Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 03-12-2010) 27-01-2011, n. 3039 Abuso di ufficio; Scriminanti

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

ardelli Fabrizio in sostituzione dell’avv. Pizza.
Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Propongono ricorso per cassazione R.G., M. A. e D.R.E. avverso la sentenza della Corte di appello di Napoli in data 2 febbraio 2009 con la quale – a parte una riduzione del trattamento sanzionatorio riguardante M. – è stata confermata la sentenza di primo grado (del 2007, emessa all’esito di giudizio abbreviato) affermativa della loro responsabilità in ordine ai reati di seguito indicati.

M. quale sindaco del Comune di Summonte, è stato ritenuto responsabile dei reati di falso ideologico in atto pubblico (capo A), abuso di ufficio (capo B) e D.Lgs. n. 490 del 1999, art. 118 (capo C) – decreto peraltro abrogato dal D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 184, introduttivo del Codice dei beni culturali e del paesaggio, che ha però ripreso la normativa sanzionatoria penale-, ossia la contravvenzione che punisce la modifica senza autorizzazione o la esecuzione di lavori di qualunque genere, senza approvazione, sui beni culturali;

R., quale imprenditore titolare della ditta incaricata dei lavori di manutenzione del detto Comune, è stato ritenuto responsabile della contravvenzione sub C); D.R., nella veste di dirigente dell’Ufficio tecnico comunale del Comune, è stato riconosciuto responsabile di una duplice condotta di falsità ideologica in atto pubblico (capi D) ed E)), nonchè della contravvenzione ex art. 118 D. cit. rubricata sub F).

A tutti gli imputati sono state concesse le circostanze attenuanti generiche e, in esito all’appello, è stata anche applicata a M. e D.R. la misura accessoria della interdizione dai pubblici uffici per un anno. La vicenda processuale aveva tratto origine dalla decisione dei fratelli P. e D.C. F., divenuti proprietari, nel 1997, di un palazzo che nel successivo 1999 era stato sottoposto a tutela da parte del Ministero dei beni culturali ed ambientali ex L. n. 1089 del 1939, di posizionare sullo spazio antistante al palazzo dei vasi aventi la funzione di delimitarlo ed impedire l’accesso e il parcheggio di vetture o la occupazione da parte di banchi del mercato. Era stato redatto un progetto per il posizionamento dei vasi e la Soprintendenza lo aveva approvato nel novembre 2002. Di tale approvazione, come del presupposto decreto ministeriale di sottoposizione a tutela, il Comune era stato formalmente messo a conoscenza, senza far registrare alcuna obiezione. Pertanto la Soprintendenza aveva, con provvedimento del 17 giugno 2003, ordinato il posizionamento delle fioriere nei luoghi indicati.

Il 18 giugno 2003, era stata però emessa e notificata ai D. C. una ordinanza sindacale con la quale, sul presupposto della attestazione – ritenuta falsa – secondo cui l’area occupata dalle fioriere era oggetto di uso pubblico da un ventennio e che tanto era stato affermato anche dall’Ufficio di Polizia municipale, si ordinava ad horas la rimozione delle fioriere; in pari data, il Sindaco ordinava la esecuzione forzata della rimozione ritenendo che tale spiazzo fosse destinato ad uso pubblico.

Il R. era il titolare della ditta cui era stato affidato il compito della materiale rimozione.

I D.C., secondo quanto accertato in sentenza, avevano anche impugnato l’ordinanza sindacale, senza ottenere risposta positiva, nemmeno in via cautelare, da parte del giudice amministrativo.

I giudici, in ordine al capo A), osservavano che il sindacato sul posizionamento delle fioriere non rientrava nelle competenze sindacali, essendo attività non soggette nè a Dia nè a permesso di costruire. Il Comune aveva solo il potere di controdeduzione alla determinazione del Ministero dei beni culturali, però non esercitato.

Aggiungevano che, secondo i rilievi del consulente del PM, lo spiazzo in questione rientrava nell’area soggetta a tutela del ministero dei beni culturali. Proseguivano i giudici osservando che l’ordinanza sindacale oggetto di imputazione conteneva la falsa attestazione dell’"uso pubblico" ultraventennale dell’area in questione, attestazione che si poneva in obiettivo contrasto con il tenore di un atto acquisito al processo: ossia della richiesta che nel 1995 l’allora sindaco del Comune aveva rivolto ai proprietari del palazzo, per la autorizzazione alla temporanea installazione di un chiosco.

Il sindaco M., per converso, era a conoscenza del carteggio dei D.C. con la Soprintendenza, sicchè doveva ritenersi sussistente il dolo della falsa attestazione e insussistente qualsiasi errore in fatto. Invero, non vi era alcuna apprezzabile esigenza per la circolazione dei veicoli posto che l’area era servita da una apprezzabile arteria stradale mentre lo spiazzo non presentava neppure la segnaletica stradale.

