Corte Costituzionale, Sentenza n. 134/2012, in tema di pene accessorie dell’inabilitazione all’esercizio di un’impresa commerciale

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Gazzetta Ufficiale – 1ª Serie Speciale – Corte Costituzionale n. 23 del 6-6-2012

SENTENZA

nei giudizi di legittimita’ costituzionale dell’articolo 216,
ultimo comma, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del
fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione
controllata e della liquidazione coatta amministrativa), promossi
dalla Corte d’appello di Trieste con ordinanza del 20 gennaio 2011 e
dalla Corte di cassazione con ordinanza del 21 aprile 2011,
rispettivamente iscritte ai nn. 77 e 251 del registro ordinanze 2011
e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 19 e 51,
prima serie speciale, dell’anno 2011.
Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei
ministri;
udito nella camera di consiglio del 4 aprile 2012 il Giudice
relatore Paolo Maria Napolitano.

Ritenuto in fatto

1.- Con ordinanza del 20 gennaio 2011 la Corte d’appello di
Trieste ha sollevato – in riferimento agli articoli 3, 4, 27, terzo
comma, e 41 della Costituzione – questione di legittimita’
costituzionale dell’articolo 216, ultimo comma, del regio decreto 16
marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato
preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione
coatta amministrativa), nella parte in cui prevede che, per ogni
ipotesi di condanna per i fatti di bancarotta previsti nei commi
precedenti del medesimo articolo, si applichino le pene accessorie
dell’inabilitazione all’esercizio di un’impresa commerciale e
dell’incapacita’ ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi
impresa per la durata di dieci anni.
La Corte rimettente premette che oggetto del giudizio e’
l’appello avverso la sentenza con la quale gli appellanti sono stati
condannati dal Tribunale di Udine in ordine al «delitto di bancarotta
fraudolenta patrimoniale p. e p. dagli artt. 110 e 40, comma 2, c.p.
e dagli artt. 216, comma 1 n. 1, 223, comma 1, e 219 R.D. 16.3.1942,
n. 267 (l. Fall.), per avere (recte: perche’), in concorso tra loro,
quali componenti del consiglio di amministrazione, e quindi
amministratori della societa’ (omissis) con sede in Trivignano
Udinese (UD) […] dichiarata fallita con sentenza del Tribunale di
Udine n. 30/2006 del 26 giugno 2006, distraevano, dissipavano, ovvero
non impedivano la distrazione e la dissipazione, di attivita’ della
societa’ fallita».
La Corte rimettente evidenzia che il Tribunale di Udine, con la
sentenza appellata, ha condannato tutti gli imputati, previa
concessione delle attenuanti generiche ritenute prevalenti rispetto
alle aggravanti contestate, alla pena principale di anni due di
reclusione e alla pena accessoria, di cui all’art. 216, ultimo comma,
del r.d. n. 267 del 1942, dell’inabilitazione all’esercizio di
un’impresa commerciale per la durata di anni dieci e
dell’incapacita’, per la stessa durata, ad esercitare uffici
direttivi presso qualsiasi impresa. A tutti gli imputati e’ stato
concesso, inoltre, il beneficio della sospensione condizionale della
pena.
All’udienza dibattimentale del giudizio di appello il difensore
degli imputati ha rinunciato ai motivi d’appello diversi da quello
afferente l’entita’ della pena principale e delle conseguenti pene
accessorie, di cui all’art. 216, ultimo comma, del r.d. n. 267 del
1942 e ha concluso chiedendo la riduzione di entrambe le pene, quella
principale e quella accessoria.
Il Procuratore Generale della Repubblica ha chiesto la riduzione
della pena inflitta agli imputati, tenuto conto «dell’intervenuto,
seppur tardivo, risarcimento del danno nei confronti del fallimento
gia’ costituitosi parte civile, costituzione revocata in apertura
d’udienza, a quella di anni uno e mesi sei di reclusione e la
conferma delle ulteriori statuizioni dell’impugnata sentenza, fra
cui, l’irrogazione delle pene accessorie anzidette per la durata di
anni dieci».
La Corte d’appello di Trieste, cosi’ delineata la vicenda
processuale, precisa di aver esaminato i profili di responsabilita’
degli imputati, particolarmente per quanto attiene all’elemento
soggettivo del reato e di ritenere che la pena inflitta agli imputati
possa essere effettivamente ridotta come richiesto dalla pubblica
accusa.
In particolare, la rimettente valorizza, ai fini della riduzione
della pena, i seguenti fatti: che la contestata bancarotta
fraudolenta non sarebbe stata consumata con artifizi particolari – le
