Cass. civ. Sez. III, Sent., 17-02-2011, n. 3847 Medici e chirurghi; Causalità; Responsabilità professionale Sanità

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1.- S.P., nato a termine il (OMISSIS) da N. M.A. in una struttura sanitaria privata, accusò immediatamente dopo la nascita sindrome asfittica ed encefalopatia anossico emorragica. Trasportato presso l’ospedale (OMISSIS), ne fu dimesso con la diagnosi di "sindrome di West in bambino con ritardo psicomotorio".

Nel 1993 i genitori, in proprio e nella qualità, agirono giudizialmente per il risarcimento dei danni nei confronti della società Hyppocratica Villa del Sole e del ginecologo A. G., al quale imputarono la mancata diagnosi di ipossia intra partum in feto megalosoma e l’omesso immediato ricorso al taglio cesareo.

I convenuti resistettero e chiamarono in causa le rispettive;

società assicuratrici, chiedendo di esserne garantiti per l’ipotesi di condanna al risarcimento.

L’espletata consulenza tecnica collegiale riscontrò che il bambino era affetto da "paralisi cerebrale infantile ed espressione tetraparetica di tipo prevalentemente spastico di grado severo (quadro posturale) con epilessia e deficit cognitivo", comportante un’invalidità permanente del 100%.

Con sentenza n. 2042 del 2003 il tribunale di Salerno condannò solidalmente i convenuti al risarcimento dei danni, che liquidò in complessivi Euro 1.201.039,45, oltre alla rivalutazione ed agli interessi. Dichiarò cessata la materia del contendere tra l’ A. e l’assicuratrice Assitalia (che aveva intanto versato il massimale di L. 500.000.000) e condannò la Compagnia Tirrena in l.c.a. a tenere indenne la società Hyppocratica entro i limiti del pattuito massimale.

2.- La sentenza fu autonomamente appellata con distinti atti di citazione da Hyppocratica s.r.l., da Nuova Tirrena in liquidazione e dall’ A..

Riunite le cause ed acquisita la prodotta documentazione, la corte d’appello di Salerno ha – per quanto in questa sede ancora interessa – respinto i gravami della società Hyppocratica e dell’ A. con sentenza n. 408 del 2006.

Sulla scorta delle conclusioni dei consulenti e dei chiarimenti dagli stessi forniti, la corte territoriale ha in sostanza ritenuto che la paralisi cerebrale fosse conseguenza di un’imponente, prolungata asfissia intra partum; che la sofferenza fetale non era stata diagnosticata a causa di inadeguati ed insufficienti rilevamenti cardiotografici durante il travaglio, addirittura mancanti nelle tre ore e mezzo che avevano preceduto la nascita naturale; che il ritardato intervento di rianimazione del neonato tramite intubazione, avvenuto non prima di venti minuti dopo il parto, aveva determinato l’aggravamento di una situazione già fortemente pregiudicata in ragione del mancato ricorso al cesareo, concorrendo a cagionare l’evento nella misura del 25%. 3.- Avverso detta sentenza ricorre per cassazione A. G., affidandosi a sette motivi.

Resistono con controricorso S.A. e N.M. A., in proprio e nella qualità di esercenti la potestà su S.P.. Con distinto controricorso resiste anche la società Hyppocratica s.p.a. Casa di cura Villa del Sole.

Il ricorrente ha depositato ampia memoria illustrativa.

Motivi della decisione

1. Col primo e col secondo motivo (pp. 7 – 46 del ricorso) sono denunciate violazione e falsa applicazione di norme di diritto sul nesso di causalità e sull’erronea commistione fra nesso causale e colpa, nonchè motivazione insufficiente e contraddittoria su fatti decisivi e controversi.

Col terzo (pp. 46 – 57) sono dedotti gli stessi vizi in punto di distribuzione dell’onere probatorio e di valutazione delle prove sul nesso causale.

Col quarto motivo (pp. 57 – 62) la sentenza è subordinatamente censurata per ogni tipo di vizio della motivazione sull’incidenza eziologica della tardiva rianimazione neo-natale.

Il quinto motivo (pp. 62 – 81) investe la decisione in punto di accertamento della colpa dell’ A., ancora deducendosi violazione di legge e vizi di motivazione sulle premesse dell’accertamento.

Il sesto motivo (pp. 81 – 86) attiene all’avvenuto accertamento di un contratto di assistenza al parto tra il ricorrente e la partoriente, nonostante l’espressa deduzione di fatti secondari incompatibili con l’esistenza di tale accordo.

Col settimo (pp. 86 – 97) il ricorrente si duole di essere stato ritenuto responsabile per omissioni e carenze imputabili ad altri (sanitari di turno, ostetrica addetta alla sala parto e casa di cura).

2.- I primi tre motivi possono essere congiuntamente esaminati per la connessione che li connota.

