivamente la migliore possibile ricostruzione dei fatti nè deve condividerne la giustificazione, ma deve limitarsi a verificare se questa giustificazione sia compatibile con il senso comune e con "i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento", secondo una formula giurisprudenziale ricorrente (cfr. in termini: Cass. Pen. sez. 5^, sent.39843 del 9-30 novembre 2007, Cass., sez. 5^, 30 novembre 1999, r.v. 215745, Cass., sez. 2^, 21 dicembre 1993, r.v.

196955).

Con un secondo motivo si lamenta vizio di motivazione e violazione di legge con riferimento all’art. 629 c.p., commi 1 e 2 e art. 628 c.p., comma 3, nn. 1 e 3 e D.L. n. 152 del 1991, art. 7, considerata la testimonianza del V.V. (sulla vicende della "cooperativa Tre Torri"), persona ritenuta dalla corte distrettuale reticente ed inaffidabile con una motivazione priva di logicità (49) e senza l’indicazione degli altri lavori in territorio di Agrigento e Porto Empedocle, contestata al capo sub C) 1^ parte.

Il motivo non è fondato.

I giudici di merito, come peraltro avvenuto per le fonti di prova offerte dai collaboratori di giustizia, hanno verificato il dictum del V.V., la sua personalità, le rilevate sue titubanze ed hanno utilizzato criticamente le sue dichiarazioni, pur correlandole alla sua difficile posizione nell’economia del crimine, ma individuandone i corrispondenti ed indiscutibili riscontri negli altri dati probatori.

La gravata sentenza infatti, prendendo le mosse dalle risultanze sugli atti di intimidazione subiti da V.V. in data 4, 10 e 11 febbraio 2003 e sulla telefonata ricevuta da Sa.

V., un dipendente del V.V., in occasione della quale, secondo quanto da quest’ultimo riferito al proprio datore di lavoro, l’interlocutore anonimo ebbe a pronunziare la frase: "non lo capisci che ve ne dovete andare?" valorizza, con opportuno incensurabile "assemblaggio", una serie di conversazioni registrate, partendo dalla conversazione 9 marzo 2003, nel corso della quale V.V. riferisce al figlio ca. di avere contattato tale " L.", poi identificato in B.L., per chiedere chiarimenti sulle intimidazioni ricevute, non comprendendone la ragione ("..mi sembra grave e strana….voglio capire il perchè….dove ho sbagliato…") stante il fatto che si era già "messo in regola" con il pagamento del "pizzo".

A tali indiscutibili premesse fattuali la Corte di appello ricollega poi, in un mosaico ricostruttivo, le successive provate circostanze e i dati, offerti in ordine successivo dalla conversazione registrata 7 aprile 2003, e dalle successive in data 8 aprile 2003, 13 aprile 2003, 20 aprile 2003, 27 maggio 2003, 28 giugno 2003, ancora 28 giugno 2003, 30 giugno 2003 e 3 luglio 2003.

Da tale complesso di elementi, i giudici di merito, in modo corretto e mediante una serie di argomentazioni a scalare, prive di illogicità ed incoerenza, hanno concluso per la riconducibilità della società Anaconda Costruzioni ai G. ed al Bu., anche negli anni successivi al 1997 quando i predetti, a seguito della elezione a sindaco di Campobello di Licata di G.C., avevano dismesso formalmente la titolarità delle quote e le cariche sociali, e ciò in relazione alle dichiarazioni di G.S. V. in data 23 giugno 2003 e ad alcune conversazioni intercettate sulla utenza telefonica fissa della predetta società nel 2003, oltre che dalle dichiarazioni dei V..

Quanto alla cointeressenza tra la Anaconda Costruzioni s.r.l. e la SIR.TECH. di Si.Vi. essa è stata ragionevolmente desunta e adeguatamente giustificata dai giudici di merito, avuto riguardo ed utilizzando criticamente alcune precise intercettazioni di conversazioni del predetto Si.Vi. con G.S. V..

Le conclusioni in punto di responsabilità sono state infine completate a seguito della disamina e valutazione delle dichiarazioni del V.V. (il 23 ed il 27 giugno 2006) le quali hanno consentito la definitiva affermazione della sussistenza del delitto di estorsione, opera dell’ A. e dei suoi sodali, rafforzata anche dalle dichiarazioni del figlio del V.V., ca., nonchè dalle affermazioni di Pr.Lu. e di D.V. A., anche sull’importante incontro di Naro.

Per concludere, risulta che la corte distrettuale – avendo sempre fatto puntuale riferimento alle censure in appello – ha affermato la certa attribuibilità degli illeciti all’imputato, valorizzando i consistenti elementi di prova suindicati, che sono stati verificati e valutati nel loro insieme con rigore e correttezza, confluendo in una ricostruzione logica e unitaria del fatto e nell’affermazione di responsabilità.

Da ciò è derivata una motivazione rispondente ai canoni stabiliti dall’art. 192 c.p.p., ed il procedimento probatorio, che ha fondato l’affermazione di colpevolezza, resiste alle censure di merito, in parte inammissibili, formulate dal ricorrente il quale tende a proporre una non consentita lettura alternativa degli eventi.

Con un terzo motivo si prospetta violazione del D.L. n. 306 del 1992, art. 12 sexies con riferimento agli immobili, siti nel milanese ed intestati alla moglie e ai due figli del ricorrente, confiscati mediante una svalutazione dei dati documentali offerti sul rendiconto delle somme pagate quale prezzo dei corrispondenti acquisti immobiliari.

Il motivo, che è stato ulteriormente sviluppato con nuove argomentazioni depositate il 29 novembre 2010, non può essere accolto.

Vi è, infatti, in entrambe le decisioni una minuta valutazione contabile delle disponibilità e delle risorse degli interessati, rafforzata da precise considerazioni tecniche, tutte finalizzate ad evidenziare la palese sproporzione tra redditi leciti dell’imputato e concrete disponibilità economiche, pur valutando le altre fonti indicate dall’ A., ivi implicitamente compresa quella segnalata nell’ultimo atto difensivo, tenuto conto della non- decisività dell’importo che si pretende non valutato, nell’economia della complessiva valutazione del patrimonio dell’accusato.

Con un quarto motivo si evidenzia la mancata erronea esclusione dell’aggravante ex art. 416 bis c.p., comma 2 in ordine alla direzione ed organizzazione della famiglia mafiosa di Campobello di Licata.

Anche per questa vicenda, la conclusione sintonica dei due giudici di merito risulta essere il frutto di una progressiva, ragionata aggregazione di dati ed elementi di giudizio, in grado di evidenziare, nella loro interrelata complessità, la pacifica sussistenza della contestata qualità, la quale, per come giustificata, si sottrae a censure in sede di legittimità.

Il motivo va dichiarato quindi inammissibile.

Con un quinto motivo si sostiene l’assenza dell’aggravante dell’appartenenza ad una associazione armata e dell’aver ottenuto il controllo di attività economiche.

Il tema è ampiamente esaminato dalla Corte di appello in risposta ed in relazione al secondo rilievo formulato in via subordinata dai difensori in appello.

I giudici di merito, infatti, richiamate le qualità intrinseche dell’associazione mafiosa "cosa nostra" ne hanno dedotto, con logica consequenzialità e con ricorso ad usuali letture della realtà, avuto riguardo a massime di comune esperienza ed in relazione al "l’id quod plerumque accidit", sia il profilo della dotazione armata, sia quello del reimpiego dei capitali illeciti ed il controllo, nella specie documentato, di attività economiche.

In definitiva, la dimostrazione dell’affiliazione del gruppo locale a "Cosa nostra", soppesata unitariamente alle altre emergenze processuali, rende ragionevole conto della ritenuta sussistenza delle due aggravanti in relazione al provato specifico contesto dell’operare criminoso del sodalizio nel territorio di competenza.

La Corte ha più volte ribadito che non si espone a censura la sentenza del giudice di merito che ritenga la sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 416 bis c.p., comma 4, qualora quest’ultimo reato sia contestato agli appartenenti di una "famiglia" mafiosa aderente a "cosa nostra", in quanto tale affermazione trova fondamento nell’esperienza storica e giudiziaria le quali, entrambe, consentono di ritenere il carattere armato di detta organizzazione criminale (Cass. pen. sez. 6^, 5400/2000 Rv. 216149).