condotte materiali risultano in termini trasparenti dalle stesse
scritture contabili tanto che, non a caso, non e’ contestata la
bancarotta documentale -, che la «distrazione» ha connotati del tutto
peculiari, e che gli imputati si sono adoperati, seppure
tardivamente, per risarcire il danno, in modo da meritare
l’applicazione dell’attenuante comune di cui all’art. 62, numero 6),
del codice penale.
Secondo la Corte rimettente, stante la ridotta gravita’ dei
fatti, anche le pene accessorie dovrebbero, secondo equita’, essere
ridotte, ma osterebbe a tale riduzione il disposto dell’ultimo comma
dell’art. 216 del r.d. n. 267 del 1942 che stabilisce la durata di
tali pene in misura fissa (dieci anni).
Anche la giurisprudenza di legittimita’ ha interpretato – anche
se non univocamente – la norma in esame nel senso che non e’
possibile una rimodulazione della pena accessoria in relazione alla
maggiore o minore gravita’ del fatto (Corte di cassazione, sezione V
penale, 18 febbraio 2007, n. 39337; sezione V penale, 18 febbraio
2010, n. 17960).
La Corte d’appello di Trieste cita anche la giurisprudenza
contraria (Corte di cassazione, sezione V penale, 31 marzo 2010, n.
23720) che, se pur fondata su esigenze di equita’ e di conformita’ a
Costituzione, ritiene di non poter seguire a fronte dell’inderogabile
previsione normativa significativamente diversa, anche sul piano
letterale, da quella dell’art. 217, ultimo comma, del r.d. n. 267 del
1942.
Secondo la rimettente, l’art. 216, ultimo comma, del r.d. n. 267
del 1942 non sarebbe conforme a molteplici principi costituzionali,
da quello di eguaglianza (art. 3, primo comma, Cost.), a quelli che
riconoscono il diritto al lavoro e che permettono ad ogni cittadino
di svolgere, secondo le proprie possibilita’ e la propria scelta,
un’attivita’ o una funzione che concorra al progresso materiale o
spirituale della societa’ (art. 4 Cost.). La disposizione legislativa
contrasterebbe, infine, con la finalita’ rieducativa della pena (art.
27, terzo comma, Cost.), e con i principi che indirizzano a fini
sociali l’iniziativa economica privata (art. 41 Cost.) e che ne
riconoscono la liberta’.
La norma oggetto di censura, nel predeterminare in misura fissa
la durata delle pene accessorie, non terrebbe conto del fatto che
tali pene accessorie conseguono a comportamenti di gravita’
assolutamente diversa, essendo profondamente differenziate le varie
condotte sussunte nella norma incriminatrice – bancarotta
distrattiva, dissipativa, documentale, preferenziale – difformi fra
loro sul piano oggettivo e che consentono al giudice di determinare
la pena principale in un ampio ambito che va da tre a dieci anni di
reclusione, riconoscendosi in tal modo implicitamente che la
fattispecie astratta trova applicazione rispetto a condotte di
gravita’ molto diversa tra loro.
Lo spettro sanzionatorio sarebbe ancora piu’ ampio, posto che le
pene accessorie predeterminate nella durata trovano applicazione
indifferentemente tanto nelle ipotesi aggravate che in quelle
attenuate contemplate dall’art. 219 del r.d. n. 267 del 1942.
Secondo la Corte rimettente, infine, una pena accessoria di tale
durata – «e che puo’ prolungarsi ben oltre la durata della pena
principale» – non sarebbe conforme alle esigenze di rieducazione e
reinserimento sociale del condannato anche quale membro
economicamente attivo della societa’, considerato che non gli e’
consentito di svolgere alcuna attivita’ imprenditoriale di produzione
di beni o servizi ovvero commerciale, anche come imprenditore
individuale.
Tale pena accessoria, pertanto, comprimerebbe significativamente,
«nell’ambito del solo lavoro dipendente e non dirigenziale», le
attitudini lavorative del condannato, per un tempo che potrebbe
essere persino superiore di dieci volte la durata della pena
principale inflitta.
2.- E’ intervenuto nel presente giudizio il Presidente del
Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura
generale dello Stato, concludendo per l’infondatezza della questione.
Secondo la difesa statale, lo stesso giudice a quo avrebbe dato
atto dell’esistenza di un indirizzo giurisprudenziale secondo il
quale l’art. 216, ultimo comma, del r.d. n. 267 del 1942 – lungi
dall’aver stabilito la durata delle pene accessorie nella misura
fissa ed inderogabile di dieci anni – ha solo individuato la misura
massima delle stesse, lasciando al giudice la commisurazione della
durata in concreto di tali pene accessorie, in applicazione dell’art.
133 cod. pen. (Corte di cassazione, sezione quinta penale, 31 marzo