2.1.- Col primo si nega, in particolare, che possa considerarsi accertato che la paralisi cerebrale del bambino sia dipesa da carenza di ossigenazione in travaglio da parto. Come riconosciuto in sentenza sostiene il ricorrente – s’è assistito ad un continuo ridimensionamento della valutazione del ruolo degli eventi perinatali nella produzione delle paralisi cerebrali, che solo nel 3% dei casi derivano da ipossia in travaglio, mentre nel restante 97% sono riconducibili a cause diverse preesistenti, quali fattori genetici, infettivi, tossici e traumatici. Per poter affermare che la paralisi è dipesa da asfissia intra partum, devono ricorrere almeno tre condizioni: a) acidosi metabolica in prelievo dello scalpo, in arteria del cordone ombelicale o in un campione molto precoce di sangue neonatale; b) manifestazione precoce di encefalopatia neonatale in nati di almeno 34 settimane; c) paralisi cerebrale del tipo quadriplegia spastica o discinesia. Se manca uno solo di tali dati essenziali, la sofferenza fetale come causa della paralisi è automaticamente esclusa.

In proposito – continua il ricorrente – la corte d’appello ha bensì riconosciuto il difetto dell’accertamento dell’acidosi metabolica, ma ha superato tale carenza probatoria col rilievo che, non essendo stata l’analisi neppure tentata, "la sua mancanza non può valere a favore di chi non vi ha proceduto" (a pagina 51 della sentenza impugnata). Ma non ha considerato che l’esame sull’acidosi metabolica poteva all’evidenza essere effettuato dai sanitari in servizio presso l’ospedale (OMISSIS), dove il nato alle 21,35 era stato trasferito alle 22,30; così arbitrariamente ritenendo provato il nesso causale tra la condotta omissiva del medico (che non aveva fatto immediato ricorso al cesareo a seguito del mancato rilevamento della sofferenza fetale tramite controllo cardiotografico) e l’evento, rifiutando ulteriori indagini quali l’esame dello specifico tessuto cerebrale interessato dalla patologia ed in definitiva ritenendo provato che l’omissione del medico aveva provocato l’evento benchè fosse assai "più probabile che non" che esso fosse dipeso da altre cause.

2.2.- Col secondo motivo si imputa alla corte di merito di aver considerato rilevanti, ai fini dell’apprezzamento del nesso eziologico, circostanze se mai idonee a qualificare la colpa, confondendo piani da tenere invece ben distinti.

Così, la corte d’appello ha rilevato che la bassa frequenza statistica del nesso causale tra paralisi cerebrale neonatale ed asfissia perinatale è stata riconosciuta solo successivamente all’epoca del parto in questione (pagina 45 della sentenza), poi ritenendo (a pagina 56) che se, per questo, si fosse dovuto escludere la colpa del medico, si sarebbe allora dovuto ammettere che egli avesse anticipato i risultati della letteratura medica consolidatasi solo successivamente.

Osserva il ricorrente che se, ai fini del giudizio sulla rilevanza causale, valesse il momento antecedente o successivo all’azione in cui le conoscenze scientifiche sono state acquisite, si arriverebbe all’assurdo di dichiarare la responsabilità del medico per non avere applicato delle cure del tutto inutili, solo perchè all’epoca del fatto ancora si ipotizzava che potessero avere una qualche efficacia;

mentre è noto che la colpa funge da limite all’oggettiva predicabilità della responsabilità, una volta accertata la relazione causale tra condotta ed evento, che ne costituisce un prius (Cass., n. 7997/2005).

2.3.- Col terzo motivo si premette che la corte d’appello ha affermato: "la sorprendente mancanza di tracciati cardiotografici nelle tre ore e mezzo successive all’ultima, eppure non del tutto tranquillante, lettura delle ore 18… rende impossibile l’accertamento della regolarità o meno del battito fetale, che costituisce un ulteriore criterio o parametro non specifico, ma poichè è ascritta alla condotta negligente di chi dovrebbe giovarsi, ritiene questa Corte che tale carenza probatoria ritorni a danno del professionista sanitario e del contraente Casa di cura, poichè incombeva ad essi provare a vario titolo (…) l’assenza di colpa".

Si sostiene quindi che:

– non era stato però accertato che vi fosse stato un immediato e sostenuto deterioramento del battito cardiaco fetale, costituente uno dei 5 elementi che, nella ricorrenza degli altri 3 cui s’è fatto sopra riferimento (ma l’acidosi non era stata accertata), devono essere tutti insieme presenti per poter confermare la diagnosi effettuata;

– s’era dunque fatta erronea applicazione del principio cosiddetto di vicinanza della prova, giacchè il predetto esame poteva "all’evidenza" essere effettuato soltanto all’Ospedale (OMISSIS), dove i sanitari addettivi non vi provvedettero e dove gli attori quell’esame non richiesero (così il ricorso, a pagina 49);

– si era in definitiva conferita all’omessa compilazione della cartella clinica (non ascrivibile all’ A., che nell’immediatezza del parto aveva dovuto affrontare i seri problemi che interessavano la partoriente ed il bambino) una valenza probatoria inusitata, del tutto estranea ai principi del nostro sistema; mentre presunzioni da difetto di compilazione sono possibili solo se manchino possibilità alternative di accertamento dei fatti;

– si erano disattese le dichiarazioni dei testi (l’ostetrica ed un medico estraneo all’equipe medica che seguiva il travaglio), i quali avevano deposto nel senso dell’assenza di sintomi che potessero suscitare allarme e dell’intervenuta effettuazione dei rilevamenti cardiotografici, con un’apodittica opzione della corte d’appello nel senso dell’inattendibilità dei testimoni quale conseguenza di un loro (giuridicamente insussistente) interesse alla causa, mentre tanto potrebbe influire solo sulla capacità del teste ex art. 246 c.p.c., ma non vale comunque a legittimare, ex se, un giudizio di inattendibilità. 3.- Le censure sono infondate.