Il motivo va quindi rigettato.

Con un sesto motivo si illustra vizio di motivazione in ordine al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche e del loro giudizio di prevalenza sulle contestate aggravanti.

Con un settimo motivo si eccepisce erroneo conteggio della pena considerato che si è fatto riferimento alle pene edittali stabilite nella L. Cirielli atteso che la contestazione associativa si ferma al 19 agosto 2005, data antecedente all’entrata in vigore della norma erroneamente applicata.

Tali due ultimi motivi sono palesemente infondati e vanno dichiarati inammissibili.

La concedibilità di attenuanti generiche è infatti oggetto di un giudizio di fatto, e può essere esclusa dal Giudice con motivazione fondata sulle sole ragioni preponderanti della propria decisione, per cui la motivazione, purchè congrua e non contraddittoria – come nella specie – non può essere sindacata in Cassazione, neppure quando difetti di uno specifico apprezzamento per ciascuno dei pretesi fattori attenuanti indicati nell’interesse dell’imputato" (Cass. Penale sez. 4^, 12915/2006 Billeci).

Identica conclusione va formulata in tema di entità della sanzione inflitta.

Innanzitutto le critiche risultano inammissibili nella misura in cui involgono censure di mero fatto (Cass. Penale sez. 5^, 9074/1983, Siani; v. anche mass. 158977; 158834; 157655; 156961; 158285), e considerato che, in tema di determinazione della pena (anche nei conteggi intermedi di attenuazione od aumento), la valutazione del giudice di legittimità, in ordine all’efficacia ed alla completezza degli argomenti svolti in sede di merito, non può andare scissa dal risultato decisorio sotto il duplice profilo: della pena in concreto irrogata e del giudizio globalmente espresso, come manifestazione del convincimento del giudice di merito, nella specie formulato senza vizi di mancanza, contraddittorietà o manifesta logicità della giustificazione sanzionatoria in concreto proposta.

In secondo luogo, nella specie, la corte distrettuale ha chiarito -in termini non modificabili per effetto delle critiche del ricorso – la correttezza nella determinazione finale ed intermedia della pena, rilevando che il primo giudice, nel dichiarare espressamente applicabile la disciplina sanzionatoria più favorevole antecedente alla novella legislativa di cui alla L. 5 dicembre 2005, n. 251, ha determinato la sanzione a carico dell’ A. per il reato associativo nella misura di anni tredici e mesi quattro di reclusione (v. pag. 866 della sentenza impugnata una pena quindi ben entro i limiti legali, ed in misura pressochè media rispetto ai limiti edittali minimo e massimo.

La Corte di appello ha ritenuto tale entità di pena del tutto congrua in relazione al ruolo svolto dall’ A., aggiungendo, peraltro una "superflua nota comparativa" (censurata dal difensore) rispetto alla posizione del B.L., che, del resto non modifica la sostanza del giudizio sulla adeguatezza della sanzione.

La doglianza appena esaminata risulta pertanto pacificamente infondata.

In conclusione il ricorso dell’ A. va rigettato.

3.) B.L. (capi A, B e C).

Il G.U.P. ha dichiarato B.L. colpevole dei reati di partecipazione all’associazione mafiosa e la dichiarazione di responsabilità ha riguardato i reati ascritti sub capo A) B) e C), ritenuta sussistente la contestata recidiva e ritenuta la continuazione tra gli stessi, nonchè la continuazione con il reato già giudicato con sentenza emessa dalla Corte di Assise di Agrigento Sez. 1^ in data 28 marzo 1996, parzialmente riformata dalla sentenza della Corte di Assise di appello di Palermo del 15/10/97, irrevocabile il 19/0399, sotto il più grave delitto di cui al capo a), oggi giudicato.

La Corte di appello ha confermato la dichiarazione di colpevolezza e la condanna alla pena, già ridotta per la scelta del rito, di anni quattordici di reclusione, alla quale sono stati aggiunti anni quattro di reclusione quale aumento per la continuazione con il reato di cui alla sentenza emessa dalla Corte di Assise di Agrigento sez. 1^ del 28/3/96 parzialmente riformata dalla Corte di Assise di Appello di Palermo il 15/10/97, divenuta irrevocabile il 19/3/99, e, per l’effetto, ha dichiarato la pena finale complessiva pari ad anni diciotto di reclusione.

In sintesi, B.L. è stato quindi condannato per i reati di partecipazione all’associazione mafiosa "cosa nostra" con funzioni direttive della "famiglia" mafiosa di Ravanusa, commesso in Ravanusa dal 21 marzo 1997 alla data della sentenza (capo A), di estorsione aggravata commessa in danno del caseificio (OMISSIS) in Ravanusa dal 12 maggio 2001 sino alla data della sentenza (capo B) e di estorsione aggravata continuata in danno di V.V., commesso in Campobello di Licata fino al luglio del 2004 (capo C).

3.1.) i motivi di impugnazione di B.L..

Con un primo motivo di impugnazione, a cura dell’avv. Aricò, viene dedotta inosservanza ed erronea applicazione della legge, nonchè vizio di motivazione sotto il profilo della pronuncia di colpevolezza per le estorsioni in danno di V.V., senza tenere conto della provata inattendibilità del V.V., il quale, pur provvedendo al pagamento di tangenti ad altre persone, aveva al P.M. negato di aver mai sborsato denaro a tale titolo prima della telefonata anonima ricevuta.

Quanto all’estorsione in danno di Ca. e Mo. essa ha determinato un giudizio di penale responsabilità del ricorrente che non avrebbe tenuto conto delle doglianze difensive sul punto.

Stessa conclusione è assunta per l’affermazione di colpevolezza ex art. 416 bis c.p. e basata sulla interpretazione del tenore della conversazione intercettata.

Il motivo risulta infondato.

Invero, quanto alle estorsioni in danno del V.V., come già argomentato per la posizione dell’ A. (cfr. retro, sub 2), esiste in atti un’ineccepibile ed adeguata motivazione dei giudici di merito che, per come sviluppata e condotta, e per la sua aderenza alle emergenze processuali, si sottrae ad ogni censura in sede di legittimità, avendo essa fatto buon governo delle regole che presiedono alla valutazione delle prove ed alla attendibilità frazionata di una fonte probatoria.

Identiche conclusioni vanno assunte per le altre due pronunce di colpevolezza, sia sul punto della valutazione dei valori attribuibili al tenore delle conversazioni sia per la sussistenza ed attribuibilità al ricorrente della condotta estorsiva in danno di Ca. e Mo..

Conclusione questa che non può essere invalidata con la generica censura di una omessa considerazione delle criticità argomentative rilevate nell’atto di appello, considerato che, nella specie, la corte distrettuale (pagg. 146-182) dopo aver sintetizzato in otto punti le doglianze principali dell’appello ed in sette, le richieste subordinate, le ha singolarmente analizzate, dando ad ognuna una puntuale e corretta risposta, immune da vizi logici giuridici od incoerenze espositive, soprattutto dando spiegazione (quanto all’estorsione V.V.) delle iniziali reticenze dell’imprenditore e fornendo, per ogni questione decisiva agli effetti della colpevolezza dell’imputato, una indiscutibile e piena giustificazione incensurabile in sede di legittimità.

Il motivo va rigettato.

Con un secondo motivo si lamenta vizio di motivazione e violazione di legge con riferimento alle aggravanti ex art. 416 bis c.p., commi 4 e 6, ritenute sulla scorta di massime di comune esperienza ed in relazione al l"id quod plerumque accidit", senza il necessario ancoraggio ad elementi di prova ed alla concreta dimensione dell’attività economica contestata.

Anche per questo profilo, va richiamata la corretta motivazione dei giudici di merito e le sintoniche osservazioni formulate da questa Corte nell’esame della posizione dell’ A. (cfr. retro: sub 2.1) qui integralmente da riprendersi, con conseguente rigetto del ricorso.

4) Bo.Ma. (capi A e D).