2010, n. 23720).
L’Avvocatura dello Stato prende atto che il rimettente afferma di
non poter seguire tale indirizzo, a cio’ ostando l’inderogabilita’
della previsione normativa, significativamente diversa, anche sul
piano letterale, da quella dell’art. 217, ultimo comma, della legge
fallimentare. Osserva, al riguardo, che l’opzione interpretativa
autorevolmente avallata dalla piu’ recente giurisprudenza della
Suprema Corte trova il suo fondamento nella consapevolezza
dell’incostituzionalita’ della disposizione in questione, ove
interpretata in senso angustamente letterale, e della conseguente
esigenza di darne una lettura costituzionalmente orientata.
Sulla base di queste argomentazioni l’Avvocatura dello Stato
chiede che la questione sia dichiarata infondata.
3.- Con ordinanza del 21 aprile del 2011 la Corte di cassazione
ha sollevato – in riferimento agli artt. 3, 27, terzo comma, e 111
della Costituzione – questione di legittimita’ costituzionale
dell’art. 216, ultimo comma, del r.d. n. 267 del 1942, nella parte in
cui prevede che, per ogni ipotesi di condanna per i fatti di
bancarotta previsti nei commi precedenti del medesimo articolo, si
applichino le pene accessorie dell’inabilitazione all’esercizio di
un’impresa commerciale e dell’incapacita’ ad esercitare uffici
direttivi presso qualsiasi impresa per la durata di dieci anni.
La Corte rimettente premette, in fatto, di dover giudicare sul
ricorso avverso una sentenza di applicazione della pena su richiesta
delle parti emessa dal Giudice per le indagini preliminari presso il
Tribunale di Caltanissetta nei confronti di alcuni imputati, a vario
titolo, di fatti di bancarotta fraudolenta.
Tra i motivi di impugnazione, prosegue la rimettente, vi e’
quello relativo all’applicazione delle sanzioni accessorie – non
dedotte nell’accordo pattizio – in misura fissa, anziche’ pari alla
durata della pena principale.
Su questo motivo di ricorso, il Collegio da’ atto di non poter
decidere allo stato degli atti, ravvisando un contrasto di pronunce
sul punto anche all’interno della stessa sezione della Corte di
cassazione.
Il contrasto attiene all’interpretazione dell’art. 216, ultimo
comma, del r.d. n. 267 del 1942 e, segnatamente, alla durata della
sanzione dell’inabilitazione ivi prevista.
L’orientamento seguito pressoche’ costantemente dalla Corte in
tema di bancarotta fraudolenta (rilevabile sin dalla sentenza della
sezione V del 16 ottobre 1973, n. 126018) e’ nel senso che la pena
accessoria dell’inabilitazione all’esercizio di imprese commerciali
ed alla incapacita’ di esercitare uffici direttivi presso qualsiasi
impresa, sia fissata inderogabilmente nella misura di dieci anni.
Pertanto, non trattandosi di pena indeterminata, la sua durata si
sottrae alla disciplina disposta dall’art. 37 cod. pen.
Tuttavia, a fronte di siffatta lettura, recenti sentenze (Corte
di cassazione, sezione V penale, 10 marzo 2010, n. 9672; sezione V
penale, 31 marzo 2010, n. 23720) hanno ritenuto che la fissita’ della
sanzione accessoria contrasti con «il "volto costituzionale"
dell’illecito penale», e che il sistema normativo debba lasciare,
comunque, adeguati spazi alla discrezionalita’ del giudice, al fine
di permettere l’adeguamento della risposta punitiva alle singole
fattispecie concrete: in tal senso sarebbe illegittima una previsione
che lasci il giudice privo di sufficienti margini di adattamento del
trattamento sanzionatorio alle peculiarita’ della singola ipotesi
concreta.
La Corte rimettente precisa che questo secondo indirizzo
ermeneutico e’ ispirato da importanti pronunce della Corte
costituzionale (ordinanze nn. 91 e 4 del 2008, n. 50 del 1980) nelle
quali si e’ detto che: «In linea di principio […] previsioni
sanzionatorie rigide non appaiono in armonia con il "volto
costituzionale" del sistema penale; ed il dubbio di illegittimita’
costituzionale potra’ essere, caso per caso, superato a condizione
che, per la natura dell’illecito sanzionatorio e per la misura della
sanzione prevista, quest’ultima appaia ragionevolmente
"proporzionata" rispetto all’intera gamma di comportamenti
riconducibili allo specifico tipo di reato».
A parere della Corte di cassazione, la sottrazione del giudizio
ai consueti criteri dettati dagli artt. 132 e 133 cod. pen. urta con
le previsioni costituzionali degli artt. 3 e 27 Cost.
Venendo alla motivazione sulla rilevanza e sulla non manifesta
infondatezza, la rimettente precisa, in primo luogo, che
l’interpretazione costituzionalmente orientata si scontra con il dato
