Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 15-12-2010) 27-01-2011, n. 3013

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

La vicenda in questione è stata caratterizzata dallo sviluppo processuale che segue.

1) le decisioni dei giudici di merito antecedenti la pronuncia di annullamento.

Il Pretore di Milano, con sentenza 9 ottobre 1997 ha dichiarato V.M.L., D.D. e L.A. responsabili del reato di ricettazione continuata di opere d’arte, ed il primo anche del reato di cui alla L. n. 1089 del 1939, artt. 11 e 59, per aver disposto il restauro di tali opere senza l’autorizzazione dell’ufficio dei beni artistici e storici, e per l’effetto ha condannato il V. alla pena di anni uno mesi quattro e giorni quindici di reclusione e L. 900.000 di multa, e gli altri due imputati alla pena di anni uno mesi quattro di reclusione e L. 800.000 di multa.

La contestazione concerneva in particolare l’acquisto, presso un magazzino sito nei pressi di (OMISSIS), gestito da L.A., venditore di robe vecchie, da parte di don V.L.M., Presidente della fondazione che gestiva l’Ospedale (OMISSIS), tramite D.L., dipendente di tale Ospedale, di due opere di interesse artistico, ed in particolare di una tavola, denominata "Chiamata di Pietro ed Andrea", del pittore napoletano G.B. Lama, datata 1589, oggetto di furto perpetrato nel (OMISSIS) nella (OMISSIS), e di una tavola denominata "Compianto sul Cristo morto", opera dei pittori Silvestro Buono e Pompeo Landolfo della seconda metà del 500, oggetto di furto consumato nel (OMISSIS) nella Chiesa di (OMISSIS).

La Corte di Appello di Milano, a seguito di appello del V. e del D. (per il L. la decisione è divenuta irrevocabile), con sentenza 21 settembre 2005. ha dichiarato non doversi procedere nei confronti del V. in ordine al reato di cui alla L. n. 1089 del 1939, perchè estinto per prescrizione e ha rideterminato la pena infettagli in anni uno mesi quattro di reclusione ed Euro 400,00 di multa, confermando nel resto l’impugnata sentenza; la sentenza nei confronti del D. è stata confermata.

2.) il ricorso degli imputati avverso la sentenza della Corte di appello di Milano 21 settembre 2005 e la decisione di annullamento 8 aprile 2008 della 2^ sezione della Corte di Cassazione.

Avverso la pronuncia di condanna, 21 settembre 2005 della Corte di appello di Milano, l’imputato D.D. ha proposto, per mezzo del difensore, ricorso per Cassazione ed analoga impugnazione è stata formulata dal V. in proprio e a mezzo del suo difensore.

La seconda sezione della Corte di Cassazione, con la decisione 8 aprile 2008, respinte le eccezioni di incostituzionalità, ha disposto l’annullamento dell’impugnata sentenza della Corte di appello di Milano, sia in relazione alla posizione del V. che in relazione alla posizione del D., in quanto strettamente collegata alla precedente, con rinvio ad altra Sezione della Corte di Appello di Milano per nuovo giudizio.

La Corte di legittimità ha ritenuto la sentenza della Corte territoriale carente sotto il profilo della motivazione, non avendo essa dato adeguata contezza su alcuni specifici punti che erano stati sottoposti al suo esame, con la conseguenza che il discorso motivazionale, a fronte dei rilievi mossi dalla difesa con il proposto gravame, ha assunto un carattere assertivo più che argomentativo.

Il Supremo collegio ha ancora precisato che, a fronte della dettagliata disamina degli atti di causa, operata dalla difesa nei motivi di appello, la motivazione della Corte di merito non è stata agganciata ad obiettive risultanze probatorie ed a coerenti argomentazioni, così mettendo detta Corte di legittimità in condizione di valutare se il giudice di merito abbia correttamente applicato le regole della logica nell’argomentazione che lo hanno portato a scegliere determinate conclusioni anzichè altre.

