Cons. Giust. Amm. Sic., Sent., 25-01-2011, n. 80 Giurisdizione del giudice ordinario e del giudice amministrativo

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1) Con ricorso contraddistinto col numero 2684 del 2004, la società Stornello a r.l. adiva il T.A.R. Sicilia, Sezione staccata di Catania, chiedendo l’annullamento del decreto definitivo di espropriazione n. 158 del 12 settembre 2003, avente a oggetto alcuni immobili situati nella zona C dell’Ente Parco dell’Ente, di cui la società medesima è proprietaria.

Premesso che la procedura ablatoria aveva avuto ad oggetto un bosco, un noccioleto e un complesso di caseggiati risalenti al 1803, denominato "case Bevacqua", parte ricorrente lamentava che nessun precedente atto della procedura ablatoria sarebbe stato conosciuto dagli interessati e che il decreto impugnato sarebbe stato irregolarmente notificato, in quanto la notificazione sarebbe avvenuta non presso la sede legale della società, bensì a mano della moglie dell’amministratore unico.

Con successivo ricorso n. 2717/2004, la società Stornello ha chiesto al T.A.R. di dichiarare l’illegittimità dell’occupazione degli immobili in questione, per essere questa priva del titolo dal 20 settembre 2002, e ciò per effetto della scadenza del termine finale di occupazione indicato dall’ordinanza di occupazione d’urgenza del Presidente del Parco n. 2 del 3 luglio 2002, di disporre la restituzione di detti immobili liberi da persone e cose, nonché di condannare l’Amministrazione al risarcimento dei danni subiti a causa dell’illecita occupazione.

Con sentenza n. 2325 del 22 novembre 2006, il T.A.R., riuniti i ricorsi, ha rigettato il primo e ha dichiarato inammissibile il secondo.

Il T.A.R. ha esaminato la questione relativa all’appartenenza della controversia alla giurisdizione del giudice amministrativo e l’ha risolta in senso positivo per la considerazione che in entrambi i ricorsi, i quali hanno a oggetto diversi fasi della medesima vicenda procedimentale, viene in rilievo l’esercizio di un potere pubblico.

Il giudice di prime cure ha fatto specifico riferimento alla sentenza n. 191/2006, con la quale la Corte costituzionale ha statuito che i comportamenti, che esulano dalla giurisdizione del giudice amministrativo, sono solo quelli che "non sono riconducibili, nemmeno mediatamente, all’esercizio di un pubblico potere".

Nel merito, con riferimento al primo ricorso, il T.A.R., ha reputato infondato il primo motivo di censura, con il quale la ricorrente ha lamentato l’incompetenza del Comune a disporre l’espropriazione; ha respinto il secondo motivo di censura con il quale la ricorrente ha lamentato la mancanza, nell’atto impugnato, di elementi che rendevano possibile risalire all’atto contenente la dichiarazione di pubblica utilità e addirittura che rendevano conoscibile l’opera pubblica; ha, infine, respinto il terzo motivo di censura con cui era lamentata la mancata comunicazione dell’avvio del procedimento.

Con riferimento al secondo ricorso, il T.A.R. ha osservato che l’iniziativa giudiziaria interveniva dopo il consolidamento di una serie di atti che non erano stati impugnati ancorché non conosciuti o almeno conoscibili con un minimo di diligenza e che, in carenza di ciò, non era ammessa una richiesta diretta a ottenere la restituzione degli immobili ovvero il risarcimento dei danni. asseritamente subiti.

In definitiva, come ha concluso il T.A.R., la c.d. pregiudiziale amministrativa impediva l’esame del merito della controversia.