testuale dell’art. 216, ultimo comma, del r.d. n. 267 del 1942 e che
spetta alla Corte costituzionale l’eventuale affermazione di
illegittimita’ della previsione legislativa.
In questa prospettiva si ravvisa un contrasto tra l’art. 216,
ultimo comma, del r.d. n. 267 del 1942, e gli artt. 3 e 27 della
Carta fondamentale, attesa la rigidita’ dispositiva della
prescrizione penale, a fronte del variare della situazione concreta,
caratteristica che determina una sostanziale ingiustizia nel trattare
allo stesso modo condotte di rilievo penale tra loro differenti e
difformemente sanzionate dal legislatore mediante la pena principale.
La Corte di cassazione si riferisce, in particolare, alla ipotesi
di «bancarotta preferenziale» nonche’ alla singolare ampiezza
dell’escursione afflittiva contemplata dalle circostanze speciali di
cui all’art. 219, primo e ultimo comma, del r.d. n. 267 del 1942.
Inoltre, evidenzia la sproporzione che l’ordinamento appresta nei
riti alternativi in cui – come nel caso in esame – la risposta della
pena principale risulta grandemente inferiore rispetto a quella
accessoria, a cagione della diminuzione premiale consentita o imposta
dal legislatore.
Anche in relazione all’art. 111 Cost. il ragionamento
precedentemente svolto sembra, secondo la Corte rimettente,
rafforzarsi. Tale norma costituzionale, nell’imporre all’ordinamento
la celebrazione di processi «giusti», non pretende soltanto un
corretto svolgimento degli stessi per il rispetto della legge, delle
garanzie assegnate alle parti, del contraddittorio e per
l’espletamento del processo in limiti di tempo ragionevoli. Essa
prefigura anche la garanzia di un’equa soluzione, alla luce delle
risultanze di causa che il giudice acquisisce nella varie fasi
processuali.
Risulterebbero vanificati gli strumenti di garanzia che
assicurano equilibrio del dibattito e pienezza di poteri
argomentativi per arrivare, in un processo «giusto», ad una decisone
«giusta», se poi la soluzione che compete al giudice, terzo ed
imparziale, fosse coartata nella fase decisionale in ordine ai dati
correttamente versati in atti.
In altri termini, non si comprenderebbe quale effettivo
significato possa darsi ad un sistema che annovera un dettagliato
paradigma valutativo negli artt. 132 e 133 cod. pen., ma, all’effetto
pratico, impedisce al giudice di ricondurre siffatti esiti ad un’equa
e adeguata considerazione sanzionatoria, ancorche’ «accessoria».
In conclusione, la norma censurata sarebbe in contrasto con il
principio del «minore sacrificio necessario» nella risposta punitiva
dell’ordinamento a fronte della violazione penale, quando nulla
impedirebbe di estendere i parametri propri della pena principale
alla misura della pena accessoria, assegnando al giudice, caso per
caso, la piu’ opportuna statuizione.
3.1.- E’ intervenuto nel giudizio di costituzionalita’ il
Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso
dall’Avvocatura generale dello Stato, concludendo per l’infondatezza
della questione.
Secondo la difesa statale lo stesso giudice a quo avrebbe dato
atto dell’esistenza di un indirizzo giurisprudenziale secondo il
quale l’art. 216, ultimo comma, del r.d. n. 267 del 1942, lungi
dall’aver stabilito la durata delle pene accessorie nella misura
fissa ed inderogabile di dieci anni, ha solo individuato la misura
massima delle stesse, lasciando al giudice la commisurazione della
durata in concreto di tali pene accessorie, in applicazione dell’art.
133 cod. pen. (in particolare, Corte di cassazione 31 marzo 2010, n.
23720).
Il rimettente afferma di non poter seguire tale indirizzo a cio’
ostando l’inderogabilita’ della previsione normativa,
significativamente diversa, anche sul piano letterale, da quella
dell’art. 217, ultimo comma, del r.d. n. 267 del 1942.
In realta’, l’opzione interpretativa autorevolmente avallata
dalla piu’ recente giurisprudenza della Suprema Corte risulta proprio
dalla consapevolezza dell’incostituzionalita’ della disposizione in
questione, ove interpretata in senso angustamente letterale, e della
conseguente esigenza di darne una lettura costituzionalmente
orientata.
Sulla base di queste argomentazioni l’Avvocatura dello Stato
chiede che la questione sia dichiarata infondata.
Con memoria depositata in prossimita’ dell’udienza la difesa
statale ribadisce la proprie argomentazioni circa la possibilita’ di
un’interpretazione costituzionalmente orientata della norma impugnata
e conclude per l’infondatezza della questione sollevata.