Inoltre nell’atto oggetto di impugnazione si era attestato il parere dell’Ufficio della Polizia Municipale mentre era risultata falsa la firma del Comandante dei Vigili apposta in calce al detto parere.

In ordine al capo B) – ossia alla contestazione di abuso di ufficio scaturente dalla adozione della ordinanza di rimozione, illegittima anche perchè finalizzata a recare ai D.C. un danno ingiusto – la Corte territoriale evidenziava che la ordinanza era illegittima per essere stata emessa al di fuori delle situazioni di urgenza che legittimano tale genere di provvedimento da parte del sindaco, essendo invece competenti a provvedere i dirigenti preposti ai vari uffici. Inoltre aveva fatto registrare la violazione del D.Lgs. n. 490 del 1999, art. 23, ossia della norma che riserva alla Soprintendenza il potere di approvare i progetti di opere che il privato intenda eseguire sul bene di interesse culturale, essendosi il sindaco sovrapposto ed opposto alla determinazione dell’organo ministeriale, in un caso nel quale non era nemmeno titolare di poteri concorrenti. La Corte motivava anche sulla configurabilità dell’elemento del reato ex art. 323 c.p. rappresentato dal "danno ingiusto" e di quello del dolo intenzionale.

In ordine al capo C), la Corte di merito evidenziava che vi era stata "la rimozione" ossia la variazione di un’area tutelata in quanto bene culturale.

Tale condotta era da ascrivere anche al R., che aveva eseguito l’ordine del sindaco, escludendosi che per esso potesse configurarsi la esimente dell’adempimento di un dovere. Il R. infatti non si era trovato al cospetto di un ordine insindacabile ma avrebbe dovuto astenersi dal dare seguito ad un ordine illegittimo della autorità, peraltro punibile anche a titolo di mera negligenza, trattandosi di fatto integrante contravvenzione.

Infine, in merito al D.R., se ne confermava la responsabilità in ordine alle due fattispecie di falsità ideologica in atto pubblico, con riferimento alla redazione del verbale di sopralluogo dallo stesso effettuata (Capi D ed E). Quanto alla falsità sull’uso pubblico ventennale dell’area, peraltro in contrasto con la esistenza del vincolo su bene di interesse culturale, già illustrata a proposito del capo A), la Corte aggiungeva che l’imputato aveva fatto riferimento a lavori di manutenzione sull’area stessa da parte del Comune, dovendo però poi ammettere che non ve ne era traccia contabile in Comune; anche il riferimento al parere dell’Ufficio della Polizia Municipale era stato attestato ma era risultato falso per il carattere apocrifo della firma in calce.

Inoltre falsa era risultata anche la attestazione del D.R., nella qualità, (il 28 luglio 2003) relativamente al fatto che tra le aree individuate per interventi progettuali decisi dal Comune rientrava lo spiazzo in contestazione. Era emerso che gli interventi progettuali in questione non erano affatto pregressi, ma successivi alla attestazione, risalendo al periodo di settembre 2003 – marzo 2004. Infine (Capo F) era stato accertato che nel (OMISSIS) erano iniziati i lavori per la installazione di un palo per la pubblica illuminazione, proprio sullo spiazzo vincolato. E la decisione dei lavori era stata presa sulla base della attestazione dell’Ufficio Tecnico riguardo all’uso pubblico dell’area nonostante la infondatezza di tale qualificazione.

Deducono:

R., con due distinti ricorsi (avv. Sorvino ed avv. Pizza).

1) il vizio di motivazione.

Il giudice di primo grado aveva affermato la esistenza del vincolo,trattandosi di bene di interesse architettonico, anche sullo spiazzo in contestazione (rientrante nella particella 232 del f. 7) ed aveva argomentato la assenza di una servitù di uso pubblico del bene al pari di un ipotetico potere di autotutela del Comune.

Il primo difensore, nei motivi di appello aveva contestato la estensione del detto vincolo e soprattutto evocato la ricorrenza della esimente dell’art. 51 c.p., tanto più applicabile in quanto la presunta arbitrarietà dell’ordine eseguito era ancora oggetto di una controversia dinanzi al giudice amministrativo. Si richiedeva altresì il riconoscimento della assenza dell’elemento psicologico del reato.

La Corte non aveva replicato ai motivi di appello se non, per una parte soltanto, con argomenti inconferenti (accertamenti fotografici del consulente del PM);

aggiunge il secondo difensore sul punto, che il R. aveva sottoscritto con il Comune un contratto di manutenzione che lo obbligava alla esecuzione tempestiva dei detti lavori. Tanto lo aveva indotto a ritenere l’ordine ad horas come insindacabile e a porlo in una situazione che poteva valere a evidenziare quantomeno un errore sul fatto della legittimità dell’ordine stesso.