2) Con ricorso n. 2494 del 2007, la società Stornullo adiva nuovamente il T.A.R. chiedendo l’annullamento dell’ordinanza 15 giugno 2007, con cui era stata pronunciata l’espropriazione definitiva del terreno di sua proprietà, nonché delle delibere del Comitato esecutivo dell’Ente Parco dell’Etna 29 settembre 2004 n. 161 e 16 ottobre 2006 n. 142, concernenti, rispettivamente, l’approvazione di una variante al progetto originario e la rinnovazione della dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità e urgenza delle opere, nonché la proroga al 3 luglio 2007 del termine per l’ultimazione delle espropriazioni. Con sentenza n. 918 del 19 maggio 2009, il giudice adito rigettava il ricorso.

In particolare, quanto al ricorso per motivi aggiunti, proposto avverso le summenzionate delibere, il T.A.R. lo dichiarava irricevibile nella parte in cui censurava la delibera n. 142/2006, perché si trattava di atto già conosciuto dalla società ricorrente sin dal novembre 2006, e inammissibile nella parte in cui censurava la delibera n. 161/2004, trattandosi di atto ormai consolidato per effetto della non tempestiva impugnazione della delibera n. 142/2006.

Quanto al ricorso principale, il T.A.R. dichiarava inammissibile la prima censura con cui la ricorrente lamentava che non le era stata data comunicazione del procedimento di rinnovazione dei termini di dichiarazione di pubblica utilità e infondate le altre censure con cui erano state dedotte la violazione del D.P.R. 8 giugno 2001, n. 327 e la mancata ultimazione della procedura espropriativa entro il termine del 3 luglio 2007 (fissato nella delibera C.E. n. 142 del 16.10.2006), con la quale per la seconda volta era stata rinnovata la dichiarazione di pubblica utilità.

3) Con i ricorsi contraddistinti con i nn. 416 e 1440, rispettivamente del 2007 e del 2009, la società Stornello ha proposto appello contro le summenzionate sentenze.

Resiste agli appelli l’Ente Parco dell’Etna.

Alla pubblica udienza del 19 maggio 2010, i ricorsi sono stati trattenuti in decisione.
Motivi della decisione

1) In via preliminare, va disposta la riunione dei due appelli, stante la loro connessione soggettiva e oggettiva.

2) Quanto al ricorso in appello n. 416/2007, va esaminata, in via preliminare, l’eccezione di difetto di giurisdizione, che è stata riproposta in questa sede dall’Ente appellato.

La difesa dell’Ente sostiene al riguardo che la ricorrente non ha censurato l’esercizio di una potestà d’imperio, bensì un mero comportamento dello Stato al quale, appunto, si contesta di non aver restituito gli immobili espropriandi alla scadenza del termine indicato dall’ordinanza n. 2/02. In sostanza, la ricorrente avrebbe lamentato che il possesso esercitato sugli stessi immobili non risulta più giustificato dall’esercizio di una funzione pubblica e che, pertanto, la protratta occupazione sarebbe avvenuta in carenza di un titolo legittimante. Per queste ragioni, ad avviso dell’Ente Parco, la fattispecie sottoposta all’esame di questo CGA dovrebbe rientrare nell’ambito di quelle controversie nelle quali la pubblica amministrazione "non esercita nemmeno mediatamente, e cioè avvalendosi della facoltà di adottare strumenti privatistici, alcun pubblico potere".

L’eccezione è infondata.

La questione della giurisdizione per le controversie come quella in esame può ormai considerarsi definitivamente risolta a favore del giudice amministrativo a seguito delle decisioni 30 luglio 2007 n. 9 e 22 ottobre 2007 n. 12 dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato.

Ha osservato al riguardo l’Adunanza plenaria che nei procedimenti, come quello che forma oggetto della controversia in esame, la dichiarazione di pubblica utilità è l’atto autoritativo che fa emergere il potere pubblicistico in rapporto al bene privato da esso inciso e costituisce, al tempo stesso, origine funzionale della successiva attività, sia essa giuridica che materiale, di utilizzazione dello stesso per scopi pubblici previamente individuati.