Considerato in diritto

1.- La Corte d’appello di Trieste, con ordinanza del 20 gennaio
2011, e la Corte di cassazione, con ordinanza del 21 aprile del 2011,
hanno sollevato – in riferimento agli articoli 3, 4, 27, terzo comma,
41 e 111 della Costituzione – questione di legittimita’
costituzionale dell’articolo 216, ultimo comma, del regio decreto 16
marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato
preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione
coatta amministrativa), nella parte in cui prevede che, per ogni
ipotesi di condanna per i fatti di bancarotta previsti nei commi
precedenti del medesimo articolo, si applichino le pene accessorie
dell’inabilitazione all’esercizio di un’impresa commerciale e
dell’incapacita’ ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi
impresa per la durata di dieci anni.
Secondo la Corte d’appello di Trieste la determinazione
dell’entita’ della pena accessoria del delitto di bancarotta
fraudolenta in misura fissa violerebbe gli artt. 3 e 27 Cost. perche’
non consentirebbe di tener conto del fatto che tali pene accessorie
conseguono a condotte di gravita’ assolutamente diversa – bancarotta
distrattiva, dissipativa, documentale, preferenziale – tanto da
consentire al giudice di determinare la pena principale in un ampio
ambito che va da tre a dieci anni di reclusione, riconoscendosi in
tal modo implicitamente che la fattispecie astratta trova
applicazione rispetto a condotte di gravita’ molto diverse tra loro.
Inoltre, una pena accessoria di tale durata – e che «puo’
prolungarsi ben oltre la durata della pena principale» – non sarebbe
conforme alle esigenze di rieducazione e reinserimento sociale del
condannato quale membro economicamente attivo della societa’,
violando, quindi, gli artt. 27, terzo comma, e 4 Cost.
Infine, risulterebbe violato anche l’art. 41 Cost., in quanto una
pena accessoria cosi’ modulata «comprime significativamente,
nell’ambito del solo lavoro dipendente e non dirigenziale le
attitudini lavorative del condannato per un tempo che puo’ essere
persino superiore di dieci volte la durata della pena principale
inflitta».
Anche la questione sollevata dalla Corte di cassazione si fonda
sulla violazione degli artt. 3, 27 e 111 Cost. perche’ la rigidita’
della prescrizione, a fronte del variare della situazione concreta,
determinerebbe una sostanziale ingiustizia nel trattare allo stesso
modo condotte di rilievo penale tra loro differenti e difformemente
sanzionate dal legislatore mediante la pena principale e, anche, una
violazione del «giusto processo».
1.1.- Le ordinanze di rimessione sollevano questioni identiche o
analoghe, onde i relativi giudizi vanno riuniti per essere definiti
con unica decisione.
I giudici a quibus dubitano, in riferimento a plurimi parametri,
della legittimita’ costituzionale della disciplina che stabilisce la
durata della pena accessoria, prevista, per il delitto di bancarotta
fraudolenta dall’art. 216, ultimo comma, del r.d. n. 267 del 1942,
nella misura fissa di dieci anni.
2.- Premesso che la Corte intende ribadire (da ultimo, ordinanza
n. 293 del 2008) l’opportunita’ che il legislatore ponga mano ad una
riforma del sistema delle pene accessorie, che lo renda pienamente
compatibile con i principi della Costituzione, ed in particolare con
l’art. 27, terzo comma, tuttavia le questioni di legittimita’
