Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 11-11-2010) 27-01-2011, n. 3021 Reato continuato e concorso formale

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con ordinanza in data 12.05.2010 il GIP del Tribunale di Lecce applicava fra l’altro a F.F. la misura cautelare degli arresti domiciliari per il delitto di cui agli artt. 110 e 81 cpv. c.p., art. 353 c.p., commi 1 e 2, per avere, quale assessore ai lavori pubblici della Provincia di Lecce, concorso nella turbativa del regolare svolgimento della gara per l’appalto dei servizi di gestione della cartellonistica pubblicitaria lungo le strade della Provincia di Lecce, attraverso promesse, accordi e altri mezzi fraudolenti (capo A), e per concorso in due delitti di falso (capo B) e corruzione (capo C) connessi alla stessa vicenda, nonchè per un delitto di corruzione (capo E) collegato a una gara per l’affidamento dei lavori per la realizzazione dell’Istituto Nautico di Gallipoli.

Con ordinanza in data 08.05.2010 il Tribunale di Lecce, pronunciando sull’istanza di riesame proposta nell’interesse del F., confermava l’ordinanza cautelare.

Propone ricorso il difensore del F., deducendo:

1)- l’inutilizzabilità ex art. 270 c.p.p. dei risultati delle intercettazioni provenienti da altro procedimento;

2)- l’inutilizzabilità ex art. 267 c.p.p. dei risultati delle intercettazioni autorizzate con decreto del GIP di Lecce del 17.01.2009, per carenza di motivazione del medesimo;

3)- l’inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni ambientali, per violazione dell’art. 24 cpv. Cost., in relazione all’impossibilità, per la difesa, di conoscere le modalità di intervento per la collocazione delle microspie funzionali alla registrazione;

4)- l’inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni ambientali, per violazione del domicilio;

5)- violazione di legge e vizio di motivazione, in riferimento ai reati ex artt. 353 e 326 c.p.;

6)- violazione di legge e vizio di motivazione, in riferimento al reato ex art. 319 c.p. di cui al capo C;

7)- violazione di legge e vizio di motivazione, in riferimento al reato ex art. 319 c.p. di cui al capo E.
Motivi della decisione

Preliminarmente rilevasi che in data 19.07.2010 la misura cautelare della custodia domiciliare è stata revocata nei confronti del F.. Deve, quindi, verificarsi se sussista ugualmente un interesse della medesima a una pronuncia di questa Corte sul ricorso.

Com’è noto, la pronuncia inoppugnabile di annullamento costituisce una decisione idonea a fondare il diritto dell’indagato alla riparazione per ingiusta detenzione ( art. 314 c.p.p.), ancorchè soltanto con riferimento alla misura della custodia cautelare, comprensiva anche degli arresti domiciliari (Cass., Sez. Un., 12 ottobre 1993, Corso, rv. 195357). Il raccordo tra interesse all’impugnazione e diritto alla riparazione per ingiusta detenzione ( art. 314 c.p.p.) opera limitatamente alla deduzione dell’insussistenza delle condizioni genetiche o speciali previste dagli artt. 273 e 280 c.p.p., con esclusione delle esigenze cautelari (Cass., Sez. Un., 13 luglio 1998, rv. 211194; Cass., Sez. Un., 25 giugno 1997, rv. 208165; Cass., Sez. Un., 28 marzo 2006, rv. 234268).

In linea di principio può quindi sussistere, sotto il profilo di cui all’art. 314 c.p.p., l’interesse dell’indagato a una pronuncia sul ricorso attinente all’ordinanza di custodia cautelare, in punto di gravi indizi di colpevolezza, quando detto provvedimento, nelle more del giudizio di legittimità, abbia perso efficacia o sia stato revocato. E’ stato peraltro puntualizzato nella più recente giurisprudenza di questa Corte (sentenze nn. 9943/06, 27580/07, 38855/07, 2210/07, 4222/07, 34605/08) che anche in caso di contestazione della sussistenza delle condizioni di applicabilità delle misure cautelari necessita ugualmente la verifica dell’attualità e della concretezza dell’interesse, richiedendo l’art. 568 c.p.p., comma 4, come condizione di ammissibilità di qualsiasi impugnazione, la sussistenza (e la persistenza al momento della decisione) di un interesse diretto a rimuovere un effettivo pregiudizio derivato alla parte dal provvedimento impugnato. La regola contenuta nel citato art. 568 c.p.p. è, infatti, applicabile anche al regime delle impugnazioni contro i provvedimenti de libertate, in forza del suo carattere generale, implicando che solo un interesse pratico, concreto ed attuale del soggetto impugnante sia idoneo a legittimare la richiesta di riesame. Pertanto, come ammesso anche dalla succitata giurisprudenza delle Sezioni Unite, un tale interesse non può risolversi in una mera ed astratta pretesa alla esattezza teorica del provvedimento impugnato, priva cioè di incidenza pratica sull’economia del procedimento.