L’esimente dell’art. 51 c.p. richiede invero la verifica della legittimità dell’ordine solo attraverso un controllo sui parametri formali; il sindacato da parte del R., d’altra parte, non si sarebbe potuto esercitare sugli elementi – asseritamente falsi – oggetto di contestazione specifica ex art. 479 c.p. a carico del sindaco M.;

1bis) la violazione di legge ( D.Lgs. n. 490 del 1999, art. 118).

La tutela prevista dal citato decreto comprende beni culturali e non anche aree antistanti ad essi e men che meno fioriere, la cui rimozione aveva costituito per l’appunto l’oggetto della contestazione;

2) il vizio di motivazione sul trattamento sanzionatorio, del quale la difesa aveva richiesto la rimodulazione con computo delle attenuanti generiche nella massima estensione;

3) la nullità della sentenza per violazione dell’art. 125 c.p.p., in relazione all’essere stata vergata, la relativa motivazione, a mano e con grafia difficilmente intellegibile;

4) la prescrizione del reato contestato, di natura contravvenzionale.

Il M.;

1) il vizio di motivazione quanto al reato sub A).

Il Gup aveva evidenziato ed argomentato la sussistenza del vincolo ambientale che era incompatibile con l’uso pubblico dello spiazzo, attestato dal sindaco nella ordinanza a sua firma del 18 giugno 2003.

Il dolo era stato ricavato dalla sicura notorietà della complessa situazione e dalla notifica formale di tutti gli atti relativi alla interlocuzione della Soprintendenza sul bene immobile in contestazione.

La difesa aveva però replicato, con i motivi di appello, contestando, documenti catastali alla mano, la estensione del detto vincolo anche allo spiazzo e comunque ribadendo l’uso pubblico da parte della collettività. Aveva anche contestato gli argomenti utilizzati dal Gup per affermare l’asservimento ad un pregresso uso pubblico, che era quello consistente non già nel transito dei veicoli quanto nella necessità di spazio per le manovre dei mezzi pubblici e per il parcheggio. In tale prospettiva aveva segnalato la presenza di segnaletica regolante il parcheggio e l’uso anche da parte dei pedoni che dovevano raggiungere gli autobus in partenza. In senso contrario si era rimarcato che non potessero valere nè la richiesta di allocazione di un chiosco risalente al 1995 e non incompatibile con la proprietà privata dell’immobile, nè decisioni definitive del giudice amministrativo, ancora non emesse.

Si era anche sottolineata la assenza di dolo in capo al sindaco il quale si era solo limitato a richiamare pareri provenienti da altri uffici m a non a fare proprio il contenuto attestativo di quegli atti.

Anche la falsità della sottoscrizione in calce alla richiamata relazione dell’Ufficio della Polizia municipale avrebbe dovuto essere ridimensionata quanto a gravità, posto che era rimasto accertato che essa era riferibile alla mano di un vicario.

In conclusione si era rimarcato come l’attestazione attribuibile al M. fosse solo quella conclusiva, del ritenere, cioè, l’area in questione come pubblica a tutti gli effetti: una conclusione meramente soggettiva, non rientrante tra le attestazioni che attengono allo scopo tipico dell’atto emanato.

Scopo della ordinanza era infatti solo quello di evitare una ragione di intralcio per il traffico, ossia una finalità rientrante nei poteri di polizia del traffico, ed ogni altra attestazione doveva ritenersi estranea a tale oggetto.

La difesa aveva anche allegato l’errore in cui era stato indotto il M. ex art. 48 c.p. per effetto delle altrui attestazioni.

Ebbene la motivazione esibita dalla Corte era stata del tutto lacunosa riguardo a ciascuno degli elementi fin qui ricordati.

Si era cioè ribadita la inesistenza di un pregresso uso pubblico del bene in ragione di un fatto irrilevante quale il documento comprovante la richiesta di autorizzazione per l’insediamento temporaneo di un chiosco, valida soltanto nell’ottica di dimostrare la proprietà privata dell’area e non anche la compatibilità di tale proprietà con un uso pubblico.

L’uso pubblico era poi stato escluso anche in via di fatto per la non necessità dell’area alla circolazione dei veicoli, senza tenere conto che la difesa aveva segnalato anche altri profili di uso pubblico dell’area (pedonale, soste, manovre).

Nulla era stato argomentato sulla dedotta induzione in errore e sul dolo, posto che anche il decreto ministeriale di imposizione del vincolo appariva equivoco ed opinabile nella sua estensione.