costituzionale oggi all’esame sono inammissibili in considerazione
del petitum formulato dai rimettenti.
Infatti, in entrambe le ordinanze, si lamenta la non conformita’
a Costituzione della predeterminazione nella misura fissa di dieci
anni della pena accessoria dell’inabilitazione all’esercizio di
un’impresa commerciale e ad esercitare uffici direttivi presso
qualsiasi impresa, di cui all’art. 216, ultimo comma, del r.d. n. 267
del 1942 per il delitto di bancarotta.
La Corte d’appello di Trieste afferma che la predeterminazione in
misura fissa della pena accessoria impedisce l’applicazione dell’art.
37 cod. pen. secondo il quale «Quando la legge stabilisce che la
condanna importa una pena accessoria temporanea, e la durata di
questa non e’ espressamente determinata, la pena accessoria ha una
durata eguale a quella della pena principale inflitta, o che dovrebbe
scontarsi, nel caso di conversione, per insolvibilita’ del
condannato».
Nello stesso senso la Corte di cassazione, ritenendo preclusa
un’interpretazione dell’art. 216, ultimo comma, del r.d. n. 267 del
1942, che consenta di applicare l’art. 37 cod. pen., vuole giungere
al medesimo risultato mediante una pronuncia di questa Corte.
Le rimettenti, dunque, chiedono alla Corte di aggiungere le
parole «fino a» all’ultimo comma dell’art. 216 del r.d. n. 267 del
1942 al fine di rendere possibile l’applicazione dell’art. 37 cod.
pen.
Tuttavia, la soluzione prospettata e’ solo una tra quelle
astrattamente ipotizzabili in caso di accoglimento della questione:
infatti sarebbe anche possibile prevedere una pena accessoria
predeterminata ma non in misura fissa (ad esempio da cinque a dieci
anni) o una diversa articolazione delle pene accessorie in rapporto
all’entita’ della pena detentiva.
Risulta evidente che l’addizione normativa richiesta dai giudici
a quibus non costituisce una soluzione costituzionalmente obbligata,
ed eccede i poteri di intervento di questa Corte, implicando scelte
affidate alla discrezionalita’ del legislatore.
Pertanto deve farsi applicazione del principio, piu’ volte
espresso, secondo il quale sono inammissibili le questioni di
costituzionalita’ relative a materie riservate alla discrezionalita’
del legislatore e che si risolvono in una richiesta di pronuncia
additiva a contenuto non costituzionalmente obbligato.

per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,
dichiara inammissibili le questioni di legittimita’
costituzionale dell’articolo 216, ultimo comma, del regio decreto 16
marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato
preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione
coatta amministrativa), sollevate – in riferimento agli articoli 3,
4, 27, terzo comma, e 41 della Costituzione – dalla Corte d’appello
di Trieste e – in riferimento agli articoli 3, 27 e 111 della
Costituzione – dalla Corte di cassazione, con le ordinanze indicate
in epigrafe.
Cosi’ deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 21 maggio 2012.

F.to:
Alfonso QUARANTA, Presidente
Paolo Maria NAPOLITANO, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 31 maggio 2012.

Il Direttore della Cancelleria
F.to: Gabriella MELATTI

Testo non ufficiale. La sola stampa del dispositivo ufficiale ha carattere legale.

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