Il G.U.P. ha dichiarato Bo.Ma. colpevole dei reati di partecipazione all’associazione mafiosa "cosa nostra" commesso in Ravanusa da epoca imprecisata fino alla data della sentenza (capo A) e di tentato danneggiamento, così riqualificato il reato di danneggiamento commesso in Ravanusa il 5 febbraio 2004 ed esclusa l’aggravante di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 7 (capo D) e, ritenuto il concorso materiale tra gli stessi, tenuto conto della diminuzione per il rito, lo ha condannato per il primo reato alla pena di anni sei, mesi due e giorni venti di reclusione e per il secondo reato alla pena di mesi uno e giorni dieci di reclusione (e, quindi, complessivamente, alla pena di anni sei e mesi quattro di reclusione), con le pene accessorie dell’interdizione in perpetuo dai pubblici uffici e dell’interdizione legale durante la pena e, a pena espiata, la misura di sicurezza della libertà vigilata per la durata di anno uno.

La Corte di appello ha confermato per il Bo. la dichiarazione di colpevolezza e la pena di sei anni, mesi due e giorni venti di reclusione per il reato sub capo A) e mesi uno e giorni dieci di reclusione per il reato sub capo D) e per l’effetto, ha dichiarato la pena finale complessiva pari ad anni sei mesi quattro di reclusione.

4.1) i motivi di impugnazione di Bo.Ma. e la decisione della Corte.

Con un primo motivo di impugnazione viene dedotta inosservanza ed erronea applicazione della legge, nonchè vizio di motivazione sotto il profilo dell’applicazione della norma di cui all’art. 416 bis c.p., ed in relazione alla qualità di semplice "avvicinato" e non di "affiliato" del ricorrente, giudizio peraltro che sarebbe stato scorrettamente ottenuto senza la ricerca delle prove indispensabili per l’accertamento della fattispecie concreta, in particolare la stabilità del vincolo e l’elemento psicologico.

Il motivo non ha fondamento ove lo si confronti con la diffusa ed articolata motivazione dei giudici di merito, sia di primo che di secondo grado, attesa l’uniformità dei parametri valutativi adottati nei due gradi di giudizio.

Va, sul punto, ribadito che il giudizio di cassazione è rimasto un giudizio di legittimità anche dopo le modifiche apportate dalla L. 20 febbraio 2006, n. 46, art. 8 le quali non ne hanno mutato la natura: gli "altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame" e menzionati dall’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), altro non sono che quelli concernenti fatti di consistenza e valore decisivo, i quali, se convenientemente valutati anche in relazione all’intero contesto probatorio, avrebbero potuto determinare una soluzione diversa da quella adottata, rimanendo così esclusa la possibilità che la verifica sulla correttezza e completezza della motivazione si possa tramutare in una nuova valutazione delle risultanze acquisite, da contrapporre a quella effettuata dal giudice di merito (Cass. Pen. Sez. 4^, 35683/2007 Rv.

237652 Servidei).

Ed alla luce di tale principio bene possono essere ritenute ininfluenti le critiche dell’odierno gravame sia sul reato associativo sia sul tentato danneggiamento.

Anche per questo imputato la gravata sentenza, seguendo gli stessi criteri di analisi ed esposizione critica adottati per tutti gli accusati, ha attentamente vagliato e superato le obiezioni difensive (quelle proposte in via principale e le ulteriori quattro richieste subordinate), puntualizzando le connotazioni espressive del verificato "ruolo di avvicinato" del Bo.Ma. alla famiglia mafiosa di Ravanusa", pur in assenza di una sua formale qualità di "uomo di onore", avuto riguardo non solo alla condivisione delle conoscenze derivanti dalla intraneità del padre B.L. nell’associazione mafiosa, ma anche alla concreta attività, consapevolmente svolta nel tempo ed in modo stabile, nell’interesse del sodalizio.

Esiti questi tratti dalla sinergica valutazione delle conversazioni registrate (6, 13 gennaio 2004; 29 febbraio 2004; 11 settembre 2004, 13 settembre 2004), le quali, tra loro opportunamente assemblate ed armonizzate, hanno consentito il finale giudizio in termini di colpevolezza, che risulta operato nel rispetto delle regole di valutazione della prova e con una giustificazione di ampio respiro, idonea a fondare la decisione di responsabilità, al di là di ogni ragionevole dubbio e secondo massime di comune esperienza, e ciò anche per il reato di tentato danneggiamento, di cui sono corretti sia la ricostruzione del fatto (sostanzialmente non contestato), sia la qualificazione giuridica e la causale che l’ha sorretto.

Il motivo va quindi rigettato.

Con un secondo motivo si lamenta ancora vizio di motivazione e violazione di legge, con riferimento all’art. 416 bis c.p., commi 4 e 6 con le corrispondenti aggravanti che sarebbero state ritenute sulla base di massime di comune esperienza ed in relazione al l"id quod plerumque accidit", senza il necessario ancoraggio ad elementi di prova ed alla concreta dimensione dell’attività economica contestata.

Anche per questa doglianza, da rigettarsi, come avvenuto per il B.L. (cfr. retro, sub 3), va richiamata la corretta motivazione dei giudici di merito e le sintoniche osservazioni formulate da questa Corte nell’esame della posizione dell’ A. (cfr. retro: sub 2.1) qui integralmente da riprendersi.

5.) Bu.Gi. cognato e socio di G.V. (capi A e C).

Il G.U.P. ha dichiarato Bu.Gi. colpevole dei reati di partecipazione all’associazione mafiosa "cosa nostra" commesso in Campobello di Licata e Canicattì fino al maggio 2005 (capo A) e di estorsione aggravata continuata in danno di V.V., commesso in Campobello di Licata fino al luglio del 2004 (capo C) e, unificati i reati sotto il vincolo della continuazione e tenuto conto della diminuzione per il rito, lo ha condannato alla pena di anni otto di reclusione ed Euro 1.200,00 di multa con le pene accessorie dell’interdizione in perpetuo dai pubblici uffici e dell’interdizione legale durante la pena e, a pena espiata, la misura di sicurezza della libertà vigilata per la durata di anno uno.

La Corte di appello ha confermato tale dichiarazione di colpevolezza e la pena corrispondente e pari ad anni otto di reclusione ed Euro 1.200,00 di multa.

5.1) i motivi di impugnazione di Bu.Gi..

Esistono in atti due atti di impugnazione per il Bu., il primo:

con il patrocinio dell’avv. Fiorello; ed il secondo: con il patrocinio dell’avv. Aricò. 5.1.1) il ricorso con il patrocinio dell’avv. Fiorello.

Il G.U.P. distrettuale e la Corte di appello hanno ritenuto provata la penale responsabilità di Bu.Gi., in concorso con il cognato G.V., per il reato di cui all’art. 629 c.p., perpetrato in danno dell’imprenditore V.V..

Secondo la ricostruzione operata, la condotta estorsiva di Bu. e G.V. si sarebbe estrinsecata nel porre in essere alcuni atti intimidatori, tra cui l’incendio di un carrello elevatore ed una telefonata di minaccia.

Tali condotte sarebbero state volte a far cedere dall’imprenditore V.V. alla SIR.TECH. s.r.l. alcuni lavori inerenti alla costruzione di 22 villette a schiera in territorio di Campobello di Licata.

La SIR.TECH. sarebbe stata in rapporto di "cointeressenza" con la ANACONDA Costruzioni s.r.l. (ora HERMES Costruzioni s.r.l.), società che, secondo l’accusa, sarebbe da ricondurre alla famiglia G. ed al Bu..

Il compendio probatorio è costituito da captazioni ambientali e telefoniche e da dichiarazioni rese da alcuni soggetti.

Con un unico ampio motivo di impugnazione viene dedotta inosservanza ed erronea applicazione della legge, nonchè vizio di motivazione sotto il profilo della declaratoria di responsabilità per l’estorsione in danno dell’imprenditore V.V. in relazione al profilo della minaccia estorsiva ed a quello del profitto della pretesa condotta estorsiva.