La questione di fondo concerne il mancato accertamento dell’acidosi metabolica mediante un’analisi che, secondo il ricorrente, si sarebbe potuta effettuare "solo" presso l’ospedale (OMISSIS), dove il bambino era stato trasportato dopo la rianimazione eseguita nel luogo della nascita. Non è peraltro detto in ricorso quale fosse la ragione per la quale l’indagine non poteva esser fatta immediatamente, nella stessa struttura dove il parto era avvenuto;

come invece ritenuto dalla corte d’appello, laddove ha affermato che "l’analisi non è stata nemmeno tentata, sicchè la sua mancanza non può valere a favore di chi non vi ha proceduto" (a pagina 51, primo capoverso, della sentenza).

La conclusione è conforme a diritto poichè, quante volte l’azione o l’omissione siano in se stesse concretamente idonee a determinare l’evento (nella specie, paralisi cerebrale da ipossia intra partum), il difetto di accertamento di un fatto astrattamente idoneo ad escludere il nesso causale tra condotta ed evento (nella specie, ipotetica presenza di una paralisi cerebrale anteriore al travaglio da parto) non può essere invocato, benchè sotto il profilo statistico quel fatto sia "più probabile che non", da chi quell’accertamento avrebbe potuto compiere e non abbia effettuato (nella specie, dell’acidosi metabolica in prelievo dello scalpo, in arteria del cordone ombelicale o in un campione molto precoce di sangue neonatale).

Si tratta di un principio "necessario", in linea con quello enunciato da Cass., n. 12103/00, concernente un caso nel quale si sosteneva che la morte di una paziente potesse bensì essere stata conseguenza delle accertate omissioni diagnostiche degli ultimi giorni, ma si era tuttavia escluso che sussistesse la prova del nesso causale tra comportamento omissivo ed evento in quanto – non essendo stata effettuata l’autopsia, essendo lacunosa la cartella clinica e non essendo stati disposti gli accertamenti clinici necessari – i consulenti non avevano potuto escludere che la morte fosse sopravvenuta per cause autonome e non collegate allo stato patologico preesistente. Si affermò così che la possibilità, pur rigorosamente prospettata sotto il profilo scientifico, che la morte della persona ricoverata presso una struttura sanitaria possa essere intervenuta per altre, ipotetiche cause patologiche, diverse da quelle diagnosticate ed inadeguatamente trattate, che non sia stato tuttavia possibile accertare neppure dopo il decesso in ragione della difettosa tenuta della cartella clinica o della mancanza di adeguati riscontri diagnostici (in quel caso anche autoptici), non vale ad escludere la sussistenza di nesso eziologico tra la colposa condotta dei medici in relazione alla patologia accertata e l’evento (in quel caso la morte), ove risulti provata la idoneità di tale condotta a provocarlo. E ciò per la non nascosta ragione che qualunque diversa conclusione avrebbe di fatto precluso la prova della responsabilità professionale del medico (e/o dell’ospedale) da omissione colposa tutte le volte che, per la mancanza dei dati che lo stesso medico avrebbe dovuto rilevare e degli accertamenti che egli stesso (e/o la struttura ospedaliera) avrebbe dovuto compiere, non possa poi escludersi che la morte sia in ipotesi derivata da cause indipendenti dalla accertata patologia, pur se quest’ultima era in se stessa idonea a provocarla senza interventi adeguati (così in motivazione, sub nn. 4.1 e 4.2.).

La giurisprudenza successiva è conforme (cfr., ex multis, Cass., nn. 11316/03, 9085/06, 1538/10 e 10060/10), anche in riferimento alla possibilità di far ricorso a presunzioni, se la prova non possa essere data per un comportamento ascrivibile alla stessa parte contro la quale il fatto da provare avrebbe potuto essere invocato, nel quadro dei principi in ordine alla distribuzione dell’onere della prova ed al rilievo che assume a tal fine la "vicinanza alla prova", e cioè l’effettiva, possibilità per l’una o per l’altra parte di offrirla.

