Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 13-12-2010) 27-01-2011, n. 3057 Ricorso

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Quanto segue:

La CdA di Lecce, con sentenza del giorno 11.11.2009, ha confermato la pronunzia di primo grado, con la quale D.S.L. fu condannato alla pena di giustizia, in quanto riconosciuto colpevole del delitto ex art. 495 c.p., perchè, essendo detenuto, dichiarava falsamente all’ufficiale di pg che gli chiedeva le sue generalità, di chiamarsi F.L..

Ricorre per cassazione il difensore e deduce violazione di legge e carenza dell’apparato motivazionale, atteso che i giudici del merito hanno arbitrariamente ritenuto che l’imputato avesse consapevolezza che le sue dichiarazioni sarebbero state trasfuse in un atto pubblico.

Se viceversa la CdA avesse posto la dovuta attenzione alle dichiarazioni del teste A.T., appartenente alla Polizia penitenziaria, si sarebbe resa conto che la fattispecie criminosa integrata era quella ex art. 496 c.p. e non quella di cui all’art. 495.

A. infatti ha chiarito che, avendo sentito gridare, si era avvicinato alla cella nella quale era ristretto il ricorrente e, poichè non conosceva i detenuti di quel settore, aveva chiesto, al semplice scopo di conoscere la loro identità, come si chiamasse il D.S., ricevendo la risposta di cui al capo di imputazione.

Non si vede dunque donde il ricorrente avrebbe potuto trarre la consapevolezza che le false generalità declinate sarebbero state annotate in un atto redatto dal predetto A., nell’esercizio delle sue funzioni.

Il ricorso è inammissibile per manifesta infondatezza.

Alla dichiarazione di inammissibilità consegue condanna alle spese e al versamento di somma a favore della Cassa ammende.

Si stima equo determinare detta somma in Euro 1000.

Si legge nella sentenza impugnata che A. era intervenuto perchè aveva sentito gridare: "siete tutti infami, appuntati infami". Avvicinatosi alla cella nella quale era ristretto il ricorrente, gli aveva chiesto come si chiamasse. Costui aveva, risposto che il suo nome era F.L..

In realtà il F. era l’altro occupante della cella e in quel momento era in bagno.

Dalle concrete modalità della condotta, dalle circostanze di tempo e di luogo in cui essa fu tenuta, i giudici di merito ebbero a maturare il convincimento che l’imputato, approfittando della momentanea assenza del compagno di cella, ne assunse l’identità allo scopo di allontanare il pericolo di un procedimento disciplinare che sarebbe stato istaurato a carico di chi aveva proferito gli insulti sopra ricordati all’indirizzo degli appartenenti alla Polizia penitenziaria.

La sentenza di appello parte dal presupposto, certo non irragionevole, che il D.S. non potesse ignorare che la condotta tenuta (aver dato degli "infami" agli appuntati) fosse disciplinarmente (ma, in realtà, anche penalmente) rilevante e che quindi lo "scambio di identità" ai danni dell’ignaro compagno di cella avesse proprio lo scopo di stornare da sè le conseguenze dell’azione appena prima compiuta.

E’ noto d’altra parte (ed è anche ovvio) che la natura dell’elemento psicologico non può che esser desunta dalle modalità della condotta.

Nel caso in esame, la CdA ha evidentemente ritenuto che l’imputato non potesse ignorare che sarebbe stata redatta una relazione di servizio sull’accaduto e che, proprio per tal motivo, egli si risolse a fornire false generalità.
P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma di Euro mille a favore della Cassa delle Ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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