2) il vizio di motivazione e l’erronea applicazione dell’art. 323 c.p. (capo B). La difesa aveva contestato che il sindaco avesse emanato l’ordinanza per il fine indicato nella contestazione (ossia quello di appropriarsi dell’area ovvero, come precisato dal Gup, di danneggiare i D.C. ripristinando sulla loro area la circolazione stradale). Il sindaco aveva piuttosto agito per salvaguardare l’interesse collettivo all’uso dello spiazzo soprattutto in relazione alla fruizione dei mezzi di trasporto pubblici. Inoltre la stessa difesa aveva argomentato sulla qualificabilità della condotta consistita nel posizionamento delle fioriere come soggetta alla DIA perchè capace di operare una trasformazione ontologico-funzionale dello spiazzo. Tutte tali evenienze davano la misura della non arbitrarietà ed anzi della doverosità dell’intervento del sindaco il quale non poteva essere accusato di avere adottato un provvedimento in violazione di legge.

Infine era stato contestato, nei motivi di appello, il requisito normativo consistente nel danno ingiusto posto che il M. aveva agito non certo per conseguire la proprietà del bene, ma per rimuovere una situazione di pericolo, rimanendo oltretutto sub judice la questione della sussistenza della servitù di uso pubblico.

Rispetto a tali rilievi la motivazione della Corte di appello era rimasta del tutto silente;

3) il vizio di motivazione sul reato sub C).

La difesa aveva evidenziato, in contrasto con gli argomenti del Gup, che l’ordinanza di esecuzione forzata della rimozione era stata determinata non dalla volontà di alterare i luoghi soggetti a tutela ma dalla necessità di reprimere un comportamento contrario alle norme urbanistiche. Comunque si trattava di un comportamento non rientrante nella previsione normativa perchè relativo non ad un bene sottoposto a vincolo ma a delle fioriere;

4) il vizio di motivazione sulla richiesta diminuzione del trattamento sanzionatorio;

5) la nullità della sentenza per violazione dell’art. 125 c.p.p., in relazione all’essere stata vergata, la relativa motivazione, a mano e con grafia difficilmente intellegibile.

D.R. deduce:

1) il vizio di motivazione in ordine al reato di falsità ideologica sub D).

La falsità aveva riguardato la relazione dallo stesso redatta il 17 giugno 2003 a seguito di sopralluogo sui luoghi più volte menzionati.

In essa era stato falsamente attestato l’uso pubblico ventennale dello spiazzo nonchè l’intervento manutentivo sull’area da parte del comune e vi era il richiamo ad un preteso parere dell’Ufficio di Polizia Municipale.

Il Gup era giunto a tali conclusioni sulla base degli indicatori di fatto sopra più volte menzionati e della sicura conoscenza del reale stato dei luoghi che derivava al D.R. in ragione della sua competenza tecnica.

La difesa aveva contestato tali conclusioni evidenziando che il bene non rientrava nel vincolo sia per ragioni formali che in ragione della assenza di qualsivoglia valore storico artistico dello spiazzo;

aveva anche addotto una serie di elementi a giustificazione della tesi dell’asservimento in concreto, dell’area, ad uso pubblico, asservimento che del resto era proprio ciò che i D.C. avevano inteso espressamente far cessare con la richiesta rivolta alla soprintendenza, motivata dalla necessità di impedire il traffico veicolare.

La difesa aveva argomento sulla irrilevanza, ai fini che ci occupano, della richiesta di autorizzazione formulata dal Comune ai danti causa dei D.C., non essendo in contestazione la proprietà privata del bene, ma la compatibilità del detto uso pubblico con il vincolo ambientale e paesaggistico:

compatibilità che lo stesso Gup aveva implicitamente ammesso quando aveva rilevato che il sindaco avrebbe potuto formulare osservazioni, a tutela degli interessi pubblici, all’ufficio competente del Ministero dei beni culturali.

La Corte nulla aveva replicato se non con affermazioni o irrilevanti o meramente assertive.

Inoltre il presunto mendacio del D.R. sul parere espresso dalla Polizia municipale non poteva ricavarsi in modo automatico dal carattere apocrifo della firma in calce ad esso, potendosi ipotizzare (v. pag. 8) che un parere fu comunque acquisito indipendentemente da ciò. La firma non era peraltro falsa ma consisteva in una sigla apposta, secondo prassi consolidata, dal m.llo Ma. quando il titolare era impedito;

2) il vizio di motivazione quanto al reato di falso sub E), addebitato con riferimento alla nota del 28 luglio 2003 che il D. R. aveva redatto e consegnato alla difesa del Comune nel procedimento dinanzi al Tar Campania. In essa era stato attestato che lo spiazzo antistante il palazzo dei D.C. era ricompreso tra le aree individuate per gli interventi di riqualificazione urbana, mentre invece il relativo progetto, che il D.R. era stato incaricato di redigere con delibera di giunta del 10 luglio, era ancora in fieri e ben lontano dalla approvazione.

Ebbene la difesa aveva obiettato che la nota in questione non conteneva la falsa attestazione della esistenza di un progetto approvato,, ma era volto unicamente ad attestare la identità delle aree individuate ai fini del futuro progetto, sulla base dei criteri indicati dalla Giunta. Anche sul punto la Corte non aveva replicato.

