Cass. civ. Sez. I, Sent., 07-03-2011, n. 5376 Diritti politici e civili

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. – Con decreto del 16 maggio 2007, la Corte d’Appello di Roma ha accolto la domanda di equa riparazione proposta da R.A. nei confronti del Ministero della Giustizia per la violazione del termine di ragionevole durata del processo, verificatasi nel giudizio di opposizione al decreto ingiuntivo emesso nei confronti dell’istante dal Tribunale di Torre Annunziata su ricorso del Banco di Napoli. Filiale di (OMISSIS).

Premesso che il giudizio presupposto, iniziato nell’anno 1995 e conclusosi in primo grado con sentenza del 7 dicembre 2001, era ancora pendente in appello, la Corte, per quanto ancora rileva in questa sede, ne ha determinato la ragionevole durata in tre anni per la fase di primo grado e tre anni per quella di secondo grado, avuto riguardo alla modesta complessità della controversia ed all’avvenuto espletamento di una c.t.u., e, detratto il ritardo di sei mesi ascrivibile al comportamento processuale dell’istante, ha liquidato il danno non patrimoniale in complessivi Euro 3.500.00, tenuto conto del patema d’animo cagionato dalla vicenda processuale, non incidente sui beni fondamentali della vita e della persona.

Ha invece rigettato la domanda di riparazione del danno patrimoniale, osservando che il ricorrente non aveva allegato alcun elemento al riguardo, ed escludendo la rilevanza delle spese sostenute per altro procedimento.

2. – Avverso il predetto decreto il R. propone ricorso per cassazione, articolato in otto motivi, il Ministero resiste con controricorso.
Motivi della decisione

1. – Con il primo ed il quarto motivo, il ricorrente denuncia la violazione e la falsa applicazione dell’art. 6, par. 1, degli artt. 13 e 41 CEDU, nonchè della L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 1 e dell’art. 117 Cost., comma 1, sostenendo che la Corte d’Appello, invece di considerare il giudizio presupposto nella sua unitarietà, lo ha erroneamente frazionato nelle sue singole fasi, facendo riferimento, ai fini della liquidazione dell’indennizzo, al solo periodo di tempo eccedente la durata ragionevole del processo, anzichè all’intera durata del giudizio, ed in tal modo discostandosi dai principi enunciati dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.

1.1. – I motivi sono infondati.

E’ pur vero, infatti, che, poichè la violazione dell’art. 6. par. 1, CEDU discende dall’eccedenza, rispetto alla ragionevole durata del processo, del tempo intercorso dall’inizio della causa fino al momento della sua conclusione in esito all’ultimo grado od all’ultima fase, ovvero, in ipotesi di pendenza, fino al momento in cui l’interessato assuma l’iniziativa di reclamare detta riparazione, denunciando la situazione in atto, ai fini del suo accertamento non è consentito alla parte di formulare distinte domande per il primo ed il secondo grado, nè al giudice di scindere l’unica domanda proposta con riferimento all’intero giudizio, in quanto il diritto all’equa riparazione e la domanda diretta a farlo valere hanno carattere unitario e non sono suscettibili di essere frazionati o segmentati con riferimento ai singoli momenti della vicenda processuale (cfr. Cass., Sez. 1^, 27 agosto 2003, n. 12541).

Ciò non esclude, tuttavia, la possibilità di individuare degli standard di durata media ragionevole per ogni fase del processo, quando quest’ultimo si sia articolato in vari gradi e fasi, fermo restando che, anche in tal caso, ai fini dell’apprezzamento in ordine alla violazione termine ragionevole, occorre avere riguardo all’intero svolgimento del processo medesimo, dovendosi cioè addivenire ad una valutazione sintetica e complessiva dell’unico processo, da considerare nella sua complessiva articolazione (cfr.

Cass., Sez. 1^, 11 settembre 2008. n. 23506).