La Corte dell’annullamento pertanto, posto che l’assunto accusatorio, sviluppato nell’impugnata sentenza, si fondava sulla "consapevolezza", da parte del V., della provenienza delittuosa delle opere d’arte in questione, consapevolezza che sarebbe derivata dall’avere egli visionato le prestigiose tavole nel capannone di un "robivecchi", ha evidenziato che l’iter argomentativo avrebbe dovuto dare, su tali punti essenziali, adeguata contezza:

1) della circostanza in cui il V. avrebbe visionato le dette opere, essendo tale questione rilevante, anche al fine della opportuna valutazione da parte dello stesso del fatto che tali opere non si trovavano nella disponibilità di un antiquario, ma erano accatastate in un magazzino assieme ad altra roba vecchia;

2) del valore attribuibile al rilievo difensivo concernente le modalità dell’avvenuto restauro, affidato in maniera assolutamente palese a restauratori di notevole competenza ed in contatto istituzionale con la Sovrintendenza delle Belle Arti.

Il Supremo collegio ha quindi affermato che siffatta carente motivazione, in punto di elemento soggettivo, non risponde a quei canoni di completezza, congruità e logicità previsti dalla legge e sanzionati dal predetto art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), tenuto conto che l’assunto difensivo (in punto di "consapevolezza") appare dotato di una forza esplicativa e dimostrativa assolutamente non trascurabile, di talchè l’omessa valutazione delle richiamate emergenze probatorie (sub a e sub b) finiva con il manifestare una palese incongruenza dell’iter motivazionale e costituiva un evidente vizio di motivazione rilevante ai sensi della norma sopra indicata.

3.) la sentenza 1 febbraio 2010 della Corte di appello di Milano oggi impugnata.

La sentenza del giudice di rinvio, dopo aver richiamato le precedenti tre decisioni, ha rilevato preliminarmente nella pars motiva (pag. 7) che il tempo necessario a prescrivere risulta maturato, oltre che per il reato del capo sub b), già dichiarato estinto in primo grado, anche per il delitto di ricettazione.

Ciò posto, la sentenza della Corte di appello, evidenziati i due temi critici prospettati dal giudice dell’annullamento, ha sviluppato la sua esposizione, nei termini che si analizzeranno e che si possono – comunque – considerare come condotti e sviluppati nell’ambito e nel rispetto dello schema giustificativo formulato dal Supremo collegio, con la conseguenza della declaratoria di inammissibilità del ricorso, come richiesta dal Procuratore generale presso questa Corte.
Motivi della decisione

1.) i motivi di ricorso del V. e la decisione di inammissibilità di questa Corte.

Con un primo motivo di impugnazione (A) viene dedotta inosservanza ed erronea applicazione della legge per violazione degli artt. 129 e 628 c.p.p. nel senso che il giudice di rinvio non si sarebbe minimamente occupato dell’essenziale problema relativo alla qualificazione giuspenalistica del fatto.

Sostiene in proposito il ricorrente che la Corte di Cassazione avrebbe accolto il motivo concernente la prospettazione che il fatto non costituisse reato, "ritenendolo incondizionatamente fondato al punto da non richiedere la procedura di rinvio prevista dall’art. 623 c.p.p.".

Con un secondo motivo (B) si lamenta ancora violazione di legge con riferimento all’art. 627 c.p.p., comma 3 individuando alcuni interrogativi a cui il giudice di rinvio non avrebbe dato conveniente risposta, dando così letture singolari e stravaganti della dinamica degli eventi, disattendendo il compito che gli era stato delineato dalla decisione di annullamento con rinvio.

Entrambi i motivi, nelle loro plurime articolazioni, sono palesemente privi di fondamento.