Benchè debba riconoscersi – come magistralmente posto in luce in ricorso e in memoria – che effettivamente nella parte della motivazione concernente il nesso causale i riferimenti alla colpa sono talora impropri (così, ad esempio, alle pagine 47 e 51; non anche a pagina 56, come subito si dirà), va tuttavia escluso che essi rivelino confusioni di sorta, come sarebbe stato fondatamente sostenibile se l’esistenza del nesso causale fosse stata affermata per il solo fatto dell’esistenza della colpa. Nel solido ed analitico impianto argomentativo della decisione la corte territoriale si fa, infatti, diffusamente carico della riconosciuta minore frequenza statistica del nesso causale tra ipossia o anossia perinatale e paralisi cerebrale, nonchè della proclamata minore utilità del ricorso alla diagnostica cardiotocografica, tuttavia motivatamente concludendosi che "nel caso di specie si è in presenza di quel nesso e quella diagnostica sarebbe stata utile a prevenire, almeno in parte, il danno" (per il 25% ascritto al ritardato intervento di rianimazione, avvenuto venti minuti dopo il parto).

In particolare, la sentenza da puntuale conto della presenza "di almeno due criteri discretivi per l’attribuzione all’asfissia intra partum della paralisi cerebrale: la precoce manifestazione severa di encefalopatia neonatale in nati di almeno 34 settimane…; e la paralisi cerebrale del tipo quadriplegia spastica o discinesia", chiarendo anche che a tali parametri "si aggiungono almeno due dei criteri o parametri non specifici, cioè l’indice di Apgar tra 0 e 6 per più di cinque minuti… e l’evidenza precoce all’imaging di un’anomalia cerebrale acuta", nonchè la "sorprendente mancanza di tracciati cardiotocografici nelle tre ore e mezzo successive all’ultima – eppure non del tutto tranquillante – delle ore 18" (pp. 49 e 50 della sentenza). E conclude nel senso della dipendenza della paralisi cerebrale dalla anossia intra partum non solo "alla stregua delle conoscenze mediche disponibili e generalmente accettate all’epoca dei fatti, ma anche alla luce dei successivi sviluppi della scienza e dell’arte medica" (pag. 52 della sentenza), non senza aver precedentemente rilevato l’assenza di qualsiasi condizione indicativa di paralisi ante partum (pag. 47 della sentenza).

Correttamente, la conclusione è riferita al nesso causale e non alla colpa, la quale va ovviamente valutata alla stregua delle conoscenze scientifiche proprie del momento storico in cui cade la condotta, com’è stato esattamente fatto dalla corte d’appello. Che a pagina 56, affrontando il problema della colpa dopo aver compiutamente analizzato quello del nesso causale, appunto chiarisce come non si faccia certo carico al ginecologo di aver anticipato i risultati della letteratura medica consolidatasi solo successivamente, ma di aver imprudentemente usato lo strumento diagnostico costituito dai tracciati cardiotocografici, sottovalutandone le implicazioni e discostandosi dai criteri scientifici di settore in quel momento generalmente accertati e comunque non superati, se non in parte, neppure nelle elaborazioni successive.

L’imponenza dell’interessamento cerebrale immediatamente anteriore al parto, la prolungata asfissia, l’ampiezza e l’entità dell’insulto al tessuto cerebrale riscontrato nell’immediatezza del parto, con l’alterazione del parenchima cerebrale e la dilatazione degli spazi liquidali cerebrali, in una alla considerazione dei sintomi riferiti ai primi minuti successivi al parto (neonato silente e cianotico, che ha iniziato a respirare dopo l’intubazione, avvenuta ad almeno venti minuti dalla nascita per l’intervento del neonatologo; quadro clinico all’atto del ricovero presso l’ospedale (OMISSIS), avvenuto entro le tre ore dal parto, di sindrome apatica ipotonica con scarsa reattività) hanno indotto la corte d’appello a ritenere, con motivazione del tutto immune da errori di diritto, "che vi è stata asfissia c.d. intra partum, che essa è stata imponente e che è stata alla base, con idonea efficacia causale, del quadro clinico finale".

Tale conclusione non è infirmata dal pur suggestivo rilievo del ricorrente che, essendo la preesistenza della paralisi cerebrale statisticamente più probabile, l’applicazione del criterio "del più probabile che non", ormai invalso nell’apprezzamento della sussistenza del nesso causale in campo civile, avrebbe dovuto indurre a conclusioni opposte a quelle raggiunte dalla corte d’appello.

Costituisce, invero, consolidato e condivisibile approdo dottrinario e giurisprudenziale che la probabilità statistica consente solo di affermare con quale frequenza eventi di un certo tipo si verificano, ma non ha alcuna capacità esplicativa e non può perciò garantire la spiegazione causale di un singolo evento; essa indica solo la frequenza del rapporto tra classi di eventi, attenendo a tipi di fatto e non al rapporto tra un determinato fatto, supposto causante, ed un determinato evento, supposto causato. Nel processo giudiziario, dovendo il giudice ricostruire fatti determinati e non studiare fenomeni naturali o sociali, viene invece in rilievo la probabilità logica, che indica il grado di conferma razionale della conclusione deduttiva con la quale si afferma che un singolo evento è stato causato dalla condotta di chi si assuma responsabile del suo accadimento.