Per il ricorrente il materiale, utilizzato per la pronuncia di responsabilità del Bu., è estremamente insidioso e ruota attorno ad alcune conversazioni che vedono protagonista l’imprenditore V.V.: la corretta intelligenza di queste captazioni costituirebbe il vero punctum dolens della vicenda estorsiva attribuita a Bu.Gi..

Per il ricorso, l’errore, compiuto dai giudici di merito e che avrebbe condizionato l’intera ricostruzione della vicenda, consisterebbe nell’avere sempre inquadrato le intimidazioni descritte in un unico contesto, senza distinguere la sovrapposizione fra più vicende, e nell’avere identificato un tale " Gi." di cui si fa parola in varie conversazioni, sempre e comunque in Bu.

G., odierno ricorrente.

L’assunto difensivo è quindi quello che si sarebbe così proceduto ad "interpretare la messe probatoria raccolta sulla base di una falsa premessa pretermettendo molteplici indicatori, emergenti dal testo delle captazioni, che avrebbero evitato l’errore, in quanto "spie" della presenza di un fenomeno di omonimia".

Su tali premesse l’impugnazione esamina nell’ordine – in modo critico ed analiticamente – le conversazioni: 7 aprile 2003; 8 aprile 2003 (incontro di Naro); 20 aprile 2003; 9 marzo 2003 al fine di evidenziare e ribadire gli errori interpretativi dei giudici di merito in punto di ritenuta minaccia ed individuazione del relativo autore.

Il motivo non è fondato.

I giudici di merito sono pervenuti alla certa identificazione del " Gi." nell’odierno ricorrente Bu.Gi. (comunque indicato in alcune conversazioni intercettate anche con il cognome di Bu.), a seguito di un’analitica e complessiva valutazione delle emergenze processuali, che risulta aver tenuto corretto conto del quadro probatorio complessivo e dello specifico contesto relazionale affaristico che le connotava e l’evoluzione concreta delle vicende di rilievo illecito.

Contrariamente all’asserzione del difensore, la giustificazione offerta sul punto nella gravata sentenza è ineccepibile in quanto condotta senza incoerenze logico giuridiche e con una compiuta aderenza al materiale processuale utilizzabile.

Quanto all’incontro al "bivio di Naro" tra alcune persone, segnatamente G.S.V., Bu.Gi., D. V.A. e Pr.Lu. (il quale ultimo non avrebbe però preso parte alla discussione), esiste in atti una rigorosa ricostruzione dei fatti, non superabile dalle diverse valutazioni proposte dai ricorrenti interessati e sulla quale realtà bene, quindi, la gravata sentenza ha innestato le altre valutazioni sintoniche in punto di affermazione di colpevolezza dei ricorrenti.

Nè può modificare detto assunto la doglianza del gravame che parla in proposito di "operazione ermeneutica affrettata, non autorizzata dal dato testuale", in quanto i giudici del gravame, in una con le considerazioni del G.U.P., hanno chiaramente indicato i dati e gli elementi posti a fondamento delle loro diverse valutazioni, i quali tutti, per il modo con cui sono stati soppesati e correlati, hanno dato vita ad un giudizio conclusivo privo di invalidità verificabili in sede di legittimità.

Il ricorso, poi, una volta esaminato il primo frammento della pretesa condotta estorsiva, quello della minaccia, lamenta l’affermata sussistenza dell’ingiusto profitto della ritenuta estorsione che, secondo la corte distrettuale, si sarebbe proiettato nell’ottenimento da parte della ditta Sir. Tech, di un cottimo, affidatole dall’impresa V.V. per la costruzione delle 22 villette a schiera di contrada (OMISSIS), considerato che la Sir. Tech., a sua volta, sarebbe stata in rapporto di "cointeressenza" con la Anaconda Costruzioni s.r.l., impresa gestita di fatto dai G. e dal Bu..

Per il ricorrente i due passaggi logici prodromici per pervenire a giudizio di responsabilità penale sono quindi rappresentati:

1) dalla verifica dei rapporti intercorrenti tra la Anaconda Costruzioni e l’odierno ricorrente; 2) dall’accertamento della cointeressenza tra Anaconda Costruzioni e Sir. Tech..

Sui rapporti tra Anaconda Costruzioni e Bu.Gi. il ricorso osserva che, anche a volere ritenere esistente un legame forte tra la Anaconda ed il Bu., resterebbe da provare, oltre alla cointeressenza tra Anaconda e Sir. Tech., il nesso causale tra le intimidazioni asseritamente poste in essere da Bu.Gi. in concorso con G.V. in danno di V.V. ed i lavori affidati dallo stesso alla Sir.Tech., e cioè l’ingiusto profitto, requisito strutturale del delitto.

Ritiene ancora il ricorrente che la corte distrettuale, costretta a convenire che i molteplici rilievi, concernenti i fugaci contatti tra G.V. e Si.Vi., non sono in grado di cristallizzare la pretesa cointeressenza tra le due imprese, avrebbe ripiegato, per avvalorare la tesi d’accusa, sulla ricostruzione della vicenda come effettuata dal V.V. nelle intercettazioni, ricostruzione che peraltro non avrebbe tenuto conto di circostanze di segno diverso.

Tanto premesso, è evidente che, nella specie, la motivazione della corte distrettuale debba essere soppesata ed esaminata nella complessità del suo intreccio e nella pluralità delle sue correlazioni interne, tutte orientate alla ricostruzione della vicenda – nei suoi profili soggettivi ed oggettivi – ad avvalorare l’ipotesi accusatoria.

Orbene siffatto protocollo valutativo rende evidente l’inefficacia argomentativa della proposta diversa ed alternativa ricostruzione degli eventi e della loro scansione causale, rispetto alle precise e sostenibili conclusioni dei giudici di merito.

La decisione impugnata, infatti, ha dato ampio ed ineccepibile conto che il V.V. ha vissuto, come evidente coartazione, collegata agli atti intimidatori subiti e alle minacce formulate da Bu. e G.V. nell’incontro di Naro, la decisione di affidare parte dei lavori per la costruzione delle villette proprio alla SIR.TECH. In sostanza, ribadisce correttamente la gravata sentenza, il V. V. è addivenuto a tale affidamento a causa delle minacce del Bu. e di G.V. e della conseguente consapevolezza di non potere lavorare a Campobello senza cedere alle richieste dei predetti.

In tale quadro, opportunamente, la corte distrettuale evidenzia che il fatto che Bu. e G.V. si siano spesi in favore della SIR.TECH. dimostra, al di là di qualsiasi altra risultanza, che una qualche cointeressenza dei primi vi deve essere stata, restando a questo punto irrilevante, ai fini della configurabilità del reato contestato, accertare più in dettaglio se si sia trattata di una cointeressenza societaria a tutti gli effetti, quale quella ritenuta sussistente dal primo giudice, ovvero che vi sia stato anche soltanto un diverso interesse collegato, ad esempio, ad una tangente versata dalla predetta società in corrispettivo del subappalto ottenuto con quelle illecite modalità.

Ne consegue, pertanto, il rigetto del ricorso, considerato che l’analitica ma diversa ricostruzione dei fatti, propugnata nel ricorso, pur teoricamente accettabile sulle "premesse date", si risolve, in sostanza, nella prospettazione di una più favorevole interpretazione delle emergenze processuali, senza considerare che l’art. 606 c.p.p. non consente alla Corte di cassazione una diversa lettura dei dati processuali (Cass., sez. 6^, 30 novembre 1994, Baidi, m. 200842; Cass., sez. 1^, 27 luglio 1995, Chiadò, m. 202228) oppure una diversa interpretazione delle prove (Cass., sez. 1^, 5 novembre 1993, Molino, m. 196353, Cass., sez. un., 27 settembre 1995, Mannino, m. 202903), perchè è estraneo al giudizio di legittimità il controllo sulla correttezza della motivazione in rapporto ai dati probatori.

5.1.2) il ricorso dell’avv. Aricò.

Con un primo motivo di impugnazione viene dedotta inosservanza ed erronea applicazione della legge, nonchè vizio di motivazione sotto il profilo dell’omesso deposito delle bobine delle intercettazioni al momento della notifica ex art. 415 bis c.p.p..

Il motivo non ha fondamento.