Giova subito evidenziare che l’odierna impugnazione si basa su di un’erronea interpretazione dell’espressione di stile, usata a pag. 13 della sentenza di annullamento con rinvio e così formulata: "…. passando alla trattazione degli ulteriori motivi di gravame, rileva il Collegio che i ricorsi sono fondati".

E’ evidente infatti che lo stilema generico, usato dall’estensore della 2 sezione di questa Corte, ed indicativo della "fondatezza dei ricorsi", andava necessariamente completato con il seguito della motivazione nella quale, il giudice di legittimità limitava, nel dettaglio e con precisione, gli ambiti dell’accoglimento, focalizzando i termini del difetto di motivazione ed il rilievo che tale invalida giustificazione rivestiva in punto di elemento soggettivo del contestato delitto.

Ne consegue che la materialità dell’azione e l’attribuibilità della stessa alla condotta dei due accusati non è stata colpita dalla decisione di annullamento, la quale ha indicato puntualmente le due sole realtà (previa "visione" delle opere; modalità del loro restauro) che, laddove, non adeguatamente argomentate, non avrebbero potuto consentire di ritenere sussistente il reato contestato, per difetto del corrispondente coefficiente psicologico dell’azione.

Nessun accoglimento quindi degli altri motivi -come sostenuto nel ricorso- ma soltanto un accoglimento parziale e soprattutto condizionato da tali precisi ed invalicabili ambiti decisori, dei quali la Corte di appello in sede di rinvio risulta aver peraltro tenuto preciso ed attento conto.

Emerge infatti, da un’agevole lettura dell’intera motivazione della Corte distrettuale, che l’inquadramento dogmatico della condotta attribuita al V., sotto il profilo della violazione dell’art. 648 c.p., è stato realizzato dalla Corte di appello nel rispetto rigoroso dello schema di motivazione indicato dalla Corte di Cassazione, sotto i due rilevanti ed essenziali profili psicologici:

1) della "personale visione delle opere nel luogo ove il L. (condannato per ricettazione con decisione irrevocabile) materialmente le custodiva;

2) delle modalità del restauro.

Circostanze tutte che, come detto, erano idonee, nella prospettazione del Supremo collegio, ed ove non adeguatamente provate ed esattamente valutate, ad invalidare in radice la soggettività che connotava il ritenuto delitto patrimoniale.

Orbene su tali temi, specificati dal giudice dell’annullamento, il giudice di rinvio ha correttamente fornito un’ampia e consistente giustificazione, spiegando – in modo ragionevole ed in questa sede non censurabile- come la certezza dell’illecita provenienza dei beni, in capo all’acquirente Don V., che ha ricevuto le tavole dal L. (persona quest’ultima definitivamente condannata a titolo di ricettazione degli stessi beni), sia stata l’effetto di un serie progressiva, convergente ed integrata di elementi e dati, tutti connotati dalla certa coscienza della provenienza illecita dei due dipinti, considerato:

a) che Don V., il quale aveva conferito a Vi.Li., consigliere di amministrazione della Fondazione S. Raffaele, di visionare le due tavole ("Chiamata di Pietro ed Andrea", del pittore napoletano G.B. Lama, datata 1589, risultata oggetto di furto perpetrato nel (OMISSIS) nella chiesa (OMISSIS), e di una tavola denominata "Compianto sul Cristo morto", opera dei pittori Silvestro Buono e Pompeo Landolfo della seconda metà del ‘500, risultata pure oggetto di furto consumato nel (OMISSIS) nella Chiesa di (OMISSIS)), conosceva l’esatta collocazione dei beni e la loro ubicazione, posto che per l’esecuzione di detto incarico-sopralluogo, egli ebbe a far accompagnare la Vi. nel deposito di "robe vecchie" (orto- capannone) del L. a mezzo dell’autista D., persona quest’ultima poi, callidamente quanto inutilmente prospettata, come il vero diretto interessato all’affare e munifico donante dei beni alla Fondazione;

