Cass. pen. Sez. IV, Sent., (ud. 20-10-2010) 26-01-2011, n. 2613

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. Con ordinanza del 22/10/2009 la Corte di Appello di Reggio Calabria rigettava l’istanza di riparazione per ingiusta detenzione avanzata da V.A.. Questi, arrestato in data 18/12/1990 in esecuzione di ordinanza cautelare del GIP del Tribunale di Reggio Calabria, per il reato p. e p. dall’art. 416 bis c.p. (per aver fatto parte di un’associazione mafiosa da lui diretta ed orbitante nel più ampio sodalizio criminoso facente capo al fratello V. D.), era stato liberato in data 20/12/1991. Condannato in primo grado (sentenza del 1/4/1998, in cui l’accusa era stata modificata in partecipazione all’associazione mafiosa del fratello), era stato poi assolto, per non aver commesso il fatto, con sentenza pronunciata dalla Corte di Appello di Reggio Calabria il 17/3/2005 (esecutiva il 7/7/06).

La Corte di merito, nell’assolvere l’imputato, dopo avere escluso che il V. agisse per conto della cosca del fratello (all’epoca dei fatti latitante), riteneva confermata la circostanza che egli avesse interessi nella gestione degli appalti di trasporto e movimento terra in cointeressenza con D.T. e, forse, con P..

Questi ultimi, appena costituite le ditte, erano divenuti beneficiari di appalti pubblici in concomitanza con il sequestro dei beni della cosca Vadalà e ciò aveva indotto al sospetto, che non aveva raggiunto la dignità di prova, che il ricorrente fosse una longa manus della cosca Vadalà e che avesse utilizzato come prestanome il D. e forse anche il P..

La Corte di merito, in sede di giudizio per l’equo indennizzo evidenziava la colpa grave del ricorrente il quale, fratello di un latitante e titolare di un rapporto di impiego pubblico (geometra comunale), era cointeressato in aziende che ricevevano appalti dalla stesso comune per il quale lavorava.

Tale condotta, secondo la Corte di merito, era stata idonea ad indurre in errore il giudice nella adozione e mantenimento della misura cautelare.

2. Avverso l’ordinanza ha proposto ricorso per cassazione il difensore del V., lamentando la erronea applicazione della legge ed il difetto della motivazione in relazione alla affermata sussistenza della colpa grave. Invero il giudice di merito non aveva analizzato in modo approfondito tutto il materiale probatorio ed era giunto alla affermazione della sussistenza della colpa grave sulla base di meri sospetti e senza che le sue condotte assurgessero a manifestazione di macroscopica negligenza.

3. Il ricorso è infondato e deve essere rigettato.

3.1. Come è noto, il rapporto tra giudizio penale e giudizio per l’equa riparazione, è connotato da totale autonomia ed impegna piani di indagine diversi e che possono portare a conclusioni del tutto differenti sulla base dello stesso materiale probatorio acquisito agli atti, ma sottoposto ad un vaglio caratterizzato dall’utilizzo di parametri di valutazione differenti.

In particolare, è consentita al giudice della riparazione la rivalutazione dei fatti non nella loro valenza indiziaria o probante (smentita dall’assoluzione), ma in quanto idonei a determinare, in ragione di una macroscopica negligenza od imprudenza dell’imputato, l’adozione della misura, traendo in inganno il giudice. In particolare il giudice di merito, per valutare se chi la ha patito la detenzione vi abbia dato o concorso a darvi causa con dolo o colpa grave, deve apprezzare tutti gli elementi probatori disponibili, tenendo conto se essi rivelino o meno eclatante o macroscopica negligenza, imprudenza o violazione di norme o regolamenti, e fornendo del convincimento conseguito una motivazione, che, se adeguata e congrua, è incensurabile in sede di legittimità.

Il giudice, basandosi su fatti concreti deve cioè valutare non se la condotta integri estremi di reato, ma solo se sia stata il presupposto che abbia ingenerato, ancorchè in presenza di errore dell’autorità procedente, la falsa apparenza della sua configurabilità come illecito penale, dando luogo alla detenzione con rapporto di causa ad effetto.

3.2. Nel caso di specie la Corte territoriale, non è incorsa in alcuna violazione di legge, nè è venuta meno al suo onere di puntuale motivazione.

Invero nella sentenza di assoluzione, sebbene le "fortune" delle ditte del A. e P. non vengono ricondotte con certezza a collegamenti con la cosca, vengono però imputate all’interesse che in esse aveva il ricorrente, geometra comunale, che poteva averle favorite negli appalti.

L’interesse del ricorrente nelle dette aziende, beneficiane di appalti pubblici, si evince dagli atti, laddove risultava che aveva fornito mezzi finanziari per l’acquisto di mezzi di produzione.

In sostanza la circostanza che il V., fratello di un latitante, capo della locale cosca, dipendente comunale, si fosse coinvolto negli interessi di imprese beneficiane di appalti pubblici e costituite poco dopo il sequestro dei beni della cosca; valutato che aveva fatto ciò in palese conflitto di interessi, costituiva una colpa grave che era stata idonea a determinare l’errore del giudice cautelare nel momento dell’adozione della misura e del suo mantenimento, tanto da essere ostative al riconoscimento della riparazione.

Consegue, a norma dell’art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali. Sussistono invece giusti motivi per compensare le spese tra le parti.
P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Compensa le spese tra le parti costituite.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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