Nel caso di specie sono stati ampiamente e niente affatto contraddittoriamente esposti i fatti ritenuti dal giudice del merito rilevanti ai fini della conclusione della sussistenza di nesso causale (da apprezzarsi, appunto, come grado di probabilità logica) tra il comportamento omissivo del medico e l’evento e si è altresì affermato, del tutto in linea con le considerazioni appena svolte, che "non è di per sè contraddittorio dare conto della non frequenza statistica di un evento e poi riscontrarlo, dando conto delle modalità del rilevamento, come realmente accaduto in un singolo caso" (così la sentenza impugnata, a pag. 45, dopo aver affermato – come s’è già osservato sopra ma conviene ripetere – che i cc.tt.uu. si erano "fatti carico, con argomentazioni ampie, ponderate e approfondite, proprio delle critiche iniziali, per giungere poi alla conclusione che, nonostante la riconosciuta minore frequenza statistica del nesso causale tra ipossia o anossia perinatale e paralisi cerebrale e la riconosciuta minore utilità del ricorso alla diagnostica cardiotografica, nel caso di specie si è in presenza di quel nesso e quella diagnostica sarebbe stata utile a prevenire, almeno in parte, il danno").

Quanto all’argomento – ampiamente sviluppato in memoria – che la sentenza gravata avrebbe in realtà equiparato la nozione giuridica di condizione necessaria a quella di causa semplicemente idonea dell’evento, in particolare omettendo di procedere alla progressiva eliminazione delle possibili (e preesistenti) cause alternative secondo il metodo c.d. dell’analisi differenziale da condurre mediante il rinnovo della consulenza tecnica, va rilevato, per un verso, che il ricorrente non ha potuto chiarire come, a distanza di oltre undici anni dalla nascita, sarebbe stato possibile il riscontro di possibili cause della risalente paralisi cerebrale diverse da quella ravvisata dalla Corte d’appello (salvo di quelle di tipo genetico, peraltro già escluse dai consulenti d’ufficio); e, per altro verso, che l’indagine relativa all’acidosi metabolica (idonea, nella ricorrenza di altri non specifici elementi, ad affermare con assoluta certezza la sussistenza di asfissia intra partum e, dunque, in caso di esito negativo dell’indagine, ad autorizzare a contrario l’inferenza sull’esistenza di una causa alternativa) ben avrebbe potuto essere effettuata subito dopo la nascita (evidentemente su iniziativa dello stesso medico che sovrintendeva al parto e non certo dei genitori del neonato, come si pretende in altra parte del ricorso, anche se in riferimento al momento successivo al ricovero del neonato nell’ospedale (OMISSIS)).

Ma, come s’è osservato, non lo fu.

Sicchè, concludendo sul punto, deve ritenersi che la decisione è conforme al principio (anch’esso enunciato dalla richiamata Cass. n. 12103/00) secondo il quale, per escludere che un determinato fatto in concreto causalmente idoneo abbia concorso a cagionare un danno, non basta affermare che il danno stesso avrebbe potuto verificarsi anche in mancanza di quel fatto, ma occorre dimostrare, avendo riguardo a tutte le circostanze del caso concreto, che il danno si sarebbe ugualmente verificato senza quell’antecedente.

3.1.- Quanto alla censura relativa alla ritenuta inattendibilità dei testi (sanitario di turno ed ostetrica), i quali avevano rispettivamente affermato che i rilevamenti cardiotografici non erano preoccupanti e che erano state continuativamente effettuate auscultazioni del battito cardiaco fetale, le motivate valutazioni della corte d’appello non prestano il fianco a critiche rescindenti, essendosi in sentenza affermato (a) che in sede di consulenza tecnica s’era invece ritenuto che i tracciati fossero tali da suscitare preoccupazione, considerate anche la megalosomia e la rottura anticipata delle membrane; e (b) che l’auscultazione del battito da parte di un’ostetrica non presenta lo stesso grado di attendibilità, in ordine alla valutazione dello stato del feto, di un tracciato cardiotocografico letto da un medico.

4.- Col quarto, subordinato, motivo di ricorso si assume che la corte d’appello abbia insufficientemente motivato in ordine all’incidenza causale del ritardato intervento di rianimazione del neonatologo non prima di 20 minuti dopo il parto, pervenendo alla conclusione dell’incidenza causale di quel ritardo per il (solo) 25%. Il netto miglioramento dello stato del neonato dopo l’intubazione – qual era stato rappresentato da testi escussi dopo le operazioni peritali, delle cui dichiarazioni i consulenti non avevano pertanto potuto tener conto – dimostrava, invece, che la manovra era stata di indubbia efficacia e che, se fosse stata fatta prima, avrebbe notevolmente ridotto il danno, sicchè a quella condotta omissiva andava riconosciuta un’incidenza causale maggiore.

La Corte d’appello aveva, per contro, ricavato la modesta incidenza della rianimazione natale semplicemente dal danno cerebrale riscontrato, senza porre rimedio alla parzialità dei dati sui quali i consulenti avevano basato le loro conclusioni.

4.1.- Il motivo è infondato.