In sede di giudizio abbreviato, il giudice può valutare le trascrizioni sommarie compiute dalla polizia giudiziaria circa il contenuto di conversazioni telefoniche oggetto di intercettazione (cosiddetti "brogliacci"), essendo utilizzabili ai fini della decisione tutti gli atti che siano stati legittimamente acquisiti al fascicolo del pubblico ministero (Cass. pen. Sez., 6^, ordinanza 16823/2010 Rv. 247007).

Sono pertanto utilizzabili nel giudizio abbreviato le intercettazioni per le quali è stato omesso dal pubblico ministero il deposito dei supporti magnetici sui quali sono state riversate le registrazioni delle conversazioni intercettate, considerato che la prova è costituita dalla registrazione della captazione della conversazione e non dal suo riversamento sui supporti magnetici (Cass. pen. sez. 6^, Sentenza n. 1084/2010 Rv. 245708 Cass. Pen. Sez. 4^, 16890/2004 Rv.

228040).

Con un secondo motivo si lamenta vizio di motivazione e violazione di legge con riferimento alla pronuncia di colpevolezza ex art. 416 bis c.p., ottenuta senza la rigorosa indagine dell’attendibilità intrinseca ed estrinseca del collaboratore Di.Ga. (il quale ha taciuto circa la sua personale attività di estortore) sugli elementi di natura individualizzante, non di contorno ma di essenzialità per l’accusa, quali – tra l’altro – la prova della consegna dei c.d.

"pizzini".

In tale ambito si contesta che il tenore delle intercettazioni possa svolgere funzione di riscontro alle dichiarazioni del detto Di.

G. soprattutto sul "ruolo dinamico" dallo stesso svolto all’interno dell’associazione e si lamenta l’assoluta assenza di indicazioni sull’elemento soggettivo della compagine.

Il motivo non ha fondamento, qui integralmente richiamate le considerazioni sovrapponibili dianzi sviluppate per l’esame della posizione dell’ A. (cfr. retro: sub 2), sulla valutazione ed il peso critico offerto dalla decisione di condanna alle dichiarazioni dei collaboratori, la cui "realtà comunicativa" è stata nella vicenda rigorosamente esaminata dai giudici di merito, anche in tema di valutazione frazionata e con una puntigliosa ricerca dei riscontri anche di ordine logico, e con ulteriori corrispondenti considerazioni di "vitale sostegno", recuperate in modo incensurabile dal tenore e dal taglio delle conversazioni registrate.

Quanto alla soggettività che ha informato le condotte costitutive dell’accusa associativa, non va dimenticato che il profilo psicologico di esse è stato evidenziato in modo conforme in entrambe le decisioni di merito con un esito di adeguata giustificazione sul dolo del ritenuto delitto.

L’esame della decisione impugnata – che si completa e si salda con la conforme decisione di primo grado – al di là delle contestazioni, al limite dell’inammissibilità svolte nel ricorso, evidenzia infatti un lineare ed unitario filo argomentativo che da esaustiva contezza dell’iter logico giuridico che ha sotteso e giustificato la pronuncia di responsabilità per il reato associativo, ed ha portato ragionevolmente ad escludere l’ipotesi alternativa, inefficacemente delineata nei due giudizi di merito.

Da ciò il rigetto del corrispondente motivo di doglianza.

6.) G.S.V. cognato e socio di Bu. (capi A e C).

Il G.U.P. ha dichiarato G.S.V. colpevole dei reati di concorso esterno in associazione mafiosa "cosa nostra", così riqualificato il reato di partecipazione all’associazione mafiosa, commesso in Campobello di Licata fino alla data della sentenza (capo A) e di estorsione aggravata continuata, in danno di V.V., commesso in Campobello di Licata fino al luglio del 2004 (capo C) e, unificati i reati sotto il vincolo della continuazione e tenuto conto della diminuzione per il rito, lo ha condannato alla pena di anni sette e mesi sei di reclusione e Euro 1.200,00 di multa con le pene accessorie e, a pena espiata, la misura di sicurezza della libertà vigilata per la durata di anno uno.

La Corte di appello ha confermato la dichiarazione di colpevolezza e la condanna alla pena di anni sette, mesi sei di reclusione ed Euro 1.200,00 di multa, 6.1) l’impugnazione di G.S.V. e la decisione di rigetto della Corte.

Con un primo motivo di impugnazione viene dedotta – negli stessi termini del ricorso di Bu. – inosservanza ed erronea applicazione della legge, nonchè vizio di motivazione sotto il profilo della declaratoria di responsabilità per l’estorsione in danno dell’imprenditore V.V., in relazione al profilo della minaccia estorsiva, a quello del profitto della pretesa condotta estorsiva, nonchè sull’ipotesi di concorso esterno in associazione di tipo mafioso.

In tale quadro sono criticate le valutazioni sull’attendibilità intrinseca ed estrinseca dei collaboratori Di.Ga. e sa., con riferimento agli alloggi della cooperativa "Tre torri", della cooperativa "Polis", della cooperativa "S. Antonio" e delle altre cooperative di Canicattì.

Con un secondo motivo si lamenta violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all’art. 240 c.p., art. 416 bis c.p., comma 7, posto che la cointeressenza della società Anaconda con Cosa nostra campobellese è stata apoditticamente affermata (pag. 317) senza alcuna considerazione delle contrarie deduzioni difensive.

In data 10 novembre u.s. è inoltre pervenuto a questa Corte un documento, definito "dichiarazioni spontanee di G.S. V.", con il quale il G.V. lamenta il giudizio di responsabilità formulato dai giudici di merito, allegando a tal fine le dichiarazioni del collaboratore di giustizia sa., rese al P.M. l’11 luglio 2008, nel "verbale di interrogatorio di imputato di reato connesso/collegato" e proponendo, da un lato, una sua analisi ed interpretazione delle conversazioni intercettate, difforme da quella fatta propria dai giudici della condanna, e dall’altro, riprendendo sostanzialmente le censure del ricorso, ribadendo con fermezza la sua assenza fisica all’incontro del "bivio di Naro" di cui si parla nell’intercettazione dell’8 aprile 2003.

I due motivi e le dichiarazioni personali del ricorrente, per la loro naturale correlazione, vanno congiuntamente esaminati.

Peraltro, sia i motivi che le note a cura dell’imputato, per come formulati, non meritano accoglimento, per le stesse ragioni dianzi evidenziate per il Bu. e l’ A. (cfr. retro: sub 2 e sub 5) e per le ulteriori considerazioni espresse in proposito dai giudici di merito, i quali hanno analiticamente risposto alle diciassette doglianze illustrate nei motivi di appello, con particolare riferimento, tra l’altro: all’identità delle persone incontratisi al "bivio di Naro"; alla provenienza della telefonata anonima ricevuta dal dipendente del V.V.; alla compatibilità dei fatti illeciti rispetto alla permanenza del G.V. in Milano; alla giustificata reticenza del V.V.; al ruolo del G.V., formale e di fatto, nella società Anaconda; alla questione Si.Vi. ed alla sottesa prova della cointeressenza tra Anaconda e SirTech.; all’avvenuto versamento di somme di denaro della società Anaconda e per mano del G.V. al sodalizio mafioso dell’ A.; alla attendibilità intrinseca ed estrinseca del Di.Ga..

Si tratta infatti di un complesso armonico di risposte ragionevoli, alle censure formulate ed oggi in parte riprese in chiave di vizio di motivazione, a tutte le questioni nodali dell’accusa con corrispondente adeguata giustificazione della soluzione adottata in punto di responsabilità.

Quanto alle critiche, anche alle dichiarazioni del Di.Ga., che sono state utilizzate, vi è in atti un ventaglio di risposte adeguate e corrette dei giudici di merito i quali riprendono – e non può essere diversamente – la ragionevole ricostruzione degli eventi ed il quadro delle singole responsabilità per i reati contestati a più persone, considerato anche che l’impugnata sentenza ha – con coerenza e logicità – affermato che i contrasti, effettivamente a suo tempo insorti tra Di.Ga. e Fa., non risultano idonei ad inficiare la complessiva attendibilità intrinseca del detto dichiarante, positivamente valutata sotto tutti i profili in questo ed in altri processi e, quindi, non in grado di rendere a priori inutilizzabili le sue propalazioni quando coinvolgenti soggetti a vario titolo riconducibili al Fa..

