Cons. Stato Sez. VI, Sent., 19-01-2011, n. 367 Destituzione e dispensa dall’impiego

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo e motivi della decisione

1) – Con la sentenza impugnata il TAR ha respinto il ricorso proposto dall’odierno appellante per l’annullamento del provvedimento in data 22 giugno 1998 recante la destituzione del ricorrente dall’amministrazione della P.S., a decorrere dal 21 gennaio 1993, ai sensi dell’art. 7, nn.1 e 2, del d.P.R. n. 737 del 1981.

Nel respingere il ricorso ha rilevato, il TAR, come il ricorrente avesse prospettato quattro censure; di queste, la prima e la quarta – da esaminarsi congiuntamente – erano incentrate sulla violazione dell’art. 9, comma 2, della legge n.19 del 1990 e dell’art.97 della Costituzione, per inosservanza del termine perentorio di 90 giorni, decorrente dalla comunicazione dell’addebito, prescritto dal predetto art. 9, comma 2, per la conclusione ed il compimento del procedimento disciplinare; quanto al secondo profilo di doglianza – ha rilevato, ancora, il TAR – esso, non dotato di portata autonoma, sviluppava le argomentazioni a sostegno della prima censura, deducendosi, da parte del ricorrente, che, nella vicenda disciplinare in questione non sarebbero emerse specifiche esigenze istruttorie e/o accessorie tali da giustificare un differimento dei termini disciplinari previsti dall’art. 20 del d.P.R. n. 737 del 1981 e di quello di 90 giorni sopra indicato; con il quarto motivo era dedotta la violazione dell’art.16 del d.P.R. n.737 del 1981, in relazione al fatto che gli originari componenti della Commissione sarebbero stati tutti sostituiti in spregio della citata disposizione, che ne avrebbe consentito la sola sostituzione con pari numero di supplenti precedentemente nominati

Ciò premesso, hanno ritenuto, i primi giudici, che la doglianza attorea relativa alla violazione del termine di 90 giorni decorrente dalla data di contestazione dell’addebito per la conclusione del procedimento sanzionatorio, così come rigidamente strutturata, si rivelava (e ciò anche alla luce del principio ne eat iudex ultra petita partium) inaccoglibile in quanto, inequivocamente e puntualmente, ricollegava l’illegittimità del provvedimento impugnato alla circostanza che fosse stato adottato (non oltre il termine complessivo di 270 giorni dall’avvio del relativo procedimento, ma) oltre il termine di giorni 90 decorrente (non dalla scadenza virtuale dei 180 giorni dalla conoscenza della sentenza penale irrevocabile di condanna, ma) dalla data di contestazione degli addebiti all’incolpato; e – hanno proseguito i primi giudici – di tale erronea ed infondata prospettazione si era avveduto lo stesso procuratore del ricorrente che, nel dibattimento svoltosi all’udienza pubblica del 12 febbraio 2009, aveva – operando una sorta di emendatio libelli – incentrato la difesa orale esclusivamente sul superamento del termine (non di 90, ma) di 270 giorni; ma che tale modalità difensiva non era utilmente apprezzabile traducendosi, in ogni caso, in un motivo nuovo e diverso da quello prospettato in gravame e dunque, tardivamente e irritualmente introdotto.

Quanto all’ultima delle censure dianzi riportate, ha rilevato, il TAR, che la circostanza di fatto rappresentata dal ricorrente, pur se parzialmente fondata (invero, degli originari componenti del Consiglio provinciale di disciplina, era rimasta in carica, alla data del 18 aprile 1998, sotto la quale il Consiglio ha ultimato le proprie incombenze deliberando la proposta disciplinare da adottare, la sola d.ssa Ruggeri), non incideva, però, sulla legittimità della deliberazione consiliare appena detta.

2) – Per l’appellante la sentenza sarebbe erronea e dovrebbe essere riformata.

In particolare, non vi sarebbe dubbio sul fatto che i termini di cui al citato art. 9, comma 2, della legge n. 19/1990 sarebbero stati violati, il procedimento disciplinare essendosi concluso ben oltre i 270 giorni (costituenti sicuro termine perentorio) decorrenti dalla data in cui l’Amministrazione ha avuto notizia della sentenza definitiva di condanna del dipendente.