In questo quadro, le vicende patologiche del procedimento, quali la mancata adozione del provvedimento espropriativo entro il termine fissato a monte della predetta dichiarazione, ovvero la protrazione dell’occupazione oltre il termine biennale di efficacia previsto dall’art. 73 della legge n. 2359 del 1865, ovvero la mancata indicazione dei termini ex art. 13 della stessa legge n. 2359 non può dequalificare la valenza giuridica di un’attività appunto espletata nel corso e in virtù di un procedimento amministrativo comunque esistente, che la dichiarazione ha ab origine funzionalizzato a scopi specifici e concreti di pubblica utilità.

Rispetto ai casi di illegittimità, originaria o sopravvenuta, del procedimento la stessa Adunanza ha ravvisato "evidenti punti di contatto" con quelle che si determinano a seguito dell’annullamento in sede giurisdizionale della dichiarazione di pubblica utilità, in quanto in entrambi i casi gli effetti retroattivi naturalmente conseguenti alla pronuncia demolitoria o quelli derivanti dalla mancata conclusione del procedimento non sembrano poter travolgere a posteriori il nesso funzionale che ha comunque legato l’attività dell’Amministrazione alla realizzazione del fine di interesse collettivo individuato all’origine.

Ben distinto invece – e dunque non equiparabile ai fini del riparto di giurisdizione ai sensi dell’art. 34 del D.Lgs. n. 80 del 1998 e delle corrispondenti norme processuali contenute nell’art. 53 del T.U. n. 327 del 2001 come incisi dalle sentenze della Corte costituzionale nn. 204/2004 e 281/2004 – è il caso in cui la dichiarazione manchi del tutto, venendo allora in rilievo un mero comportamento per vie di fatto o, se si vuole, un atto di prepotenza, consistente in una vera e propria usurpazione del diritto soggettivo di proprietà, in nessun modo e nemmeno mediatamente funzionalizzato all’esercizio di un effettivo potere pubblicistico (così, di recente, C.d.S., Sez. IV, 5 marzo 2010, n. 1298).

Nella specie non è controverso che la dichiarazione di pubblica utilità era stata emessa e che sussisteva comunque un procedimento, seppur assertivamente illegittimo per scadenza del termine finale di occupazione indicato dall’ordinanza di occupazione d’urgenza del Presidente dell’Ente Parco n. 2 del 3 luglio 2002.

3) Passando all’esame dei profili sostanziali della controversia, va esaminato il primo motivo di censura con cui la società appellante ha dedotto la violazione dell’art. 21 della legge regionale 6 maggio 1981, n. 98 e l’incompetenza del dirigente del settore tecnico del Comune di Piedimonte Etneo all’adozione del decreto di espropriazione a favore dell’Ente Parco.

Il T.A.R. ha respinto tale censura, ritenendo che il vizio di incompetenza dedotto dalla ricorrente "… fa riferimento alle acquisizioni che l’ente Parco opera direttamente mediante risorse assegnategli, mentre, nella fattispecie di cui è causa, i finanziamenti in oggetto sono stati stanziati in favore del Comune di Piedimonte Etneo. La norma su riportata si esprime in termini di conferimento di un potere a una determinata autorità amministrativa, senza in alcun modo indicare una corrispondente deprivazione della sfera dei poteri espropriativi di altri enti e autorità, quindi, in altri termini, senza conferire un potere esclusivo; la descrizione della competenza del Presidente del Parco, modellata su quella degli organi comunali, è soltanto intesa a individuare la distribuzione delle competenze interne all’Ente Parco con una sintetica espressione che richiama la distribuzione delle competenze comunali come semplice modello di riferimento, senza voler per questo significare che gli enti locali perdono ogni potere espropriativo in materia …".

Come sostenuto dalla società appellante, tale argomentazione non è condivisibile.