Nè tale ribadita definizione della vicenda è superabile sulla scorta delle alternative di lettura, proposte nel ricorso o nelle note redatte dall’imputato, le quali, esaltando alcune imprecisioni di dettaglio, o frantumando il corpo motivazionale, oppure fermandosi su singoli isolati tasselli, finiscono col perdere di vista il complessivo valore delle prove, strutturato e argomentato dal giudice della condanna, e tendono a proporre una diversa, ma inammissibile interpretazione del compendio probatorio.

Inoltre va da ultimo considerato che, per l’affermazione finale di "concorso eventuale nell’associazione mafiosa" (anche per la vicenda della Cooperativa S. Antonio), il giudice d’appello non si è sottratto all’obbligo di valutazione delle dichiarazioni del sa., nè degli altri profili della condotta del ricorrente, concludendo nel senso che G.V. ha, sì, subito l’imposizione del "pizzo", fatto certamente insufficiente a configurare l’apporto necessario per integrare la fattispecie criminosa per la quale è stato condannato, ma si è avvalso (oltre che della figura istituzionale del padre e dei conseguenti interventi di questi) anche dell’inserimento nella gestione dei lavori edili nel territorio di Campobello di Licata operato da A.I. nella sua qualità di "capo" della locale "famiglia" mafiosa.

La corte distrettuale valorizza ancora alcuni concreti interventi dell’ A. riguardo ad affari – interessanti la Anaconda Costruzioni – per i quali l’ A. medesimo non avrebbe avuto alcun titolo per intervenire, laddove si escludesse quello specifico di essere lui il "capo" della locale "famiglia" mafiosa.

Tale interventi, prosegue correttamente la gravata sentenza, in contrasto, invece, con gli interessi di altre imprese (tra le quali quella del V.V. che, infatti, non ha saputo neppure spiegare la ragione di determinate associazioni con la Anaconda Costruzioni) trovano ragione – e riscontro – nella risalente "vicinanza" di G. V. con l’associazione mafiosa riferita da D.G. M., oltre che nel ruolo di "uomo d’onore" del cognato Bu.

G..

In definitiva, per la corte distrettuale, la condotta di G. V., che ha consapevolmente rivolto a proprio profitto le relazioni intrattenute con l’associazione mafiosa, è stata giustamente ritenuta esulare da quella dell’imprenditore "costretto" a sottostare alla pretese della "famiglia" mafiosa, trasbordando in quella dell’imprenditore colluso che volontariamente si inserisce in un contesto di regolamentazione dei lavori pubblici e privati operato dalla medesima "famiglia" mafiosa per trame vantaggi.

Prova in tal senso è stata tratta dal fatto che lo stesso G. V. ha direttamente utilizzato analoghi metodi tipicamente mafiosi nei confronti di V.V., nell’ambito della vicenda oggetto della contestazione di reato di cui al capo C): il pagamento del "pizzo" si è quindi trasformato, da mero taglieggiamento, in una sorta di corrispettivo versato dal G.V. per i vantaggi tratti dalla gestione operata dalla "famiglia" mafiosa, e, quindi, inevitabilmente, in un contributo per il mantenimento economico della stessa.

Il tutto in un quadro – inoppugnabile – di rafforzamento del potere esercitato dalla consorteria mafiosa sul territorio, potendo essa dimostrare di poter in concreto favorire le imprese che si inserivano nella detta gestione dei lavori pubblici e privati.

Conclusione da ribadirsi, pur in mancanza di prova della partecipazione, poichè, spiegano i giudici di merito, in assenza di riscontro alle propalazioni del Di.Ga., non v’è prova del suo stabile inserimento nella struttura organizzativa dell’associazione, nè di una consapevole assunzione di un ruolo specifico funzionale al perseguimento dei fini criminosi o di un settore di essi, mentre invece v’è, però prova della consapevole condotta del medesimo idonea a fornire, in ogni caso, un contributo causale alla conservazione o al rafforzamento dell’associazione, nonchè alla realizzazione, anche parziale, del suo programma criminoso di controllo del territorio.

Ciò affermato, ritiene questa Corte che si versi – nella specie, in presenza di valutazioni pienamente condivisibili, sviluppate con criteri logici assolutamente accettabili ed in linea con la giurisprudenza di questo Supremo collegio.

E’ noto che, in materia di partecipazione ad associazione di stampo mafioso, è ragionevole considerare "imprenditore colluso" quello che è entrato in rapporto sinallagmatico con la cosca, con modalità di "intrecciato interesse" tali da produrre vantaggi per entrambi i contraenti, consistenti – per l’imprenditore – nell’imporsi nel territorio in posizione dominante – e per il sodalizio criminoso – nell’ottenere risorse, servizi o utilità; mentre è ragionevole ritenere "imprenditore vittima" quello che, sopraffatto dall’intimidazione, non tenta di venire a patti col sodalizio, ma cede all’imposizione e subisce il relativo danno ingiusto, limitandosi a perseguire un’intesa volta a limitare tale danno.

Ne consegue che il criterio distintivo tra le due figure sta nel fatto che l’imprenditore colluso, a differenza di quello vittima, ha consapevolmente rivolto a proprio profitto l’opportunità di essere venuto in relazione col sodalizio mafioso (Cass. Pen. Sez. 1^, 46552/2005 232963 D’Orio Massime precedenti Conformi: N. 84 del 1999 Rv. 212579; N. 6929 del 2000 Rv. 219243, N. 6929 del 2000 Rv.

219244).

Orbene, applicate tali regole all’odierna vicenda, la condotta di G.S.V. realizza compiutamente la materialità e la soggettività che connotano "la figura dell’imprenditore colluso", inteso come colui che è entrato in adeguato e funzionale rapporto sinallagmatico con l’associazione, con modalità operative tali da arrecare vantaggi per entrambi i contraenti, consistenti per l’imprenditore nell’imporsi nel territorio in posizione dominante e per il sodalizio criminoso nell’ottenere positive ricadute patrimoniali, risorse, servizi o utilità.

Il ricorrente quindi, correttamente non è stato ritenuto "imprenditore vittima", in quanto egli non è rimasto vinto o "soggiogato dall’intimidazione", ma, all’interno di tale ipotizzabile iniziale situazione, è venuto a patti con il sodalizio, finendo con il condividerne le finalità, così agevolando il perseguimento degli illeciti esiti commerciali, e traendo beneficio dai propositi e dai risultati nell’attività economico-imprenditoriaie in questione (cfr. in termini: Cass. Pen. Sez. 5^, 39042/2008 Rv. 242318 Samà; Massime precedenti Conformi: N. 46552 del 2005 Rv. 232963).

Va quindi sul punto condivisa la conclusione della corte distrettuale che ha ragionevolmente ritenuto l’azione dell’imprenditore come consapevolmente orientata a fornire il proprio fattivo apporto alla famiglia mafiosa, attraverso la gestione di un’attività economica, con rigetto dei corrispondenti motivi di doglianza.

Quanto al 2^ motivo si lamenta la pochezza della motivazione a fronte dell’ampiezza delle censure formulate negli atti di impugnazione.

Il motivo non ha pregio attesa la "sinteticità efficace" della giustificazione proposta e la cornice espositiva in cui la stessa va necessariamente inserita.

Va infatti preliminarmente precisato, come già detto, che nella verifica della consistenza dei rilievi mossi alla sentenza della Corte di secondo grado, tale decisione non può essere valutata isolatamente, come fatto oggi nel ricorso, ma deve essere esaminata in stretta ed essenziale correlazione con la sentenza di primo grado, dal momento che entrambe risultano sviluppate e condotte secondo linee logiche e giuridiche pienamente concordanti.