3) Il vizio totale di motivazione riguardo al reato sub F).

La difesa aveva segnalato la inesistenza del vincolo sull’area interessata dal lavoro disposto dal D.R. (installazione, sullo spiazzo, di un lampione) e comunque il carattere non soggetto ad autorizzazione del lavoro de quo, di manutenzione ordinaria;

4) il vizio di motivazione riguardo al trattamento sanzionatorio;

5) la nullità della sentenza per violazione dell’art. 125 c.p.p., in relazione all’essere stata vergata, la relativa motivazione, a mano e con grafia difficilmente intellegibile.

Il ricorso è fondato nei termini che si indicheranno.

Deve preliminarmente sgombrarsi il capo dalla eccezione si nullità della sentenza impugnata formulata da tutti i difensori, in relazione all’art. 125 c.p.p..

Nulla è infatti soltanto la sentenza la cui motivazione risulta scritta a mano con grafia illeggibile, mentre nella specie la grafia è comprensibile, richiedendo solo una certa cura nella lettura connessa alla ormai abbandonata dimestichezza con lo scritto vergato a mano.

Deve poi darsi atto, in ordine alla contestazione delle contravvenzioni D.Lgs. n. 490 del 1999, ex art. 18 (capi C ed F) che i motivi di ricorso non sono manifestamente infondati per alcuno, con la conseguenza della operatività della causa di estinzione nelle more intervenuta.

Quanto alla posizione del R., cui è stato addebitato il capo C), non è invero del tutto condivisibile l’assunto della difesa che deduce la erronea applicazione dell’art. 51 c.p..

La giurisprudenza di questa Corte osserva, con orientamento consolidato, che la causa di giustificazione dell’adempimento di un dovere, di cui all’art. 51 c.p., non è applicabile quando il soggetto abbia agito in esecuzione di un ordine, impartito dal superiore gerarchico, avente ad oggetto il compimento di un atto palesemente delittuoso, quale, ad esempio, la soppressione di un atto pubblico (Rv. 167316; Conf. rv 161100, relativa alla esecuzione dell’ordine di registrare in atto pubblico una attestazione non veritiera; rv 126701; rv 106697). Tuttavia, nella specie, la Corte di merito ha bene sottolineato che anche in assenza di un ordine palesemente illegittimo, la condotta del R. sia da riprovare penalmente perchè comunque connotata da negligenza, per non avere egli valutato la incidenza della propria azione sui diritti legittimamente opposti da chi subiva l’atto di esecuzione forzata.

Nè l’essere tenuto, per contratto, alla esecuzione dei lavori di manutenzione commissionati dal Comune lo esonerava, per ciò solo, da qualsiasi sindacato sulle conseguenze del proprio agire nelle altrui sfere giuridiche, o valeva a configurare un non meglio precisato errore sul fatto. Una negligenza che, in materia di contravvenzione, è sufficiente a far ritenere integrata la violazione in contestazione.

Per quanto concerne poi gli altri ricorrenti, il vizio di motivazione da essi dedotto in relazione al reato nelle more prescritto non può comportare l’annullamento con rinvio ai fini penali della sentenza impugnata posto che il giudice del rinvio non potrebbe far altro che proclamare, stante il dovere imposto in tale senso dall’art. 129 c.p., la causa di estinzione del reato.

Ai fini delle statuizioni civili, comunque, la sentenza sul punto non merita censure.

Le contravvenzioni sono state, si, addebitate in riferimento alla rimozione delle fioriere ed alla apposizione di un palo della luce, ma essenzialmente come variazione dell’assetto di un’area tutelata in quanto bene culturale.

La Corte ha preso le mosse dalla emanazione, da pare della competente soprintendenza, di una ordinanza di posizionamento di alcune fioriere a delimitazione di un’area annessa al palazzo dei D.C., sottoposta a tutela ex L. n. 1089 del 1939, su richiesta dei privati interessati. Si era trattato di una ordinanza ritualmente notificata anche al Comune e da tale ente non contestata, anche perchè diversa rispetto a quella pacificamente appartenente al detto Comune.

La Corte ha anche motivato sulla finalità di tale ordinanza intesa a delimitare per l’appunto, l’area tutelata in questione e ad impedirne così l’uso con vetture in sosta o da banchi del mercato.

Il vincolo architettonico, d’altra parte, impediva qualsiasi altra variazione dell’area in assenza di autorizzazione dell’ente preposto alla tutela del vincolo stesso.

A fronte di tale accertamento le contrarie deduzioni difensive non valgono ad integrare argomenti capaci di incidere sulla tenuta della motivazione adottata con la conseguenza che la lamentata mancanza di risposta da parte del giudice dell’appello, ove effettivamente riscontrabile, non può dirsi relativa ad elemento decisivo e quindi censurabile.