L’art. 2 della legge regionale n. 35 del 10 agosto 1978, dopo avere, al primo comma, attribuito il potere espropriativo ai Comuni per le opere pubbliche di loro competenza, al secondo comma, dispone che "Per le opere pubbliche di competenza della regione o di altri enti e soggetti diversi da quelli indicati nel comma precedente rimangono ferme le attribuzioni degli organi competenti in materia di espropriazione e occupazione in base alle norme vigenti".

La legge regionale 6 maggio 1981, n. 98, concernente norme per l’istituzione nella Regione siciliana di parchi e riserve naturali, dispone: all’art. 21, comma 1, che "Per le finalità della presente legge, la Regione può acquisire terreni e manufatti ricadenti nelle aree di riserva e pre-riserva, mediante richiesta di vendita"; al comma 7, che "All’acquisizione dei beni di cui al primo comma può provvedersi anche mediante espropriazione per pubblica utilità, ai sensi dell’articolo 9 della legge 22 ottobre 1971, n. 865, con le modalità previste dalla legge citata e successive modificazioni" e, al comma 8, che "In tale ipotesi i poteri spettanti alla Regione sono esercitati dall’Assessore regionale per il territorio e l’ambiente, quelli spettanti agli organi amministrativi locali sono esercitati dal Presidente del Parco previa delibera del Comitato esecutivo ai sensi della legge regionale 18 novembre 1964, n. 29".

Dal quadro normativo sopra citato e segnatamente dal richiamato art. 21, ottavo comma, della legge regionale n. 98 del 1981, emerge che la competenza degli enti locali è sostituita da quella dell’Ente Parco, ove si tratti di immobili ricadenti nel territorio del Parco, e che sul riparto delle competenze non esercita alcuna influenza l’avvenuto finanziamento regionale a favore del Comune, poiché il relativo decreto di finanziamento delega al Comune soltanto l’espletamento delle procedure relative all’appalto dei lavori.

La fondatezza del motivo di appello consente di non esaminare le restanti doglianze, dirette pur sempre a contestare le legittimità del summenzionato decreto di espropriazione, che vanno, pertanto, dichiarate assorbite.

4) Con riferimento al secondo ricorso proposto in primo grado e diretto alla declaratoria dell’illegittimità dell’occupazione degli immobili oggetto come priva di titolo dal 20 settembre 2002, per effetto della scadenza del termine finale indicato dall’ordinanza di occupazione d’urgenza del Presidente dell’Ente parco n. 2 del 3 luglio 2002, il T.A.R. ha sostenuto di non poter entrare nel merito della controversia in ragione dell’impedimento derivante dalla c.d. pregiudiziale amministrativa.

Va condiviso il motivo di censura che al riguardo è stato dedotto dall’appellante.

Per giurisprudenza consolidata della Corte di Cassazione, a partire, invero, dalle sentenze delle Sezioni unite 13 giugno 2006 n. 13659 e 13660, non occorre – al fine di richiedere il risarcimento del danno conseguente da legittimità di atti (comportamenti, quando rilevano) della p.a. – previamente esperire l’azione di annullamento del provvedimento ritenuto illegittimo davanti al giudice amministrativo, mentre è consentito di rivolgersi direttamente a detto giudice per proporre la domanda di risarcimento (cfr., di recente, C.G.A. 14 dicembre 2009, n. 1188).

Un diverso modus operandi e, cioè, una decisione del giudice amministrativo che negasse – come nel caso di specie – la tutela risarcitoria dell’interesse leso, sul presupposto che l’illegittimità dell’atto debba essere stata precedentemente richiesta e dichiarata in sede di annullamento, sarebbe inevitabilmente soggetto a cassazione (cfr. Cass. SS.UU., 23 dicembre 2008, n. 30254).

L’azione risarcitoria instaurata con il summenzionato ricorso doveva, pertanto, ritenersi ammissibile e nel merito doveva essere accolta, atteso che l’Amministrazione aveva continuato ad occupare gli immobili nonostante la sopravvenuta scadenza del termine di occupazione legittima.

