Cass. civ. Sez. II, Sent., 18-02-2011, n. 4002

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con atto notificato il 3 giugno 2005, C.A. propone ricorso per cassazione, affidato a tre motivi, avverso la sentenza n. 465 della Corte di appello di Torino, depositata il 2 marzo 2005 e notificata il 5 aprile 2005, che, in riforma della pronuncia di primo grado, aveva accolto la domanda di B.G. per la sua condanna al pagamento della somma di Euro 25.578,04, oltre interessi legali, quale corrispettivo per la fornitura di beni (nella specie piante da giardino) e lavori. In particolare, la Corte di appello motivò la propria decisione ritenendo provata, sulla base dei documenti e delle testimonianze escusse, sia la conclusione del contratto da parte del convenuto che l’esecuzione delle opere, rilevando, quanto all’ammontare del prezzo, che la fattura emessa dall’appaltatore non era stata specificatamente contestata dalla controparte. B.G. resiste con controricorso.

Motivi della decisione

Il primo motivo di ricorso denunzia "Violazione, erronea e falsa applicazione dell’art. 116 c.p.c. in tema di valutazione delle prove", censurando la sentenza impugnata per avere ritenuto provata sia la consegna dei beni che il loro ordinativo da parte dell’attuale ricorrente alla ditta di B.G.. Un’attenta lettura della documentazione in atti, ad avviso del ricorrente, testimonierebbe, al contrario, che i beni furono commissionati esclusivamente dalla propria moglie, M.S., senza intervento alcuno del C., e che, inoltre, l’incarico venne conferito alla ditta B.S., di cui B.G. era solo un dipendente, circostanza questa provata dal fatto che l’attore aveva costituito una propria ditta individuale solo nel 1987, elementi questi tutti riconosciuti dalla stessa controparte in sede di interrogatorio libero e colpevolmente ignorati dal giudice territoriale.

Il secondo motivo di ricorso denunzia "Erronea applicazione ed interpretazione dell’art. 100 c.p.c. – legittimazione all’iva dell’attore e legittimazione passiva del convenuto", lamentando che la sentenza impugnata non abbia rilevato, sulla base delle risultanze emerse dall’istruttoria, che il contratto era intervenuto tra soggetti diversi, la sig.ra M. da un lato e la ditta Bianchi Salvatore dall’altro, omettendo così di dichiarare il difetto di legittimazione attiva di B.G., il quale se eseguì taluni lavori lo fece per conto della ditta del fratello, nonchè l’estraneità al rapporto contrattuale del C.. che mai ebbe ad interessarsi del rapporto negoziale nè a conferire incarico ad alcuno.

Il terzo motivo di ricorso denunzia "Errata valutazione Violazione e mancata applicazione delle norme disciplinanti l’appalto di opere", assumendo che l’errata ricostruzione dei fatti operata dalla Corte di appello, in contrasto con le emergenze probatorie, ha portato il giudicante anche alla violazione delle norme disciplinati il contratto di appalto, laddove ha qualificato le parti in causa come contraenti e ritenuto il convenuto responsabile del pagamento del prezzo nonostante che tra di le parti medesime non fosse sorto alcun rapporto contrattuale.

I tre motivi, che possono esaminarsi congiuntamente in quanto tutti imperniati sul rilevo della sostanziale estraneità delle parti processuali al rapporto sostanziale dedotto in giudizio, sono inammissibili.

La Corte di appello di Torino ha fondato la propria decisione di condanna del convenuto al pagamento del prezzo dei beni e dei lavori commissionati ed eseguiti sulla base di una ricostruzione del fatto che ha richiamato la documentazione in atti e le prove orali escusse.