In buona sostanza ed in altre parole, nella specie, ci si trova di fronte a due sentenze, di primo e secondo grado, che concordano nell’analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento della statuizione di confisca, con una struttura motivazionale della sentenza di appello che si armonizza perfettamente con quella precedente, sì da costituire un unico complessivo corpo argomentativo, privo di lacune, considerato che la sentenza impugnata, ha dato; comunque, congrua e ragionevole giustificazione della finale statuizione ex art. 240 c.p., fondata sul dato inoppugnabile della cointeressenza tra s.r.l. Anaconda e "cosa nostra", desumibile dall’intero complesso argomentativo che ha informato le decisioni oggi impugnate.

I motivi vanno quindi rigettati.

7.) P.V. (capi A e E).

Il G.U.P. ha assolto P.V. dei reati di partecipazione all’associazione mafiosa "cosa nostra", commesso in Campobello di Licata ed altre località delle province agrigentina e catanese fino al 19 agosto 2005 (capo A) e di estorsione aggravata in danno di So.Ca., commesso in Agrigento in epoca anteriore e prossima al 15 novembre del 2003 (capo E) per non avere commesso il fatto.

La Corte di appello di Palermo, invece, con sentenza 25 novembre 2009 in parziale riforma della sentenza pronunziata dal G.U.P. appellata dal Pubblico Ministero; ha dichiarato il P. colpevole del reato ascrittogli al capo A) e lo ha condannato alla pena di anni cinque di reclusione, dichiarandolo interdetto in perpetuo dai pubblici uffici e in stato di interdizione legale durante la pena, disponendo che, a pena espiata, l’imputato sia sottoposto alla misura di sicurezza della libertà vigilata per la durata di anno uno.

7.1) i due atti di ricorso della difesa del P..

Il ricorrente è stato condannato in appello per aver fatto parte, sia pure quale "avvicinato", all’associazione mafiosa Cosa Nostra, ed in particolare per essersi reso responsabile della trasmissione di "pizzini" in favore del reggente provinciale di Cosa Nostra agrigentina Fa.Gi..

All’esito del giudizio di primo grado, il G.U.P. era pervenuto ad una pronuncia assolutoria per il reato associativo del capo sub A, ritenendo che la chiamata di correo del collaboratore Di.Ga., formulata negli interrogatori del 4 gennaio 2007 – nella parte considerata utilizzabile – e del 19 gennaio 2007, fosse rimasta priva di riscontro.

Nel giudizio di appello la pubblica accusa ha chiesto ed ottenuto dalla corte territoriale palermitana l’ammissione dell’esame di un nuovo collaboratore di giustizia, sa.gi. il quale veniva sentito nell’udienza del 30 settembre 2009.

Le dichiarazioni rese dal sa., a parere dei giudici d’appello, hanno apportato il necessario riscontro alle dichiarazioni del Di.

G., per l’accusa di partecipazione all’associazione mafiosa: da ciò la sentenza di condanna.

Oltre al ricorso del P.M., sul proscioglimento del P. per l’assoluzione dal capo sub E) dell’imputazione (cfr. retro: sub 1.3.2), vi è una doppia impugnazione dello stesso P. sulla condanna deliberata in appello per il capo A), la prima a cura dell’avv. Fiorello e la seconda a cura dell’avv. Di Peri.

Con un primo motivo di impugnazione, con il patrocinio dell’avv. Fiorello, viene dedotta inosservanza ed erronea applicazione della legge, nonchè vizio di motivazione sotto il profilo della valutazione della prova, quale offerta dalle dichiarazioni dei due collaboratori.

Secondo il ricorrente la Corte palermitana non avrebbe rispettato la regola della qualità dei riscontri esterni alle chiamate in correità, in quanto le dichiarazioni dei due collaboratori Di.

G. e sa. non avrebbero i requisiti di indipendenza, convergenza e specificità in relazione al capo d’imputazione (requisiti necessari per la reciproca convalida), il quale ruota sulla trasmissione di "pizzini" in favore del latitante Fa., che invece dovrebbero avere per convalidarsi vicendevolmente.

A tale effetto il ricorso opera una valutazione comparativa tra le propalazioni rese dai due collaboratori, evidenziando la povertà dell’apporto conoscitivo fornito dal Di.Ga., contenuto in due verbali di interrogatorio, datati 4 gennaio e 19 gennaio 2007.

Quanto alle dichiarazioni del sa., la difesa del P. segnala: che il sa. ebbe a conoscere delle vicende del P. dai giornali, così perdendo il contenuto di indipendenza di ciò che riferiva; che il sa. è "carente anche sotto il profilo estrinseco", finendo, solo alla fine del controesame e dietro contestazione del Procuratore generale su impulso di una giudice a latere, col dire di aver saputo da Bu.Gi. che il P. "trasportava pizzini".

Con un secondo motivo si lamenta ancora vizio di motivazione e violazione di legge con riferimento al reato associativo, considerato che il ricorrente era soltanto "un avvicinato" e non un affiliato: in ogni caso il mero trasporto e consegna di pizzini ad un latitante può integrare al massimo il reato di favoreggiamento personale.

Con un terzo motivo si prospetta violazione dell’art. 603 c.p.p. per l’omessa ammissione di prova decisiva costituita dall’esame del teste D’.Ga. che avrebbe dovuto deporre su circostanze rilevanti per il giudizio di attendibilità del sa..

A cura dell’avv. Di Peri, con un primo motivo di impugnazione, viene dedotta inosservanza ed erronea applicazione della legge, nonchè vizio di motivazione sotto il profilo della affermazione di responsabilità ex art. 416 bis c.p., ottenuta mediante il ricorso a congetture, teoremi ed ipotesi e soprattutto sull’erronea asserzione di stile che le dichiarazioni del sa. costituiscano riscontro concordante con l’impianto accusatorio e, pertanto, siano in grado di colmare la lacuna probatoria valorizzata dal G.U.P. per la decisione di proscioglimento.

In particolare l’impugnazione pone l’accento sulla mancanza di autonomia ed originalità delle propalazioni del sa., tra l’altro collaboratore di giustizia da pochissimo tempo, ed in ogni caso rileva l’assenza di prove circa gli elementi costitutivi del vincolo associativo e dell’animus che li deve informare, soprattutto nel caso in cui, come nella specie, non ricorre la qualifica di "uomo di onore".

I primi tre motivi dell’avv. Fiorello ed il primo dell’avv. Di Peri impongono una disamina unitaria.

Il tema risolutivo ruota sull’apporto probatorio del Di.Ga. e del sa. ed in via subordinata sulla qualificazione giuridica della condotta ipotizzata, da inquadrarsi sotto il profilo di un favoreggiamento personale.

Ritiene tuttavia la Corte che le critiche dianzi formulate non abbiano concreto fondamento, avuto riguardo al corretto protocollo valutativo che ha governato il procedere della corte distrettuale.

La Corte di appello infatti ha sottoposto a deciso vaglio critico l’attendibilità intrinseca del sa., pesando la sua scelta collaborativa non solo in termini di spontaneità e genuinità, originalità, assenza di intenti calunniosi, ma anche con attribuzione a se stesso di un ruolo nella famiglia mafiosa di Naro, e mediante un utile raffronto tra l’ampiezza del riferito rispetto alla limitatezza di quanto invece annotato dai giornali dell’epoca.

Su tali premesse la gravata sentenza ha convenientemente valorizzato le dichiarazioni del sa. per completare o supportare le dichiarazioni pure accusatorie del Di.Ga. nel rispetto delle regole elaborate da questo Supremo collegio ed in parte puntualmente richiamate.

E’ invero pacifico che non è certo questa, del sindacato di legittimità (cfr. in termini: SS.UU. 45276/2003), la sede dove possa essere rimesso in discussione l’apprezzamento fattuale, riservato ai giudici del merito, sulle circostanze caratterizzanti la credibilità soggettiva e l’intrinseca affidabilità del racconto del collaboratore (affermata da entrambe le Corti).

Peraltro rimane alla Corte di cassazione l’esclusivo compito della verifica della corretta applicazione del criterio stabilito dall’art. 192 c.p.p., comma 3 ai fini della valutazione dell’effettiva consistenza probatoria della chiamata, per l’ulteriore e più pregnante profilo di affidabilità dei riscontri esterni, sia di carattere generico che individualizzanti.