La corte d’appello ha ritenuto che "la situazione era già seriamente compromessa al momento dell’espulsione del feto dall’alveo materno, sicchè un’estrazione più precoce avrebbe quanto meno grandemente limitato il danno, se non anche consentito un pieno recupero, essendo previsto nella stessa letteratura medica che un intervento di riossigenazione estremamente tempestivo potrebbe avere esiti altamente favorevoli per evitare la irreversibilità della lesione;

che la situazione già grave è stata ulteriormente aggravata per il ritardo con cui la manovra di intubazione o di rianimazione del neonato è stata eseguita" (pagina 53).

Ha poi affermato che la manovra di intubazione aveva "consentito al neonato di iniziare a respirare e di acquistare un colorito roseo" (pp. 53 e 54).

Ha infine tenuto conto delle risultanze successive ai chiarimenti offerti dai consulenti, laddove ha considerato che "neppure l’ulteriore istruttoria modifica la ricostruzione del fatto: visto che l’intervento decisivo per la rianimazione è effettivamente avvenuto non prima di 20 minuti dopo il parto, come riferito dai testimoni ascoltati dopo il deposito della consulenza a chiarimenti" (pag. 59).

Per un verso, allora, non appare determinante il rilievo che la manovra di intubazione avesse sortito risultati positivi, posto che prima di quella manovra il bambino addirittura non respirava; per altro verso, la corte ha tenuto conto sia della la positività del suo esito (ovvia, in relazione al fatto che il neonato aveva potuto finalmente respirare), sia delle risultanze dell’ulteriore istruttoria, che tuttavia non l’hanno indotta a determinare in una percentuale diversa da quella indicata dai consulenti l’apporto causale della condotta del ginecologo e quella della clinica per il ritardo nell’intervento di rianimazione (quantificato quest’ultimo nel 25%).

Non sussistono, dunque, le lacune della motivazione indicate dal ricorrente.

5.- Il quinto motivo di ricorso imputa alla corte territoriale di avere, benchè fosse stata depositata documentazione dalla quale risultava che in alcuni casi la lesione cerebrale può essere la causa piuttosto che la conseguenza dell’asfissia neonatale, ravvisato l’imprudenza del ginecologo per l’essenziale rilievo conferito alla metodica della cardiotografia quale indice predittivo di una sofferenza fetale acuta, idonea a dar corso all’evento della paralisi cerebrale neonatale.

Si contesta, in particolare: (a) che l’esame della cardiotografia sia un indice attendibile dello stato di sofferenza del feto, avendo la recente letteratura scientifica chiarito che, nelle gravidanze a basso rischio, è vero il contrario; (b) che nel caso di specie i tracciati avessero effettivamente evidenziato delle "anomalie serie", anzichè "modeste alterazioni"; (c) che i rilevamenti si fossero protratti per non più di 25 minuti invece dei 50 consigliati, come era stato ripetutamente sostenuto dal ricorrente sulla base dei rilievi del proprio consulente di parte; (d) che fattori quali la raacrosomia e la rottura anticipata delle membrane fossero ulteriori indici dello stato di sofferenza, atti ad integrare ed a confermare i risultati della cardiotografia ed a consigliare il ricorso al cesareo.

Il ricorrente si duole, in particolare, che la corte d’appello abbia respinto la richiesta di una rinnovazione della perizia con esperto di cardiotografia ed abbia preferito procedere direttamente al riesame dei profili tecnici, dichiarando – con chiaro errore di diritto – di aver deciso "alla stregua della prevalente letteratura scientifica del momento", benchè quella letteratura non fosse versata in atti e le conclusioni della corte non fossero in linea con le conclusioni e dei consulenti d’ufficio e di quelli di parte.

Si sostiene, poi, che i tracciati cardiotografici avevano durata di 50, 70 e 40 minuti (e che la risposta dei consulenti alle contestazioni avanzate sul punto dal ricorrente non erano esaurienti), si svilisce la valenza A della macrosomia e della rottura anticipata delle membrane come indici predittivi della sofferenza fetale che avrebbe dovuto consigliare l’immediato ricorso al cesareo, si sostiene che l’evento non era concretamente prevedibile in relazione alla bassissima possibilità percentuale che si verificasse e che, sotto tale aspetto, non poteva considerarsi imprudente la condotta del medico che aveva optato per una soluzione di vigile attesa del parto naturale.

5.1. – Il motivo è infondato.

Il profilo della colpa del medico è adeguatamente apprezzato dalla corte d’appello alle pagine 55 – 58 della sentenza, con motivazione che tiene specificamente conto delle critiche mosse dall’appellante e che contiene un apprezzamento supportato dalle conclusioni dei cc.tt.uu. laddove conclude nel senso che "gli esami presentavano quelle che, alla stregua della letteratura scientifica del momento, potevano comunque qualificarsi anomalie o comunque situazioni non tranquillanti, che avrebbero dovuto indurre l’ostetrico ad un monitoraggio continuo e più approfondito (di durata maggiore) e soprattutto nelle ultime ore prima del parto, siccome considerate in una alla microsomia fetale ed alla rottura anticipata delle membrane.