Ora, un’applicazione pressochè automatica dei principi posti da tale giurisprudenza delle SS.UU. presenta il rischio di accogliere una nozione di "interesse" troppo ampia, che finisce per presumere sempre e comunque che l’indagato agisca anche all’utile fine di precostituirsi il titolo in funzione di una futura richiesta di un’equa riparazione per l’ingiusta detenzione ai sensi della disposizione contenuta nell’art. 314 c.p.p., comma 2.

Oltre, infatti, alla ipotesi di palese insussistenza dell’interesse concreto ed attuale, contemplata nel citato art. 314 c.p.p., comma 4 (che esclude che la riparazione sia dovuta qualora le limitazioni conseguenti all’applicazione della custodia cautelare siano sofferte anche in forza di altro titolo), bisogna in generale considerare che la disposizione dell’art. 314 cpv. c.p.p.. disciplina una fattispecie tendenzialmente eccezionale e residuale rispetto alle altre ipotesi previste. Al riguardo, è doveroso sottolineare, da un lato, che il procedimento per la riparazione dei danni da ingiusta detenzione non può comunque essere attivato prima che vi sia stata una pronuncia conclusiva del procedimento principale nei confronti dell’accusato ( art. 315 c.p.p.) e, dall’altro, che il diritto alla riparazione, già direttamente connesso a una conclusione del procedimento principale con una delle formule di cui all’art. 14 c.p.p., comma 1, può scaturire dall’accertata insussistenza delle condizioni di applicabilità della misura cautelare previste dagli artt. 273 e 280 c.p.p. nel caso in cui il procedimento principale si concluda con una pronuncia di condanna o con una formula liberatoria (anche) diversa da quelle previste nell’art. 314 c.p., comma 1.

Ne consegue, sul piano logico e sistematico, che un’esclusione delle condizioni di applicabilità della misura cautelare, stabilita nel procedimento de libertate sulla base di ragioni riconducibili a quelle di cui all’art. 314 c.p.p., comma 1, in tanto potrà avere un rilievo autonomo quale causa legittimante l’azione per la riparazione, in quanto si connoti per presupposti diversi da quelli suscettibili di fondare la analoga pronuncia principale. In mancanza di tale diversità, infatti, sarà quest’ultima pronuncia, e solo essa, a costituire titolo per la riparazione. La situazione di diversità indicata può tipicamente verificarsi quando il quadro indiziario, pur astrattamente idoneo a configurare una fattispecie delittuosa rientrante fra quelle di cui all’art. 280 c.p.p., non abbia raggiunto, al momento dell’emissione della misura, il livello di gravità richiesto dall’art. 273 c.p.p..

Nel caso in cui, invece, l’esclusione dei presupposti di cui alla norma testè citata derivi da considerazioni di diritto idonee a escludere in radice l’utilizzabilità o la rilevanza penale degli elementi probatori posti a fondamento dell’accusa, è evidente che il titolo per la riparazione sarà costituito dalla pronuncia principale che dette considerazioni abbia recepito. Che se poi tale pronuncia vada per ipotesi, sulle stesse questioni di diritto, in avviso contrario alla decisione (favorevole all’indagato) assunta in sede cautelare, la coerenza del sistema non potrebbe certo tollerare il riconoscimento di una "equa riparazione" per una custodia giudicata, in via definitiva, non ingiusta.

Da tanto consegue che l’interesse a coltivare il ricorso in materia de libertate in riferimento a una futura utilizzazione della pronuncia in sede di riparazione per ingiusta detenzione dovrà essere oggetto di una specifica e motivata deduzione, idonea a evidenziare in termini concreti, alla luce dei parametri di valutazione sopra illustrati, il pregiudizio che deriverebbe dalla omissione della pronuncia medesima. Considerato poi che la domanda di riparazione – come si evince dal coordinato disposto del comma 3 dell’art. 315 c.p.p. e dell’art. 645 c.p.p., comma 1 – è atto riservato personalmente alla parte, occorre che l’intenzione della sua futura presentazione sia con certezza riconducibile alla sua volontà (Cass. sent. 3531 del 2009).

Ora, nella specie, da un lato, non risulta in atti che a tale onere di specifica e personale deduzione si sia adempiuto.

Dall’altro lato, in riferimento al tenore del ricorso, si osserva che lo stesso si basa in maniera sostanziale – e pregiudiziale rispetto alle deduzioni in tema di viziata valutazione delle risultanze procedimentali – sulla tesi della giuridica inutilizzabilità o rilevanza penale delle prove poste a base delle accuse relative alle fattispecie di cui agli artt. 353 e 319 c.p.. Secondo i principi sopra illustrati, questa causa petendi, essendo in sè suscettibile, ove fondata, di essere posta a base di una favorevole decisione del procedimento principale, non può costituire un concreto e attuale interesse a una pronuncia sul ricorso dopo che la misura è stata revocata. In ragione di tutto quanto sopra, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile per sopravvenuta carenza di interesse. Tale situazione non configura un’ipotesi di soccombenza e pertanto si ritiene che il ricorrente non debba essere condannato nè alle spese processuali nè al pagamento di una somma in favore della cassa ammende.
P.Q.M.

Visto l’art. 615 c.p.p., dichiara inammissibile il ricorso per sopravvenuta carenza di interesse.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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