La difesa si è infatti appellata a dati catastali di incerta valenza fattuale (il ricadere cioè l’area in questione in una particella che recherebbe un particolare della relativa numerazione atto a differenziarla da quella sicuramente ricadente nel vincolo) che i giudici hanno evidentemente ritenuto incapace di infirmare la tesi accreditata:

questa è stata basata, infatti, in primo luogo sull’avvenuto implicito riconoscimento della esistenza del vincolo ad opera della stessa Soprintendenza la quale, su tale imprescindibile presupposto, ha emanato la propria ordinanza. Inoltre la esistenza di una lite giudiziaria in proposito potrebbe avere valore, semmai, nel senso di far ritenere il Comune interessato alla negazione di un vincolo fino a quel momento riconosciuto dagli organi competenti.

Oltre a ciò la motivazione della Corte non risulta carente o eccentrica neppure rispetto alla doglianza della difesa secondo cui il detto vincolo, quand’anche esistente, potrebbe non essere incompatibile con l’esistenza di una servitù di uso pubblico.

Dalla motivazione della Corte di merito si evince infatti una simile implicita valutazione dal momento che i due interessi posti a confronto, e ritenuti al fine incompatibili, non sono quelli di un qualsiasi bene sottoposto a vincolo architettonico e di un qualsiasi uso pubblico, ma quello di un’area antistante un palazzo di pregio culturale e quello dello stabile uso di questa ad opera di veicoli e di attività commerciali ambulanti.

L’assetto dell’area come disposto dalla Soprintendenza è stato cioè quello di imporre una sorta di perimetro visibile, conforme ai canoni estetici dell’ambiente, non già per impedire qualsiasi tipo di fruizione pubblica dello spiazzo, bensì la sola fruizione reputata lesiva degli interessi tutelati dal Ministero competente, derivante dal transito e occupazione veicolare e di bancarelle che sono fonti di deturpamento paesaggistico, oltre ovviamente a apposizioni di manufatti aventi carattere di stabilità.

Pertanto la rimozione delle fioriere così come i lavori per la infissione di un palo della luce hanno inciso sul detto assetto reputato dalla Soprintendenza meritevole di un apposita statuizione e/o autorizzazione e valgono ad integrare la violazione dell’art. 118 cit. che punisce la demolizione, rimozione, modificazione, restauro senza autorizzazione, nonchè l’esecuzione di opere di qualunque genere sui citati beni senza approvazione. E il bene tutelato da tale norma, come sottolineato dalla giurisprudenza di questa Corte, è esclusivamente l’interesse strumentale al preventivo controllo da parte dell’Autorità preposta alla tutela dei beni culturali (Rv.

241784).

Per quanto concerne il reato di falsità ideologica addebitato a M., poi, il ricorso è infondato.

La Corte ha fondato il proprio assunto sul rilievo, ineccepibile, secondo cui il falso ideologico in documenti a contenuto dispositivo può investire le attestazioni, anche implicite, contenute nell’atto e i presupposti di fatto giuridicamente rilevanti ai fini della parte dispositiva dell’atto medesimo, che concernano fatti compiuti o conosciuti direttamente dal pubblico ufficiale, ovvero altri fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità (fra le molte, v.

Rv. 236867).

Ed ha evidenziato che l’atto dispositivo oggetto della imputazione sub A) conteneva, tra le attestazioni presupposte, quella dell’essere l’area in questione gravata da uso pubblico ventennale e l’essere stata, tale condizione, asseverata anche in un parere dell’Ufficio della Polizia Municipale. Entrambe le circostanze erano però non conformi al vero in quanto l’uso pubblico era semmai stato subito dagli interessati e certamente per un periodo ben più breve, ed inoltre il detto Ufficio non aveva rilasciato il parere che, infatti, recava una firma apocrifa.

La difesa ha contestato tali assunti sulla base di argomentazioni non fondate. Essa rinnega qualsiasi valenza agli elementi principali della motivazione della Corte sul primo punto, e cioè l’essere il detto uso pubblico – come sopra specificato-incompatibile con il vincolo architettonico e l’avere, tale stato anche giuridico delle cose, trovato conforto in una pregressa corrispondenza tra sindaco e vecchi proprietari del Palazzo, con la quale era stato richiesto dal primo la autorizzazione alla installazione provvisoria di un chiosco.

Il ragionamento seguito dalla Corte non reca alcun sintomo di manifesta illogicità atteso che, posto che il vincolo era teso a preservare l’area dalla occupazione ad opera di veicoli e bancarelle, essa ha giustamente ravvisato un’incompatibilità del medesimo vincolo con il contrario intendimento della amministrazione comunale, volto proprio a rendere nuovamente possibile il transito veicolare.