5) Va adesso esaminato il secondo ricorso in appello, contraddistinto con il numero 1440 del 2009.

La sentenza appellata ha dichiarato l’inammissibilità dei motivi aggiunti al ricorso di primo grado proposti avverso le delibere del Comitato esecutivo n. 142/2006 e n. 161/2004, concernenti, rispettivamente, l’approvazione di una variante al progetto originario e la rinnovazione della dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità e urgenza delle opere.

In particolare, sarebbe irricevibile l’impugnazione proposta avverso la delibera n. 142/2006, perché si tratta di atto già conosciuto dalla società ricorrente con raccomandata r.r. del 20 novembre 2006 e inammissibile l’impugnazione proposta avverso la delibera n. 161/2004, trattandosi di atto preso in considerazione dallo stesso T.A.R. in una precedente sentenza (n. 2325/06) e, comunque, ormai consolidato per effetto della non tempestiva impugnazione della delibera n. 142/2006.

È fondato il motivo di censura che al riguardo è stato dedotto dalla società appellante.

Dalla summenzionata raccomandata del 20 novembre 2006 emerge soltanto che i termini per l’ultimazione delle espropriazioni sono stati prorogati al 3 luglio 2007; mentre non v’è alcun riferimento alla delibera n. 161 del 2004.

Non può, quindi, farsi decorrere da detta raccomandata il termine di impugnazione della delibera n. 142/2006, perché tale termine si ricollega all’intervenuta individuazione del contenuto dell’atto, quanto meno con riferimento agli elementi essenziali, quali l’Autorità emanante, l’oggetto, il contenuto dispositivo e il suo effetto lesivo (cfr., di recente, C.d.S., Sez. VI, 2 marzo 2010, n. 1239).

É, poi, irrilevante la circostanza che della delibera n. 161 del 2004 si faccia menzione in una precedente sentenza emessa tra le stesse parti, posto che siffatto riferimento non è di per sé idoneo a far ritenere la conoscenza del provvedimento ai fini della decorrenza del termine di impugnazione giurisdizionale (cfr. C.d.S., Sez. IV, 7 settembre 2000, n. 4725).

Ciò posto, vanno condivise le doglianze che avverso le summenzionate delibere sono state riproposte in questa sede.

Secondo un pacifico principio giurisprudenziale, la legittimità della proroga dei termini di cui all’art. 13 della legge n. 2359/1865 è ancorata all’esistenza di obiettive difficoltà al compimento di atti espropriativi (in alcun modo dipendenti dalla volontà dell’Ente espropriante) che impediscono il regolare corso del procedimento e che non possono altrimenti essere superate, non offrendo l’ordinamento a tal fine idoneo strumento giuridico (cfr. C.d.S., Sez. VI, 10 ottobre 2002, n. 5443).

In entrambe le due delibere del 2004 e del 2006 non è stata offerta una congrua motivazione in ordine alla necessità di prorogare i termini relativi alla fine dei lavori e delle procedure espropriative.

In particolare, la variante al progetto originario, approvata dalla delibera n. 161/04, riguarda solamente una modifica interna a uno dei tre fabbricati oggetto dei lavori di completamento e restauro.

Non sussiste, quindi, la causa di forza maggiore che rende legittima la proroga dei termini finali ex art. 13 L. n. 2359/1865.

Ragioni analoghe inficiano la legittimità della delibera n. 142 del 2006: non costituisce, infatti, motivazione idonea a consentire la proroga di ultimazione delle espropriazioni al 3 luglio 2007 la circostanza che il professionista incaricato delle operazioni di registrazione, trascrizione e voltura del decreto di esproprio non abbia preventivamente quantificato le relative spese.