In tale ottica e con riferimento all’odierna fattispecie, va quindi precisato:

a) che le dichiarazioni accusatorie rese dai due collaboranti possono anche riscontrarsi reciprocamente, a condizione che si proceda – come avvenuto nella odierna vicenda – alla loro valutazione unitamente agli altri elementi di prova che ne confermino l’attendibilità, in maniera tale che sia verificata la concordanza sul nucleo essenziale del narrato, rimanendo quindi indifferenti eventuali divergenze o discrasie che investano soltanto elementi circostanziali del fatto, a meno che tali discordanze non siano sintomatiche di una insufficiente attendibilità dei chiamanti stessi;

b) che l’art. 192 c.p.p., comma 3 non pone alcuna limitazione per quanto riguarda l’individuazione dei riscontri, che possono consistere in elementi di qualsivoglia natura purchè, pur non avendo autonoma forza probante, siano in grado di corroborare la chiamata in correità, conferendole la credibilità piena di qualsiasi elemento di prova (Cass. pen. sez. 1^, 46954/2004 Rv. 230592);

c) che in tema di chiamata di correo, non sono assimilabili a pure e semplici dichiarazioni "de relato" quelle con le quali un intraneo riferisca notizie assunte nell’ambito associativo, costituenti un patrimonio comune, in ordine ad associati ed attività propri della cosca mafiosa Cass. pen. sez. 1^, 23242/2010 Rv. 247585);

d) che un collaboratore di giustizia, anche non coimputato o non indagato nello stesso procedimento, ben può essere credibile quando ha acquisito le notizie propalate nell’ambito della sfera di criminalità organizzata in cui sia inserito, una volta che sia accertata l’intrinseca attendibilità delle sue dichiarazioni, nonchè la sussistenza di riscontri esterni, i quali, in caso di più chiamate convergenti, possono anche consistere nella circostanza che le dichiarazioni riconducano, anche se in modo non sovrapponibile, il fatto all’imputato, essendo sufficiente la confluenza su comportamenti riferiti alla sua persona e alle imputazioni a lui attribuite, cioè l’idoneità delle dichiarazioni a riscontrarsi reciprocamente nell’ambito della cosiddetta "convergenza del molteplice"(Cass. pen. sez. 1^, 31695/2010 Rv. 248013; Cass. pen. sez. 1^, 31695/2010 Rv. 248013).

Di tali regole risulta aver fatto buon governo la gravata sentenza che ha precisato le efficaci corrispondenze tra dichiarazioni dei collaboratori di giustizia e le altre convergenti risultanze processuali in termini qui non censurabili, trattandosi di giudizio di fatto espresso con argomentazioni lineari, coerenti e non contrastanti con le regole della logica e con una ragionevole lettura della realtà, secondo massime di comune esperienza ed in relazione al canone dell’id quod plerumque accidit".

In definitiva non vi è spazio per le alternative spiegazioni prospettate in questa sede dai difensori del ricorrente le quali non hanno forza per alterare il giudizio di responsabilità, che è stato ottenuto mediante una intrecciata valutazione di plurimi elementi probatori, non ultimi le dichiarazioni dei due collaboratori di giustizia, rigorosamente e puntualmente soppesate dai giudici della condanna, la quale è stata giustificata, lo si ripete, con un apparato motivazionale indenne da vizi censurabili in sede di legittimità.

Da ultimo, quanto alla qualificazione giuridica della condotta, nel quadro di un soggetto "avvicinato" e non "affiliato" ed alla richiesta di inquadrare il mero trasporto e consegna di pizzini ad un latitante, come reato di favoreggiamento personale, va qui precisato, in linea con una recente decisione di questa sezione (Cass. pen. sez. 6^, 26 novembre 2009, Gariffo) che ogni aiuto, dato e pervenuto a Fa., e destinato, non tanto a rispondere ai suoi immediati e primari bisogni alimentari e di sopravvivenza, ma teso (invece ed inoltre) ad impedirgli rischiosa visibilità esterna, ad assicurargli "autonomia operativa nell’isolamento", "continuità del flusso informativo del sodalizio" e soprattutto "mantenimento della rete di controllo illecito", non può che essere assistito – da parte del P. – e secondo l’id quod plerumque accidit, dalla cosciente, univoca e causalmente efficiente finalizzazione agevolatrice del sodalizio criminale.

Substrato psicologico e volitivo quest’ultimo, peraltro, non più discutibile in presenza dei c.d. "pizzini", comunicati e trasmessi, in un tempo in cui l’isolamento ed il rischio della cattura, rendevano per il capo-mafia Fa., impraticabili altri "tramiti" assolutamente funzionali al mantenimento del sodalizio.

Soggettività questa che esclude inoltre in radice la teorica i ricorribilità del favoreggiamento personale, essendo invece integrata la più pregnante ed impegnativa concorsualità, coerentemente sostenuta dalla Corte di appello, con un giudizio tecnicamente ineccepibile.

Quanto infine alla mancata ammissione della prova, teoricamente tesa a screditare l’attendibilità intrinseca ed estrinseca del sa., va anticipato che il motivo non ha fondamento, avuto riguardo alla complessiva motivazione della corte distrettuale.

Invero in tema di rinnovazione, in appello, della istruzione dibattimentale, mentre la decisione di procedere a rinnovazione deve essere specificatamente motivata, occorrendo dar conto dell’uso del potere discrezionale, derivante dalla acquisita consapevolezza della rilevanza dell’acquisizione probatoria, viceversa, nella ipotesi di rigetto, la decisione può essere sorretta anche da una motivazione implicita nella stessa struttura argomentativa posta a base della pronuncia di merito (Cass. pen. sez. 6^, 5782/2007, r.v. 236064).

Regola tanto più da ribadirsi come nel caso di specie, di rigetto di richiesta di acquisizione di prova nuova, ove il requisito della necessità doveva essere ancor più pressante e puntualmente prospettato, trattandosi di giudizio di appello che riguardava una sentenza resa in primo grado all’esito di giudizio abbreviato, e di una corrispondente decisione che risulta corredata da una estesa ed ampia motivazione, di per sè idonea ad escludere la decisività della dedotta rinnovazione dell’istruzione dibattimentale, per la sussistenza agli atti di elementi sufficienti per una valutazione in ordine alla responsabilità, con la conseguente mancanza di necessità di rinnovare il dibattimento stesso.

Il motivo va quindi rigettato.

Con un secondo motivo l’avv. Di Peri lamenta violazione di legge e vizio di motivazione sul mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche e la conseguente determinazione della pena.

Il motivo è palesemente infondato.

E’ noto che il riconoscimento delle attenuanti generiche risponde a una facoltà discrezionale, il cui esercizio, positivo o negativo che sia, deve essere bensì motivato, ma nei soli limiti atti a far emergere in misura sufficiente il pensiero dello stesso giudice circa l’adeguamento della pena concreta alla gravità effettiva del reato ed alla personalità del reo (Cass. pen. sez. 1^, 6992/1992 Rv.

19O645.Cass. pen. sez. 1^, 6992/1992 Rv. 190645).

Nella vicenda, la negazione delle generiche è stata per più profili giustificata, sia in relazione ai parametri indicati nell’art. 133 c.p., sia evidenziando la gravità del fatto, sia la capacità a delinquere del ricorrente ed al ruolo assunto di persona in diretto collegamento (tramite i pizzini) con il Fa.; indicato come uno dei più pericolosi esponenti di vertice della mafia agrigentina.

Nessuna invalidità è quindi rinvenibile nella gravata sentenza con conseguente declaratoria di inammissibilità del ricorso sul punto.

In conclusione, richiamate le precedenti argomentazioni a supporto delle varie posizioni dei ricorrenti, si deve affermare l’infondatezza di tutti i ricorsi, ivi compresi quelli del Procuratore generale presso la Corte di appello di Palermo, valutata la conformità del provvedimento alle norme stabilite, nonchè apprezzata la tenuta logica e coerenza strutturale della giustificazione, che è stata formulata di volta e per ogni singolo imputato.

Al rigetto dei ricorsi degli imputati consegue, ex art. 616 c.p.p., comma 1, la condanna dei predetti al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta i ricorsi del Procuratore generale.

Rigetta i ricorsi degli imputati che condanna al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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