D’altra parte è razionale anche la ulteriore deduzione impostata sulla richiesta di autorizzazione del 1995, dal momento che una simile richiesta non presupponeva solo il riconoscimento della altrui proprietà – come sostiene la difesa – ma anche, quale effetto della signoria sul bene, del diritto al relativo uso in concreto, la concessione temporanea del quale costituiva dunque l’oggetto proprio della richiesta del 1995. La richiesta, cioè, rappresentava la dimostrazione indiretta del fatto che il Comune riconosceva di non avere nè in diritto nè godere in fatto l’uso dell’area in questione. L’attestazione dell’uso ventennale dell’area, contenuta nel provvedimento oggetto di imputazione, è stata dunque correttamente qualificata come falsa ideologicamente, al pari della attestazione sul parere dell’Ufficio della Polizia municipale che, ad onta di tutte le osservazioni della difesa sulla prassi esistente in materia di firme, resta oggetto di una valutazione ineccepibile della Corte di merito a proposito del fatto che il medesimo parere non risulta essere stato reso dal responsabile dell’Ufficio in intestazione.

Ogni contraria deduzione contenuta nei motivi di ricorso sul punto, peraltro, si atteggia a prospettazione di una alternativa ricostruzione della fattispecie, non consentita nella sede della legittimità.

Restano da esaminare le residue doglianze sulla motivazione che risulterebbe carente in tema di destinazione dell’atto pubblico in esame a provare la verità di quanto attestato falsamente e di atteggiamento psicologico del ricorrente. Ebbene, sotto il primo profilo, rileva la circostanza che la delibera sindacale di rimozione delle fioriere recava la menzione del pregresso ed attuale uso pubblico dell’area non già a titolo meramente descrittivo o rievocativo ma in quanto tale condizione era il presupposto fondante della ordinanza medesima e costituiva la ragione (apparentemente) legittimante l’esercizio dei poteri sindacali su un’area privata, libera da qualsivoglia tutela di autorità concorrente. Quanto al secondo profilo, quello cioè soggettivo, segnatamente nella prospettiva dell’art. 48 c.p., deve escludersi qualsiasi apprezzabile carenza di motivazione da parte della Corte.

La tesi dalla stessa sostenuta, e cioè la sicura consapevolezza, da parte del sindaco, della falsità di quanto attestato, è stata fondata su considerazioni di ordine logico che sostanziano un giudizio di plausibilità della motivazione stessa, tale da renderla immune da censure nella sede della legittimità.

La Corte ha cioè ritenuto che per le specifiche competenze del sindaco, per le notifiche degli atti relativi al vincolo culturale e per la risonanza della questione, lo stesso fosse a perfetta conoscenza dei particolari salienti della questione e pertanto abbia agito con piena consapevolezza e volontà.

Una simile tesi è evidentemente incompatibile con quella, opposta, sostenuta dalla difesa e fondata sulla pretesa induzione in errore da parte del funzionario infedele, in tema deve ricordarsi che non è censurabile la motivazione del giudice dell’appello che, pur non replicando puntualmente ad un motivo di gravame, tuttavia renda evidente di averlo ritenuto assorbito con una ricostruzione rassicurante della fattispecie concreta, rispetto alla quale non possa avere ingresso alcuno la censura dell’appellante.

Il secondo motivo è fondato.

La parte lamenta carenze di motivazione essenzialmente sull’elemento soggettivo del reato che, come è noto, consiste nel dolo intenzionale e non può essere integrato dal dolo eventuale.

Ebbene, in materia, osserva la Cassazione che, in tema di abuso d’ufficio, per la configurabilità dell’elemento soggettivo è richiesto il dolo intenzionale, ossia la rappresentazione e la volizione dell’evento come conseguenza diretta e immediata della condotta dell’agente e obiettivo primario da costui perseguito (Rv.

241210).

Non è invece integrato il detto elemento quando l’agente intende perseguire l’interesse pubblico come obiettivo primario (Rv. 227280).

Orbene, se è vero che la ricostruzione accreditata dalla Corte di merito delinea la intenzione dell’agente come volta a realizzare il depauperamento del bene, con spregio del vincolo architettonico (pag.

5), è anche vero che risulta attestato in altra parte della motivazione (pag. 3) che l’ordinanza sindacale in questione è stata oggetto di ricorso al Tar con richiesta anche di sospensiva, non accolta dal giudice amministrativo.

Ebbene, proprio la pendenza della questione dinanzi al giudice amministrativo e la resistenza del Comune alla lite instaurata dai D.C., con parziale successo dell’Ente locale nella fase cautelare, offre il quadro di una situazione giuridica contesa dalle parti e fa velo alla possibilità di affermare con certezza che l’intenzione che ha mosso il ricorrente sia stata primariamente quella di danneggiare le parti civili e non piuttosto quella di perseguire un vantaggio per la cittadinanza a scapito, evidentemente, dei diritti fino a quel momento accampati del tutto legittimamente dai titolari dell’area.