b) che tale esatta cognizione delle cose e dei luoghi, conseguiva necessariamente, come ipotizzato dalla stessa Vi., ad una conoscenza diretta per una precedente personale loro visione "in loco", da parte dell’imputato Don V., oppure perchè qualcuno lo aveva necessariamente e puntualmente informato al riguardo;

c) che, comunque, Don V. ha concluso l’affare nella piena conoscenza di tutte le variabili che connotavano in modo specifico quel negozio: dimensioni delle due tavole (La chiamata: m.4,50 per 2,85; il compianto: m.2,70 per 1,57), loro caratteristiche, temi religiosi espressi, epoca di realizzazione (seconda metà del 500 ed anno 1589), valore, loro inadeguata ma suggestiva collocazione in un "orto-capannone" deposito di "robe vecchie";

d) che in tale contesto di manifeste ed oggettive condizioni, nessuna indagine sull’origine e provenienza delle opere fu effettuata nè dal V. e neppure dai suoi collaboratori, i quali, irragionevolmente ed in mala fede, si acquietarono della generica e stereotipata formula di esclusiva proprietà dell’opera, utilizzata dal robivecchi L.: realtà questa apprezzabile secondo i giudici di merito in termini di dolo eventuale oppure in termini di dolo diretto;

e) che a giustificazione, spiegazione e suggello logico di tale sequele di condotte gli imputati hanno intenzionalmente mentito in ordine alle modalità dell’acquisto, rimanendo silenti sugli aspetti significativi della vicenda;

f) che ulteriore mendacio ha realizzato il V. nel negare l’acquisto dei beni in questione (lettere: 28 gennaio 1994 diretta alla Soprintendenza; 12 luglio 1994 diretta all’avv. Tucci) ed il D. nell’avallare tale negazione.

Quindi esaustiva ed ineccepibile risposta alle indicazioni del giudice dell’annullamento.

Quanto al secondo profilo dello schema di motivazione, proposto dalla 2 sezione di questa Corte, ed attinente la condotta del V., dopo la stipulazione dell’acquisto ed in relazione alla attività di restauro, affidata a persone di "notevole competenza ed in contatto istituzionale con la Soprintendenza alle belle arti", la Corte di appello non è affatto venuta meno al suo compito di motivare nel rispetto dei criteri indicati nella decisione di annullamento con rinvio.

A tale effetto, ed al fine di rafforzare ancor più il giudizio sui profili soggettivi della condotta illecita del V., inoppugnabilmente inquadrabile nello schema dogmatico dell’art. 648 c.p., i giudici di merito hanno valorizzato, non solo l’assenza di una qualsiasi comunicazione spontanea alla Soprintendenza, compatibile con una condizione di "ostensibile buona fede", ma le diverse antipodiche condotte, da considerarsi espressione chiara della diversa ed accorta volontà di non coinvolgere prudenzialmente l’Ente predetto nella vicenda del restauro.

La Soprintendenza infatti: – ebbe notizia delle due tavole in modo del tutto causale (teste B.); – fu telefonicamente informata che il dipinto in restauro (il "Compianto del Cristo morto") era di proprietà di un consigliere dell’amministrazione della Fondazione (teste B.); – non ebbe risposta alla lettera 26 ottobre 1993 con la quale si chiese conto al Presidente la Fondazione delle due opere e di eventuali altri beni culturali in possesso dell’Ente; – ebbe tardiva risposta da parte del V. solo tre mesi dopo con lettera 28 gennaio 1994 con la quale si attribuiva al D., assieme alla proprietà di una sola delle due opere, anche l’intenzione di donarla alla Fondazione (a restauro del Sesti ultimato); il tutto senza alcun riferimento alla seconda tavola ("La chiamata di Andrea"), così aggravando il mendacio, posto che si negava il possesso di qualsiasi altro bene di interesse culturale.