L’illegittimità delle delibere in questione comporta l’illegittimità in via derivata dell’ordinanza del 15 giugno 2007 con cui è stata pronunciata l’espropriazione in via definitiva a favore dell’Ente Parco dell’Etna del terreno e dei fabbricati di proprietà della società appellante.

6) Quest’ultima ha concluso, chiedendo, oltre l’annullamento dei provvedimenti impugnati, la restituzione dei beni illegittimamente espropriati e occupati, nonché il risarcimento del danno ingiusto sino al momento della restituzione. Tale domanda deve essere disattesa, posto che l’Ente parco appellato ha chiesto l’applicazione dell’art. 43, comma 3, del D.P.R. 8 giugno 2001, n. 327, il quale dispone che "Qualora sia impugnato uno dei provvedimenti indicati nei commi 1 e 2 ovvero sia esercitata un’azione volta alla restituzione di un bene utilizzato per scopi di interesse pubblico, l’amministrazione che ne ha interesse o chi utilizza il bene può chiedere che il giudice amministrativo, nel caso di fondatezza del ricorso o della domanda, disponga la condanna al risarcimento del danno, con esclusione della restituzione del bene senza limiti di tempo".

Né potrebbe opporsi che l’occupazione è anteriore all’entrata in vigore del D.P.R. n. 327 del 2001.

Secondo un indirizzo giurisprudenziale della Sezione IV del Consiglio di Stato, condiviso dal Collegio, la procedura di acquisizione in sanatoria dell’area occupata senza titolo, descritta dall’art. 43 del D.P.R. n. 327 del 2001, trova applicazione anche con riguardo alle occupazioni attuate prima dell’entrata in vigore dello stesso D.P.R. n. 327 (cfr. sent. n. 3509 dell’8 giugno 2009).

In effetti, l’art. 57 del medesimo testo unico, richiamando i "procedimenti in corso" ha previsto norme transitorie unicamente per individuare l’ambito di applicazione della riforma in relazione alle diverse fasi fisiologiche del procedimento sostanziale, mentre l’atto di acquisizione ex art. 43 è emesso ab externo del procedimento espropriativo e non rientra, pertanto, nell’ambito di operatività della normativa transitoria.

Alle considerazioni di ordine generale che precedono va aggiunto che il comma 3 dell’art. 43 introduce comunque uno "ius superveniens" di carattere processuale e, quindi, immediatamente applicabile.

7) Stabilito, in base alle ragioni sopra esposte e come diretta conseguenza dell’accoglimento dei motivi di gravame come sopra esaminati, che sussistono i presupposti per la condanna dell’Ente appellato al risarcimento dei danni ingiusti subiti dall’appellante, per la loro quantificazione, il Collegio ritiene di avvalersi del sistema, disciplinato dall’art. 35, comma 2°, del D.Lgs. n. 80/98, secondo cui il giudice amministrativo, quando dispone il risarcimento del danno ingiusto, può stabilire i criteri in base ai quali l’Amministrazione deve proporre, a favore dell’avente titolo, il pagamento di una somma entro un congruo termine, con la possibilità di attivare il rimedio dell’ottemperanza, in caso di mancato raggiungimento di un accordo tra le parti (cfr. C.d.S., Sez. IV, 6 luglio 2009, n. 4325).

In relazione alla controversia in esame, si indicano qui di seguito i criteri, in base ai quali la società appellante e l’Ente appellato dovranno raggiungere un accordo:

I) – quanto al risarcimento del danno subito per effetto dell’ablazione del bene "sine titulo", esso va riconosciuto in base al sesto comma dell’art. 43 del D.P.R. n. 327/01, a norma del quale "Salvi i casi in cui la legge disponga altrimenti, nei casi previsti nei precedenti commi, il risarcimento del danno è determinato: a) nella misura corrispondente al valore del bene utilizzato per scopi di pubblica utilità e, se l’occupazione riguarda un terreno edificabile, sulla base delle disposizioni dell’art. 3, 4, 5, 6 e 7;

b) – col computo degli interessi moratori a decorrere dal giorno in cui il terreno sia stato occupato senza titolo".

