Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 12-10-2010) 27-01-2011, n. 2970 Attenuanti comuni generiche

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

T.F., tramite il difensore, ricorre per Cassazione avverso la sentenza 7.10.2009 con la quale la Corte d’Appello di Palermo, confermando la decisione 15.12.2008 del Tribunale della omonima città, lo ha condannato alla pena di anni cinque di reclusione e 14.000,00 Euro di multa per la violazione degli artt. 81 cpv. e 644 c.p..

La difesa dello imputato richiede l’annullamento della sentenza impugnata deducendo:

1) (Con il primo e il terzo motivo) ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e), la violazione degli artt. 62, 62 bis, 69 e 133 c.p., che il Giudice del merito, nello stabilire la entità della pena non avrebbe correttamente considerato il positivo comportamento processuale del prevenuto.

2) (Con il secondo motivo) ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), la violazione dell’art. 62 c.p., n. 6 perchè non è stata riconosciuta la detta attenuante.

1) La difesa in questa sede, con il primo ed il terzo motivo, ripropone questioni già dedotte con i motivi di appello lamentando che la pena irrogata al T., è irragionevole e non proporzionata, perchè il giudice dell’appello avrebbe dato peso in modo illogico ed immotivato, ad elementi processuali di dubbia lettura, soffermandosi nella valutazione dei dati negativi di giudizio, senza considerare quelli positivi, emergenti dalla lettura degli atti processuali, travisando, infine il contenuto delle deduzioni difensive.

La doglianza è infondata per le seguenti considerazioni.

Come si desume dalla lettura della sentenza impugnata, la difesa, richiedendo una riduzione della pena irrogata, perchè ritenuta eccessiva, ha posto l’accento sul comportamento processuale dell’imputato, improntato, secondo la prospettiva difensiva, a correttezza e collaborazione fin dall’interrogatorio di garanzia, avendo egli fornito un contributo notevole alle indagini in ordine a condotte che sino a quel momento non erano neppure state sospettate dalla Autorità Giudiziaria procedente.

La difesa ha anche affermato come la condotta illecita del prevenuto non si fosse segnalata per il compimento di intimidazioni o violenze in danno delle vittime e il comportamento non fosse stato improntato allo sfruttamento e al depauperamento altrui.

Da ultimo la difesa ha posto l’accento sulla condizione di incensuratezza dell’imputato.

In conclusione, la difesa, con l’atto di appello (richiamato in modo corretto e puntuale in questa sede) ha censurato l’ipovalutazione o l’erronea considerazione di specifici elementi di fatto (comportamento del colpevole dopo la commissione del fatto, condizioni di vita antecedenti al fatto illecito, modalità di commissione del reato, gravità del danno cagionato) inquadrabili all’interno dell’art. 133 c.p. che costituisce il punto di riferimento per il giudice nella determinazione della entità della sanzione, secondo la regola stabilita dall’art. 132 c.p., in ordine alla quale va rammentato che "Pur costituendo l’adeguatezza della pena nella sua concretezza più il risultato di una intuizione che di un processo logico di natura analitica, il giudice, nell’esercizio del suo potere discrezionale di determinazione di essa, per evitare che la discrezionalità si trasformi in arbitrio, ha l’obbligo di enunciare, sia pure concisamente, le ragioni che l’hanno indotto alla decisione in concreto adottata sul punto (nella fattispecie, la suprema corte ha annullato la sentenza del giudice di appello che, nel ridurre la pena irrogata dal giudice di primo grado, avendola ritenuta eccessiva, così argomentava: "equo appare comminare", senza neppure richiamare i criteri di cui all’art. 133 c.p.)" Cass. pen., sez. 2^, 28.5.1992 Pavlovic. Premesso che, nella determinazione della sanzione da irrogare "il giudice non è tenuto a dar conto di tutti gli elementi di cui all’art. 133 c.p. nell’ambito della valutazione della fattispecie criminosa sottoposta al suo esame, alfine del giudizio di valenza tra attenuanti ed aggravanti e della gradazione della pena, bensì unicamente di quelli, tra essi, cui specificamente si riferisce".

Cass. pen., sez. 2^, 16.4.1993 Croci, va osservato che a fronte di una specifica e puntuale indicazione degli elementi di fatto dei quali l’appellante richiede una riconsiderazione da parte del giudice del gravame, quest’ultimo, deve procedere ad una loro valutazione al fine di dare una risposta puntuale e per non incorrere nel vizio di carenza di motivazione di cui all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e).

Esaminando la sentenza impugnata, il Collegio rileva che la stessa si caratterizza per la particolare ed analitica disamina delle circostanze di fatto poste in evidenza dalla difesa e ritenute comunque utili ai fini della determinazione della sanzione e in tema di eventuale riconoscimento delle attenuanti generiche.