In particolare, con riferimento alla posizione del B., il giudicante ha affermato la sua titolarità del rapporto contrattuale in forza della considerazione che egli aveva intrattenuto i rapporto con la committenza, era stato presente in loco durante l’esecuzione dei lavori, aveva emesso la fattura e che nessuno dei soci della ditta di B.S., che secondo il convenuto sarebbe stato l’effettivo contraente e, quindi, l’esecutore delle opere, aveva mai avanzato pretese in ordine alle stesse. Con riguardo alla posizione del C., la Corte ha invece affermato la sua legittimazione ad causam, osservando che la fattura dei lavori era a lui intestata e che. secondo quanto riferito da un testimone, dopo la fornitura il C. ed il B. si erano incontrati concordando il pagamento dei lavori. Per contro il ricorso assume che il giudice territoriale ha mal valutato le prove raccolte in giudizio, dal momento che esse dimostrerebbero, diversamente da quanto da questi affermato, non solo l’estraneità del C. al rapporto contrattuale, non avendo egli mai preso iniziative al riguardo nè avendo mai in alcun modo partecipato al contratto e alla fase della sua esecuzione, ma anche che esso era in realtà intervenuto con una ditta diversa da quella dell’attore, il quale era soltanto un dipendente della ditta appaltatrice. Le censure così sollevate sono però inammissibili nella misura in cui tendono ad accreditare una ricostruzione della vicenda contrattuale e, soprattutto, a sollecitare questa Corte ad una valutazione delle prove raccolte in giudizio divergente da quella compiuta dal giudice di merito. E’ noto, per contro, che nel giudizio di legittimità, non essendo questa Corte giudice del fatto, non sono proponibili censure dirette a provocare un nuovo apprezzamento delle risultanze processuali, diverso da quello espresso dal giudice di merito, il quale è libero di attingere il proprio convincimento da quelle prove o risultanze che ritenga più attendibili ed idonee nella formazione dello stesso, potendo il ricorrente sindacare tale valutazione solo sotto il profilo della congruità e sufficienza della motivazione (Cass. n. 14972 del 2006; Cass. n. 4770 del 2006; Cass. n. 16034 del 2002), vizio che, peraltro, nella specie non risulta sollevato. Nè è riscontrabile alcuna violazione delle regole in tema di valutazione probatoria per non avere il giudice territoriale tenuto conto e quindi valorizzato, nel senso richiesto dal convenuto, le dichiarazioni rese dall’attore in sede di interrogatorio libero delle parti, nelle quali, secondo l’odierno ricorrente, questi avrebbe ammesso che, all’inizio, il rapporto contrattuale era intercorso con la ditta Bianchi Salvatore. A parte il rilievo che tale circostanza è stata comunque considerata dal giudicante ma ritenuta non decisiva in ragione del successivo evolversi del rapporto contrattuale, costituisce infatti principio consolidato che le dichiarazioni rese dalle parti nel loro interrogatorio libero o non formale, svolgendo esso la sola funzione di chiarire i fatti di causa, non integrano confessione giudiziale nè autonomo mezzo di prova, ma possono al più dar luogo, da parte del giudice ed a suo insindacabile giudizio, ad elementi sussidiari a sostegno del proprio convincimento in favore di una ricostruzione del fatto risultante dalle prove già acquisite (Cass. n. 5290 de 2008). L’omessa considerazione di tali dichiarazioni non integra, pertanto, alcuna violazione delle regole normative in tema di valutazione delle prove. A tali considerazioni merita aggiungere che le censure sollevate dal ricorso non appaiono sostenute dal requisito di autosufficienza, il quale impone al ricorrente per cassazione che deduca l’omessa considerazione o erronea valutazione da parte del giudice di merito di risultanze istruttorie di riprodurre esattamente il contenuto dei documenti e delle prove che si assumono non esaminate, al fine di consentire alla Corte di valutare la sussistenza e decisività delle stesse (Cass. n. 17915 del 2010; Cass. n. 18506 del 2006; Cass. n. 3004 del 2004).

Costituisce diritto vivente di questa Corte il principio che il ricorso per cassazione deve contenere in sè tutti gli elementi necessari a costituire le ragioni per cui si chiede la cassazione della sentenza di merito e, altresì, a permettere la valutazione della fondatezza di tali ragioni, senza la necessità di far rinvio ed accedere a fonti esterne allo stesso ricorso e, quindi, ad elementi o atti attinenti al pregresso giudizio di merito (Cass. n. 15952 del 1997; Cass. n. 14767 del 2007; Cass. n. 12362 del 2006).

Nel caso di specie, in particolare, il ricorso non rispetta il suddetto principio di autosufficienza, in quanto omette completamente di riprodurre il testo dei documenti e delle prove orali su cui ritiene di poter fondare le proprie censure, mancanza che impedisce al Collegio qualsiasi valutazione sul punto. Il ricorso va pertanto respinto, con condanna de ricorrente, per il principio di soccombenza, al pagamento delle spese di giudizio.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese di giudizio, che liquida in Euro 2.200, di cui Euro 200 per esborsi, oltre spese generali ed accessori di legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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