Si tratta quindi di un complesso integrato di dati fatto sostenuti da congrue motivazioni operate dal giudice di merito ed insindacabili in questa sede, considerato che esse risultano essere l’esito argomentato dello schema motivazionale proposto dal giudice di annullamento e si sono sviluppate con una coerente trama giustificativa priva di incoerenze, illogicità o travisamenti dei dati processuali disponibili.

Da ultimo, per quanto riguarda la denuncia del vizio formulato con ricorso 30 novembre 2 dicembre 2005 ("motivo Ardiero") il difensore ha testualmente affermato "che il Collegio Supremo, nell’annullamento con rinvio non ha ritenuto nè la sussistenza di questioni giuridicamente controverse, nè la esigenza di riesame relativo a problematiche estranee alla competenza della Cassazione; nè la incongruenza delle richieste conclusive formulate dalla difesa:

talchè l’ha recepito nella sua integrità che include la conclusione ex artt. 620 e 129 c.p.p.; senonchè la tipica e peculiare funzione regolatrice della Cassazione ha correttamente precluso alla stessa di trasferire le – accolte – conclusioni defensionali in dispositivo conforme, data la pregiudizialità delle valutazioni motive ricadute sulla adeguatezza logico-giuridica nella ricostruzione del fatto; e dato l’accoglimento iuxta modum del relativo ricorso ex art. 623 c.p.p.".

Ritiene questa Corte che si tratti di assunto inaccettabile per le ragioni dianzi esaminate ed attesa la specifica area di annullamento, che – lo si ripete – ha avuto riguardo alla mera soggettività del delitto, qui solo osservandosi che nella specie l’imputato ha acquistato i beni in questione dal L. e che il L., in relazione a tali beni, risulta condannato per ricettazione con decisione irrevocabile.

Quanto al 2 motivo (B) esso, per come formulato, non supera la soglia dell’ammissibilità in quanto si limita a prospettare alla Corte di legittimità un giudizio – critico ed alternativo – sulle considerazioni e valutazioni probatorie, formulate dai giudici di merito, le quali risultano peraltro condotte ed ottenute, come già detto, nel rigoroso rispetto delle regole, stabilite in punto di formazione e peso del materiale probatorio d’accusa, con un’argomentazione che risulta priva di invalidità logico-giuridiche, apprezzabili e, quindi, per nulla censurabile in questa sede con esiti di annullamento della pronuncia gravata.

Da ultimo, quanto alla sostenuta prova positiva della non commissione del fatto da parte del V., e ad alla conseguente richiesta di applicazione del disposto del capoverso dell’art. 129 c.p.p., pur in presenza della causa estintiva della prescrizione, trattasi di doglianza palesemente inaccoglibile.

Il giudice del gravame è infatti legittimato a pronunciare sentenza di assoluzione ex art. 129 c.p.p., comma 2, soltanto se la prova dell’insussistenza del fatto, della sua irrilevanza penale o della non commissione del medesimo da parte dell’imputato risulti "evidente" sulla scorta degli stessi elementi e delle medesime valutazioni che hanno fondato la sentenza impugnata, senza necessità di nuove indagini e di ulteriori accertamenti, che sarebbero incompatibili con il principio dell’immediata operatività della causa estintiva (Cass. Pen. Sez. 4, 33309/2008 Rv. 241961 Rizzato).

Orbene – nella specie – l’analitica e diffusa motivazione dei giudici di merito, in sede di giudizio di rinvio, sulla sussistenza del fatto illecito e sulla sua attribuibilità all’azione cosciente e volontaria del Don Ve., in un contesto probatorio che non è affatto caratterizzato nè da contraddittorietà e neppure da insufficienza della prova, rende manifesta l’impraticabilità del capoverso dell’art. 129 c.p.p..

All’inammissibilità del ricorso stesso consegue, ex art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e di una somma in favore della Cassa delle ammende che si stima equo determinare in Euro 1000,00 (mille).
P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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