Né vi sarebbe stata l’emendatio libelli supposta dal TAR, dal momento che, in realtà, non sarebbe stato mai introdotto un motivo nuovo e diverso da quello prospettato in ricorso, posto che la puntualizzazione, effettuata in dibattimento dal difensore della parte, dei motivi di ricorso costituirebbe, appunto, una mera specificazione di un profilo del thema decidendum, già introdotto, peraltro, legittimamente e tempestivamente; i motivi di ricorso possono essere formulati anche in termini sintetici e senza specifica indicazione della norma; ciò che rileva essendo solo che la questione giuridica venga configurata nei suoi tratti essenziali che, nella specie, atterrebbero al mancato rispetto dei termini procedimentali.

Nell’ipotesi in cui tali considerazioni non dovessero essere condivise, rileva, peraltro, l’appellante che la specificazione delle censure anzidetta non sarebbe stata, comunque, prospettabile al momento della redazione del ricorso (del 14 ottobre 1998), in quanto solo più recentemente la giurisprudenza si sarebbe orientata nei termini indicati dal TAR, relativi al cumulo dei distinti termini di 180 e 90 giorni; trattandosi, in sostanza, di jus superveniens, di esso avrebbe dovuto, comunque, tenersi conto anche d’ufficio.

Aggiunge, poi, l’appellante, contestando quanto osservato dal TAR in merito al secondo motivo di ricorso, che, anche a non voler ritenere perentorio il termine di cui si discute, non di meno nel caso in esame (in considerazione della condanna penale inflitta all’interessato e frutto di tre gradi di giudizio) non sarebbero esistete quelle esigenze istruttorie e di più approfondita conoscenza della fattispecie che sole avrebbero potuto giustificare – in astratta ipotesi – un ampliamento del termine per disporre le integrazioni ritenute necessarie.

Quanto all’ultima delle censure di primo grado, il TAR avrebbe omesso del tutto di apprezzarla; in particolare, avrebbe omesso di considerare che, con la stessa, il ricorrente avrebbe lamentato il fatto che non sarebbero state prese in considerazione ed esaminate, né dal Consiglio di Disciplina, né dal Capo della Polizia, tutte le eccezioni sollevate in ordine alla composizione del Consiglio stesso dalla difesa dell’incolpato; al riguardo, il Collegio disciplinare avrebbe demandato ogni decisione al riguardo al Capo della Polizia, ma questi non vi avrebbe fatto riferimento alcuno, con manifesto difetto di motivazione.

3) – L’appello non merita accoglimento.

Ritiene il Collegio che correttamente il TAR abbia ritenuto che la nuova censura articolata solo in sede difensiva alla pubblica udienza di discussione dal ricorrente non potesse essere presa in considerazione; si è trattato, invero, al contrario di quanto in questa sede dedotto, non di mera articolazione della censura originaria, ma di doglianza nuova e, come tale inammissibile.

Con il ricorso introduttivo, invero, l’interessato aveva lamentato unicamente il fatto che fossero decorsi ben più di 90 giorni dalla contestazione dell’addebito, con la conseguente violazione del relativo termine, da ritenersi perentorio, di cui all’art. 9, comma 2, della legge n. 16/1990, in relazione al superamento del quale non sarebbero state addotte, a giustificazione, le documentate fasi endoprocedimentali accessorie ed eventuali, normalmente correlate ad attività istruttorie (nella specie, non esperite attesi gli esiti sempre conformi dei tre gradi del giudizio penale) di cui al dpr. n. 3/1957; norma, quest’ultima, applicabile anche al personale della Polizia di Stato.

Come rilevato dal TAR, peraltro, solo in sede difensiva l’interessato ha ampliato il thema decidendum, deducendo che, anche se si fosse tenuto conto – sulla base dell’evoluzione giurisprudenziale – del termine di 180 giorni dallo stesso art. 16 previsto in aggiunta a quello anzidetto di 90, non di meno il termine sarebbe stato superato; questa costituisce, però, censura del tutto nuova, poggiando essa su presupposti giuridicofattuali e normativi differenti rispetto a quelli originariamente prospettati; l’interessato ha fatto riferimento, solo verbalmente all’udienza (e, per ciò stesso, inammissibilmente) non più al termine di 90 giorni originariamente richiamato, decorrente dalla data di contestazione dell’addebito, ma a quello di 90 + 180 decorrente dalla diversa data di conoscenza della sentenza definitiva di condanna da parte della P.A.; ed è solo in tale ampliata ottica temporale che avrebbe dovuto essere valutato se, nella specie, ricorressero o meno i presupposti per un legittimo sforamento del termine stesso, secondo quanto dedotto dalla resistente Amministrazione (che ha precisato, tra l’altro, che i numerosi rinvii dei lavori della organo disciplinare hanno avuto seguito anche per l’assenza, numerose volte rilevata, del medesimo difensore dell’incolpato), in tal modo modificando radicalmente l’originaria censura che, nei suoi circoscritti termini, era certamente priva di fondamento.