Nè rileva che questi due ultimi elementi possano da sè soli risultare irrilevanti proprio in quanto, come detto, essi hanno concorso ad un quadro generale di allarme che non poteva, con l’ordinaria diligenza professionale come richiesto anche dalle regole dell’arte accettate al momento del fatto, non indurre l’ A. ad adottare altre cautele: quali la ripetizione dell’esame e, verosimilmente per l’imponenza dell’interessamento cerebrale immediatamente anteriore al parto, la probabilità del rilievo di una sofferenza acuta nell’imminenza della sua insorgenza e la decisione di tentare di evitarne le conseguenze peggiori con una rapida decisione di parto cesareo o anche solo disponendo la presenza in sala parto di un neonatologo o anestesista per un’eventualità di immediata rianimazione".

Si tratta, all’evidenza, di apprezzamenti di fatto, sufficientemente e non contraddittoriamente motivati.

L’affermata circostanza che i tracciati cardiotografici in atti attestassero una durata del rilevamento di 50, 70 e 40 minuti, in luogo dei 25 erroneamente supposti dalla corte d’appello, non assume rilievo determinante (al di là della natura percettiva dell’errore denunciato), essendo inequivoco che la corte territoriale ha attribuito peso determinante alla "sorprendente mancanza di tracciati cardiotografici nelle tre ore e mezzo successive all’ultima, eppure non del tutto tranquillante, lettura delle ore 18" ed alla incontestata assenza in sala parto sia di un neonatologo che di un anestesista. Il che integra, in fatto, una valutazione opposta a quella del ricorrente, il quale aveva sostenuto che la situazione consigliava nulla più che una vigile attesa, e dunque, implicitamente, che un comportamento cauto fosse stato in concreto adottato.

L’insussistenza dei prospettati vizi della motivazione in ordine alla prevedibilita dell’evento esclude la ricorrenza della violazione, denunciata in rapporto di consequenzialità logica, degli artt. 1176, 1218, 1223, 2236 e 2697 c.c., art. 116 c.p.c., artt. 40 e 41 c.p..

6.- Col sesto motivo la sentenza è censurata per violazione di norme di diritto e vizio della motivazione in punto di positivo accertamento dell’esistenza di un contratto di assistenza al parto tra il ricorrente e la partoriente, nonostante l’espressa deduzione di fatti secondari incompatibili con l’esistenza di un simile accordo (dimostrata qualità del ricorrente di dipendente della casa di cura, assoggettato alle direttive del responsabile del reparto), la non ammissione della prova per interpello e per testi sulla mancanza dell’accordo, l’omessa indicazione da parte della corte d’appello della fonte processuale del convincimento espresso in ordine all’esistenza di un rapporto trilaterale tra paziente, ginecologo e casa di cura privata.

6.1.- I controricorrenti S./ N. oppongono che v’era in atti la prova relativa e che, in particolare, a tale contratto il medico dette esecuzione "anche quando la paziente era ricoverata in travaglio nella fascia oraria in cui egli non prestava servizio presso la casa di cura, rimanendo dal proprio studio privato in contatto telefonico costante con l’ostetrica che la seguiva materialmente, alla quale dettava la terapia da praticare, disponendo i controlli necessari ed alla fine intervenendo quando era ormai giunto il momento della nascita". 6.2.- A pagina 23 della sentenza si legge che "è risultato provato che la Piccoli si era affidata al Dott. A.G. affinchè la seguisse anche durante il parto e che ella si era ricoverata presso la struttura sanitaria,…, perchè quivi ella poteva avere la disponibilità di detto sanitario".

Ora, effettivamente la sentenza non dice che la prova era integrata dalle circostanze in questa sede esposte dai controricorrenti e che varrebbero a provare il patto di assistenza al parto in riferimento al comportamento del debitore nella fase di esecuzione della prestazione, ma espone non di meno fatti di tale intrinseca forza probatoria in relazione al criterio di giudizio costituito dai dati di comune esperienza (dei quali il giudice "deve" tener conto: Cass., nn. 22022/10 e 24143/10) che l’affermazione della corte d’appello è solo apparentemente apodittica. Quei fatti sono stati in motivazione esposti coi rilievi: (a) che il ginecologo aveva seguito la paziente per l’intera durata della gravidanza, (b) che ella si era nel primo pomeriggio ricoverata proprio nella casa di cura presso la quale egli operava, (c) che il parto avvenne (tardivamente, secondo le conclusioni della corte d’appello) solo dopo che il ginecologo di cui la partoriente era cliente fu chiamato, intorno alle ore 20, dall’ostetrica di turno.

Tale ultima circostanza, prospettata dallo stesso ricorrente nell’esposizione dell’ultimo motivo di ricorso (a pagina 87), è più di ogni altra logicamente compatibile solo con la sussistenza di un contratto di assistenza al parto, giacchè il ginecologo non fu solo chiamato, ma alla chiamata rispose, appunto recandosi in clinica per assistere la partoriente. Nè afferma di aver mai sostenuto che alle 20 reiniziasse un suo nuovo turno di servizio, ulteriore rispetto a quello terminato alle 14.

Il motivo va dunque respinto.