In particolare, la Corte palermitana, chiamata a valutare la condotta processuale dell’imputato e il suo contributo allo sviluppo delle indagini (atteggiamento da ritenersi rilevante ai sensi dell’art. 133 c.p.), ha svolto una penetrante e completa analisi sull’andamento delle investigazioni e della condotta processuale del T., le loro risultanze esaminando il comportamento dell’imputato, così giungendo ad una motivata valutazione dissonante con quella sostenuta dalla difesa.

In particolare, la Corte territoriale ha rilevato come le indagini svolte dalla polizia giudiziaria (riassunte nelle informative del 28.3.2008 e del 9.4.2008) abbiano avuto uno sviluppo probatoriamente concludente sulla commissione di plurimi illeciti di usura, ben prima che il prevenuto prestasse una qualsivoglia collaborazione.

Da tale circostanza la Corte palermitana ha dedotto, con un processo logico corretto, come l’affermato contributo collaborativo del T. non abbia il carattere di indispensabile utilità alla conclusione e al completamento delle indagini che sono state invece rese possibili per l’alto contributo fornito proprio dalle parti offese.

La Corte palermitana ha esaminato in modo concreto il comportamento processuale dell’imputato esprimendone un motivato giudizio non positivo.

In particolare il giudice dell’appello, ha rilevato che la "collaborazione" dell’imputato non è stata leale e completa sin dal primo interrogatorio (8.5.2008), avendo reso dichiarazioni parzialmente smentite nel corso delle successive indagini; a tal proposito v. pag. 6 della motivazione il Giudice dell’appello, ed ha puntualmente indicato specifiche circostanze processuali dimostrative della suddetta affermazione.

Proseguendo nella propria analisi la Corte palermitana ha inoltre indicato, in modo specifico e puntuale, come le ammissioni contenute negli interrogatori del 14.5.2008 e del 29.5.2008 del T. siano dimostrative di una sua collaborazione parziale, interessata, non spontanea connotata da menzogne e reticenze.

Nella sentenza appellata, pur dandosi atto che il prevenuto ha fatto ritrovare numerosi titoli di credito (consegnatigli dalle vittime), pur tuttavia ha posto l’accento che le parti offese erano già state identificate e che la attività usuraria era già stata provata indipendentemente dalla pretesa collaborazione dell’imputato che avrebbe finito con l’ammettere solo quanto ormai già provato attraverso le indagini di polizia giudiziaria e le dichiarazioni testimoniali delle parti offese.

Esaminando l’aspetto della condotta dell’imputato in ordine alle modalità della azione, la Corte Palermitana ha messo in evidenza due aspetti giudicati in modo negativo e tali da far ritenere di minore valore l’aspetto della incensuratezza.

Infatti, contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa, è stato posto in evidenza che dalle dichiarazioni testimoniali e dalle conversazioni telefoniche, si ritrae la prova che il comportamento dell’imputato è stato connotato da atteggiamenti palesemente e pesantemente intimidatori nei confronti delle parti offese, giungendo anche a manifestare vanto di conoscenze di alto profilo delinquenziale.

La sub valenza del dato della incensuratezza, è stata posta infine in evidenza dalla Corte attraverso la constatazione che l’imputato ha commesso un elevato numero di reati, sì da far ritenere in termini assai negativi la personalità dell’imputato.

Si deve pertanto affermare che la decisione appare motivata in modo adeguato, analitico e completo; non vengono in evidenza carenze nè contraddizioni o manifeste illogicità desumibili dal testo del provvedimento impugnato.

Le affermazioni della Corte di merito si traducono in valutazioni che trovano la loro giustificazione in specifici riferimenti fattuali tratti dagli atti e specificatamente individuati e descritti, con la conseguenza che la decisione appare priva di qualsiasi vizio della motivazione.

Le valutazioni espresse e le relative conseguenze tratte sul piano giuridico, proprio perchè esenti da vizi, non sono suscettibili di considerazione sotto il profilo del merito.

La censura formulata dalla difesa sotto il profilo del "travisamento" delle ragioni di impugnazione si appalesa infondata, avendo la Corte territoriale, esattamente e più che adeguatamente adempiuto al proprio dovere di motivazione della decisione assunta, e le critiche formulate dalla difesa si traduco, nella sostanza, in una diversa valutazione del merito di circostanze fattuali, ma non danno conto di censure specifiche sul piano del diritto.

Per tali ragioni questa parte del motivo di impugnazione deve essere rigettata.

In ordine al diverso, ma connesso profilo di censura della violazione di legge (ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), va osservato che la difesa non ha indicato specifiche violazioni della legge penale sostanziale, dovendosi dedurre che quest’ultima, in tesi del ricorrente, è stata ritenuta violata per il solo fatto che il Giudice del merito, ha valutato diversamente gli elementi di fatto proposti dalla difesa.

La mancata indicazione, da parte della difesa, degli elementi di fatto e di diritto sulla cui base si è sostenuto il vizio di violazione di legge, si traduce in un giudizio di inammissibilità della doglianza ex art. 591 c.p.p., per mancata osservanza dell’art. 581 c.p.p., comma 1, lett. c).