Relativamente all’affermazione della parte resistente secondo cui le particelle catastali di cui al foglio 22, nn. 149, 150 e 244, sarebbero state occupate in via provvisoria e d’urgenza per effetto dell’ordinanza sindacale dell’11 maggio 1999, n. 22, ragione per cui la richiesta di restituzione si collocherebbe al di fuori della "causa petendi" del giudizio, la stessa deve essere disattesa, perché l’indicazione delle suddette particelle compare nell’ordinanza di occupazione d’urgenza n. 2 del 3 luglio 2002, disposta dal Presidente dell’Ente Parco.

Stante, pertanto, l’avvenuta, formale occupazione delle particelle in questione, non v’è ragione d’escluderle dal computo del risarcimento del danno;

II) – quanto al risarcimento del danno da illegittima occupazione dell’immobile, per il periodo successivo alla scadenza della dichiarazione di pubblica utilità delle opere (mentre la domanda di riconoscimento delle indennità, dovute per il periodo di occupazione legittima sfugge alla giurisdizione del giudice amministrativo secondo quanto affermato da Cass. Civ., SS.UU., 5 agosto 2009, n. 17944), anche in tal caso deve riconoscersi la spettanza di tale voce di danno posto che anche l’occupazione degli immobili, in difetto del necessario presupposto, rappresentato da una valida dichiarazione di p.u. dell’opera, deve considerarsi eseguita abusivamente dalla P.A., e il relativo pregiudizio va calcolato, secondo quanto indicato dalla giurisprudenza (cfr. C.d.S., Sez. IV, n. 3169/01), in misura pari "agli interessi legali su una somma pari al valore venale" dell’immobile occupato, da computarsi "al tasso legale via via vigente";

III) – quanto alla richiesta di risarcimento del danno da deprezzamento dei fondi limitrofi residui, rileva il Collegio che, nella specie, l’appellante non ha fornito una prova adeguata dei presupposti, a fondamento di tale ulteriore voce di danno, nonché elementi idonei, in ogni caso, a specificare la misura del pregiudizio subito.

La suddetta voce di danno non può, pertanto, essere riconosciuta.

8) In conclusione, nei sensi e limiti sopra esposti, i ricorsi in appello sono fondati e devono essere accolti; conseguentemente, in riforma delle sentenze appellate, gli atti impugnati vanno annullati e va dichiarato l’obbligo dell’Amministrazione di corrispondere il risarcimento del danno nei sensi e limiti sopra indicati.

Ritiene altresì il Collegio che ogni altro motivo od eccezione di rito e di merito possa essere assorbito in quanto ininfluente ed irrilevante ai fini della presente decisione.

Circa le spese e gli altri oneri del doppio grado di giudizio, si ravvisano giusti motivi per compensarli tra le parti.
P.Q.M.

Il Consiglio di Giustizia amministrativa per la Regione siciliana, in sede giurisdizionale, previa riunione degli appelli indicati in epigrafe, li accoglie nei sensi e limiti indicati in motivazione e, per l’effetto, in riforma delle sentenze appellate, annulla gli atti impugnati e dichiara il diritto della società appellante al risarcimento dei danni come indicato in motivazione.

Compensa tra le parti le spese, le competenze e gli onorari del doppio grado di giudizio.

Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’Autorità amministrativa.

Così deciso in Palermo, il 19 maggio 2010, dal Consiglio di Giustizia amministrativa per la Regione siciliana, in sede giurisdizionale, in camera di consiglio, con l’intervento dei signori: Raffaele Maria De Lipsis, Presidente, Paolo D’Angelo, Guido Salemi, estensore, Filippo Salvia, Pietro Ciani, componenti.

Depositata in Segreteria il 25 gennaio 2011.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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