In ordine al fatto che il TAR avrebbe dovuto, comunque, considerare che i nuovi orientamenti giurisprudenziali assunti dal giudice amministrativo in ordine all’interpretazione dell’art. 9 cit. avrebbero costituito diritto nuovo e, quindi, di essi avrebbe dovuto tenersi conto anche d’ufficio, va rilevato che, pur a voler aderire, in via del tutto ipotetica, a tale impostazione, non di meno il difensore dell’incolpato si era espressamente occupato, proprio dinanzi alla commissione di disciplina, della questione afferente ai mutati orientamenti interpretativi giurisprudenziali concernenti la disciplina normativa stessa, senza che la relativa censura di superamento del termine complessivo di 270 giorni fosse stata, poi, reiterata innanzi ai primi giudici; sicché non può l’interessato lamentare il mancato esame, da parte di questi ultimi, della questione ora detta, essendone già noti i termini, sin dal giudizio disciplinare, all’interessato che non ha ritenuto, peraltro, di reiterare la censura in sede giurisdizionale.

Va anche rilevato, per completezza, che la data di conoscenza certa della sentenza della Corte di Cassazione da parte dell’Amministrazione è quella del 4 luglio 1997; che il provvedimento impugnato è del 22 giugno 1998; che il 29 marzo 1998 sarebbe scaduto, il predetto termine di complessivi 270 giorni; che, peraltro, le sedute dell’organo disciplinare sono state rinviate, per complessivi 100 giorni circa, a cagione, tra l’altro, dell’assenza, nelle sedute del difensore e/o dell’incolpato; poiché i rinvii delle sedute imputabili anche all’incolpato e/o al suo difensore non possono essere strumentalizzate al fine di prolungare i termini procedimentali fino a produrre la decadenza dello stesso iter procedimentale, ne consegue che il ritardo nell’adozione del provvedimento disciplinare non può ritenersi imputabile all’Amministrazione che, con reiterati rinvii, ha, in effetti, essenzialmente inteso garantire il diritto di difesa fatto valere dal medesimo incolpato.

4) – Quanto al secondo motivo di rigetto, la contestazione non si incentra sulle ragioni addotte in sentenza a sostegno dell’infondatezza del motivo afferente alle modifiche intervenute, nel tempo, nella composizione dell’organo disciplinare, ma poggia, essenzialmente, sulla diversa circostanza (dedotta in primo grado, ma asseritamente non esaminata dal TAR) correlata al difetto di motivazione riconducibile al fatto che la Commissione di disciplina avrebbe rimesso al capo della Polizia di valutare le eccezioni sollevate dalla difesa dell’incolpato relative, appunto, alla composizione dell’organo collegiale medesimo; ma che il Capo della Polizia non avrebbe fornito alcuna indicazione al riguardo.

Anche tale censura appare priva di consistenza, dal momento che le questioni inerenti alla composizione del Consiglio di disciplina sono state esaminate e risolte dal TAR nel senso della piena legittimità della composizione dell’organo; declaratoria di legittimità che, in questa sede, l’esponente non ha fatto oggetto di contestazione; ebbene, il fatto che il Capo della Polizia non abbia fornito alcuna motivazione in ordine alle eccezioni sollevate, al riguardo, dal difensore dell’incolpato non può rilevare sul piano della legittimità, il silenzio del Capo della Polizia implicando semplicemente un tacito rigetto delle doglianze in questione, in relazione alle quali il TAR ha fornito ampia e incontestata motivazione in ordine alla loro infondatezza.

5) – Per i motivi che precedono l’appello in epigrafe appare infondato e va respinto.

Le spese del grado possono essere integralmente compensate tra le parti ricorrendone le condizioni.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge.

Spese del grado compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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