Circa il giudizio di adeguatezza della pena irrogata dal giudice di primo grado, la Corte territoriale ha posto in evidenza, a giustificazione della propria decisione secondo lo schema previsto dall’art. 132 c.p., i richiamati profili soggettivi ed oggettivi (condotta processuale, reiterazione della condotta criminosa per molti anni, atteggiamento criminale parassitario proprio di chi vive sfruttando il lavoro altrui) dimostrativi, da un lato della pericolosità sociale dell’imputato e, dall’altro, della mancanza di prove di effettiva e reale resipiscenza dello stesso.

Anche per questa parte la motivazione appare ampiamente adeguata e conforme al principio del dovere di motivazione v. Cass. pen., sez. 3^, 6.2.2001, "Z", ove: "E’ insindacabile la motivazione con la quale il giudice di secondo grado, nell’ambito del potere discrezionale di cui all’art. 132 c.p., giustifica ampiamente l’utilizzo dei parametri normativi in tema di determinazione giudiziale della pena indicati dall’art. 133 c.p., pervenendo a una scelta ponderata benchè severa" e la statuizione sulla entità della pena, come quella sulla negazione del riconoscimento delle attenuanti generiche, non sono suscettibili di censura nella presente sede.

2) con il secondo motivo la difesa ripropone in questa sede la doglianza del mancato riconoscimento della attenuante di cui all’art. 62 c.p., n. 6, già richiesta al Giudice dell’appello il quale sul punto ha rilevato come l’offerta di 28.000,00 Euro a favore di tutte le vittime si appalesasse del tutto insufficiente se non irrisoria e vistosamente sproporzionata rispetto al pregiudizio dalle parti offese sia sul piano materiale che su quello morale.

Alla luce del numero delle parti offese, dell’entità delle somme loro offerte a titolo di ristoro, e dei danni patiti dalle stesse, la motivazione con la quale la Corte territoriale ha negato il riconoscimento dell’invocata attenuante non è nè manifestamente illogica, nè contraddittoria, nè evidenzia una scorretta applicazione della norma penale sostanziale.

In particolare deve essere rammentato che, secondo la costante giurisprudenza di legittimità, nei delitti contro il patrimonio, può essere riconosciuta la attenuante di cui all’art. 62 c.p., n. 6, solo nel caso in cui il reo abbia "riparato interamente il danno" mediante il risarcimento dello stesso o restituzioni, mentre non può essere applicata la fattispecie di cui alla seconda parte della citata disposizione v. in tal senso Cass. Sez. 5^, 18.5.2005 n. 24326 in Ced Cass. Rv- 232207 ove: "In materia di circostanze attenuanti comuni, la circostanza dell’attivo ravvedimento ( art. 62 c.p., comma 1, n. 6, seconda ipotesi), concernente l’elisione o l’attenuazione delle conseguenze del reato, non è applicabile ai reati contro il patrimonio, in quanto si riferisce esclusivamente a quelle conseguenze che non consistono in un danno patrimoniale o non patrimoniale economicamente risarcibile" e in precedenza: Cass. Sez. 2^, 7.4.1986 n. 12802 in Ced Cass. Rv 174276; Cass. Sez. 2^, 7.7.1986 n. 14442 in Ced Cass. Rv 174707; Cass. Sez. 2^, 16.5.1990 n. 3698 in Ced Cass. Rv 186758.

Le considerazioni svolte dalla difesa a sostegno della propria tesi, fondate sulle affermazione che appare sostanzialmente contenuto il danno patito dalla parti offese (poichè nessuna di quelle svolgenti attività commerciali ha subito la chiusura, la vendita o la cessione della propria attività) e che queste ultime non avrebbero mai subito minacce sono considerazioni di puro merito (in parte smentite nella stessa decisione impugnata) che non pongono in evidenza alcun vizio della motivazione dei provvedimento impugnato e non possono essere prese in considerazione nella presente sede.

Pertanto il motivo deve essere di doglianza deve essere rigettato.

Alla dichiarazione di rigetto del ricorso, consegue la condanna dello imputato al pagamento delle spese processuali e alla rifusione delle spese di costituzione e assistenza sostenute in questo grado di giudizio dalle parti civili M.M., M. R., Associazione Antiracket e Antiusura "sos Impresa Palermo" e Associazione Antiracket e Antiusura "Solidaria Scs Onlus" e che liquida nella complessiva somma di Euro 2.875,55 oltre Iva e Cassa Previdenza.
P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali nonchè alla rifusione delle spese sostenute nei presente grado di giudizio dalle parti civili M.M., M.R., Associazione Antiracket e Antiusura "sos Impresa Palermo" e Associazione Antiracket e Antiusura "Solidaria Scs Onlus", che liquida nella complessiva somma di Euro 2.875,55 oltre Iva e Cassa Previdenza.

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