7.- Col settimo ed ultimo motivo di ricorso, deducendosi violazione e falsa applicazione di norme di diritto ed ogni tipo di vizio della motivazione su punti decisivi, la sentenza è censurata:

per non avere specificamente esaminato la doglianza con la quale l’ A. aveva sostenuto di non poter essere considerato responsabile delle inadempienze degli altri sanitari che si occuparono del travaglio della N. dopo le ore 14 del giorno del parto (termine documentalmente provato del suo turno di servizio in clinica), e fino a quando fu chiamato dall’ostetrica di turno, ossia dopo le ore 20;

– per non aver considerato che l’ostetrica addetta alla sala parto dalle 14 alle 21 aveva, in sede testimoniale, affermato di non aver notato nella partoriente sintomi che potessero indurla a chiamare il medico (nessun medico), sicchè l’affermata, significativa ipossia intra partum manifestatasi dopo il tracciato cardiotografico delle ore 18 si sarebbe dovuta ascrivere al non diligente svolgimento del proprio compito da parte delle ostetriche, che erano dipendenti della clinica e non certo ausiliarie del ricorrente A., il quale non aveva alcun dovere di vigilanza e controllo sulle stesse mentre non era in servizio;

– per non aver ritenuto, comunque inadeguatamente motivando, che la mancanza presso la casa di cura di attrezzature per poter effettuare l’elettrocardiografia fetale e l’emogasanalisi su campioni di sangue prelevati dallo scalpo fetale (mancanza che il ricorrente aveva chiesto di provare, avendo i consulenti d’ufficio affermato che l’asfissia si sarebbe potuta diagnosticare tramite quegli ulteriori esami), così come la presenza in clinica di un solo cardiotocografo usato anche per il controllo di pazienti non ricoverate e per controlli di routine e l’assenza di uno specifico servizio di guardia ostetrica (che pure il ricorrente aveva inutilmente domandato di poter provare) costituivano connotazioni proprie della struttura sanitaria, la quale avrebbe dovuto rispondere in via esclusiva di tale carenze per fatto proprio, con correlativa esclusione della responsabilità del Dott. A. o quantomeno, in subordine, con riduzione della sua quota di responsabilità al di sotto del riconosciuto 75%. 7.1.- Anche questo motivo deve essere disatteso.

Una volta inquadrato, con motivazione infondatamente censurata, il rapporto intercorso tra paziente, medico e casa di cura privata come conseguito ad un contratto trilaterale e correttamente affermato che "la struttura sanitaria aveva l’obbligo di una compiuta informativa del paziente sui rischi di eventuali dimensioni od entità del suo equipaggiamento non idonee a fronteggiare particolari situazioni patologiche o devianti – sia pure con una qualificabilità di normalità statistica – dalla norma", la corte d’appello ha più avanti rilevato che "non interessa alla controparte del rapporto negoziale – cioè alla gestante o ai danneggiati per colpa aquiliana quale fosse la struttura interna dell’organizzazione dei danneggianti, attesa la natura delle obbligazioni comunque assunte".

La conclusione è corretta in diritto, in quanto l’obbligo informativo circa i limiti di equipaggiamento o di organizzazione della struttura sanitaria grava, in ipotesi siffatte, anche sul medico, convenzionato o non con la casa di cura, dipendente o non della stessa, che abbia concluso con la paziente un contratto di assistenza al parto (o, con qualunque paziente, di tipo comportante la possibilità dell’instaurarsi di situazioni patologiche che non sia agevole fronteggiare) presso la casa di cura in cui era convenuto che ella si sarebbe ricoverata. E ciò non solo per la natura trilaterale del contratto, ma anche in ragione degli obblighi di protezione che, nei confronti della paziente e dei terzi che con la stessa siano in particolari relazioni, come l’altro genitore ed il neonato, derivano da un contratto che abbia ad oggetto tale tipo di prestazioni.

Ne consegue che, in caso di violazione dell’obbligazione di informare, ove sia sostenibile che il paziente non si sarebbe avvalso di quella struttura se fosse stato adeguatamente informato (secondo uno schema analogo a quello descritto, in tema di consenso informato, da Cass., n. 2847/10), delle conseguenze derivate dalle carenze organizzative o di equipaggiamento della struttura risponde anche il medico col quale il paziente abbia instaurato un rapporto di natura privatistica.

Nella specie non è affermato che l’obbligazione informativa fosse stata adempiuta dal ricorrente; ed è rimasto di conseguenza estraneo al thema decidendum il punto relativo alla dimostrazione, ovviamente possibile quasi esclusivamente attraverso inferenza induttiva, che la partoriente avrebbe partorito altrove se fosse stata informata dei rischi che poteva correre presso la casa di cura privata dove prestava la propria opera il ginecologo che la seguiva.

La ripartizione delle quote di responsabilità nei rapporti interni ha integrato un giudizio di fatto, infondatamente censurato sotto il profilo del vizio della motivazione.

8.- Il ricorso è conclusivamente respinto.

La complessità delle questioni poste induce all’integrale compensazione delle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

LA CORTE DI CASSAZIONE rigetta il ricorso e compensa le spese.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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