La impossibilità, apprezzabile dalla sentenza impugnata, di una valutazione del materiale probatorio diversa da quella che si impone allo stato degli atti, tenuto conto della ormai sviscerata materialità degli eventi, consente a questo giudice della legittimità di annullare la sentenza impugnata anche in relazione al capo B) perchè il fatto non costituisce reato.

Il quarto motivo resta assorbito.

Deve infatti procedersi alla rideterminazione della pena che viene quantificata, previa esclusione degli aumenti per continuazione, tenendo conto della pena fissata per il reato base nella misura di anni uno e mesi sei di reclusione, prossima al minimo edittale (con attenuanti generiche equivalenti alla recidiva in ragione dell’ineccepibile valutazione sul punto da parte del giudice del merito), in anni uno di reclusione, a seguito della riduzione del terzo per il rito abbreviato.

Deve essere eliminata altresì la pena accessoria di cui all’art. 31 c.p., basata sull’addebito del reato di abuso di ufficio.

Infondato è invece il ricorso di D.R., fatta eccezione per il reato sub F) del quale si è detto.

Il primo motivo è infondato per tutte le ragioni già espresse con riferimento agli analoghi argomenti spesi dalla difesa nell’interesse di M., dovendosi tra l’altro considerare che la relazione falsa attribuita al D.R. è stata integralmente recepita e costituisce il fondamento della contestazione mossa sub A) a M.. Il secondo motivo è inammissibile.

Esso, pur consistendo nella allegazione di una omissione di motivazione, impinge su circostanze di fatto evidentemente ritenute irrilevanti dalla Corte di merito. Questa ha addebitato la falsità ideologica in esame sulla base del contenuto attestativo dell’atto, giudicato motivatamente falso, mentre la difesa lamenta la mancata valutazione di elementi che andrebbero ad incidere sulle motivazioni della attestazione e non sul suo effettivo tenore. Circostanze irrilevanti nella delineazione del falso ideologico.

Infatti nel reato di falso ideologico commesso dal pubblico ufficiale in atti pubblici, il dolo è costituito dalla cosciente volontà del pubblico ufficiale di attestare il falso, senza che occorra l’animus nocendi o decipiendi e senza che possano avere rilevanza i motivi che hanno determinato l’azione (Rv. 114209; Rv. 231427). Nella specie la difesa richiede la valutazione della intenzione effettivamente avuta dal ricorrente ma non la colora di quei particolari di fatto che soli potrebbero valere a delineare diversamente non i motivi dell’agire, del tutto indifferenti, ma l’oggetto della attestazione da lui compiuta: attestazione che invece risulta incontestatamente essere caduta sulla avvenuta redazione di un progetto di riqualificazione, non ancora elaborato e tantomeno approvato. Per quanto concerne la motivazione riguardante il confermato trattamento sanzionatorio v’è da considerare la totale infondatezza degli argomenti della difesa.

Questa – a parte il generico riferimento alla buona condotta processuale dell’imputato – ha dedotto la mancata considerazione della natura incerta del bene immobile non considerando che anche la dedotta opinabilità della inesistenza del vincolo architettonico non potrebbe incidere sul detto elemento soggettivo. Questo, infatti, riguarda una condotta materiale in violazione del bene della fede pubblica su un dato di fatto (attestazione dell’uso pubblico ventennale del bene) che è stato accertato come falso e che era indipendente dall’esito della lite giudiziaria. In favore di D. R. tuttavia la pena deve essere rideterminata con la eliminazione di mesi uno per effetto della dichiarata estinzione del reato sub F) e quantificata in finali mesi 9 e gg 10 di reclusione (p.b. anni uno di reclusione per il reato ex art. 479 c.p., con attenuanti generiche; aumentata di mesi due per effetto della continuazione;

diminuita di un terzo per il rito).

Alla soccombenza consegue la condanna dei ricorrenti M. e D.R. alla rifusione delle spese sostenute dalle parti civili, liquidate come nel dispositivo.
P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata, senza rinvio nei confronti di tutti i ricorrenti, m limitatamente ai reati sub C) ed F) perchè estinti per prescrizione ed altresì nei confronti di M., con riferimento al delitto di cui al capo B) perchè il fatto non costituisce reato.

Elimina, in riferimento alla posizione di M. e D.R. le relative pene, quantificate in tre mesi di reclusione per il primo e un mese di reclusione per il secondo, nonchè la pena accessoria di cui all’art. 31 c.p. irrogata al M.. Rigetta nel resto i ricorsi di M. e D.R. che condanna in solido alla rifusione delle spese delle parti civili sostenute in questo grado di giudizio, liquidate in complessivi Euro 2000 oltre accessori come per legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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