Non merita pertanto censura il procedimento seguito nel decreto impugnato ai fini dell’accertamento in ordine all’avvenuto superamento del termine di ragionevole durata del processo: la distinta individuazione dei tempi ritenuti astrattamente necessari per la definizione di ciascun grado del giudizio, in relazione alla complessità della controversia ed agli adempimenti istruttori occorsi, e dei ritardi alla cui determinazione ha concorso il comportamento delle parti, non ha infatti impedito alla Corte d’Appello di pervenire ad una considerazione complessiva della vicenda processuale, risolvendosi piuttosto in una modalità di valutazione degli elementi indicati dalla L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 2, attraverso la quale essa ha rapportato la determinazione della ragionevole durata al concreto svolgimento del giudizio.

1.2. – La modalità prescelta per la determinazione dell’indennizzo risulta poi conforme al comma terzo, lett. a), dell’art. 2 cit. ai sensi del quale l’indennizzo per la violazione del termine di ragionevole durata del processo non dev’essere correlato alla durata dell’intero processo, ma al solo segmento temporale eccedente la durata ragionevole della vicenda processuale presupposta, che risulti in punto di fatto ingiustificato o irragionevole. Tale criterio di calcolo, secondo il consolidato orientamento di questa Corte, appare non solo coerente con il principio enunciato dall’art. 111 Cost., il quale prevede che il giusto processo abbia comunque una durata connaturata alle sue caratteristiche concrete e peculiari, seppure contenuta entro il limite della ragionevolezza, ma, come riconosciuto dalla stessa Corte EDU nella sentenza 27 marzo 2003 resa sul ricorso n. 36813/97, non si pone neppure in contrasto con l’art. 6. par. 1, CEDU, in quanto non esclude la complessiva attitudine della L. n. 89 del 2001 a garantire un serio ristoro per la lesione del diritto in questione (cfr. Cass., Sez. 1^, 23 novembre 2010, n. 23654: 14 febbraio 2008. n. 3716).

2. – Sono invece inammissibili il secondo ed il terzo motivo d’impugnazione, con cui il ricorrente deduce la violazione e la falsa applicazione degli artt. 6, par. 1, 13 e 41 della Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo, della L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 2, comma 1, e art. 3, comma 4, dell’art. 117 Cost., commi 1 e 6, e dell’art. 132 c.p.c., n. 4, dell’art. 135 c.p.c., comma 4, e dell’art. 737 cod. proc. civ., osservando che il decreto impugnato, nella parte in cui ha determinato in tre anni la durata ragionevole del processo di appello, in virtù della mera necessità dell’espletamento di una ctu, si è discostato dai criteri adottati dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, ricorrendo, ai fini della motivazione, a mere espressioni di stile, inidonee a consentire un controllo in ordine alle ragioni della decisione.

2.1 – Certamente, poichè l’equa riparazione di cui alla L. n. 89 del 2001 spetta in dipendenza di ogni prolungamento della lite provocato da obiettive disfunzioni ed inefficienze del sistema (al quale appartengono anche gli ausiliari e i collaboratori del giudice) cui è affidato il compito di dare risposta alla domanda di giustizia, l’arco temporale assorbito da una consulenza tecnica, che il giudice abbia ritenuto doveroso od opportuno disporre sulla scorta del tema del dibattito, e che quindi integri momento fisiologico del processo, non può essere puramente e semplicemente sommato, quale ne sia l’entità, alla durata normalmente ragionevole del processo stesso, restando rilevante sotto il diverso profilo di un’eventuale dilatazione di detta durata normale per effetto di argomentato apprezzamento della complessità del caso (cfr. Cass., Sez. 1^, 11 agosto 2009, n. 18222; 9 gennaio 2004, n. 119).

Nella specie, peraltro, l’inclusione nella ragionevole durata del processo del tempo resosi necessario per l’espletamento della c.t.u. disposta nel corso del giudizio di appello va posta in relazione con la premessa, fatta dalla Corte territoriale, secondo cui, nonostante la modesta complessità del caso trattato, le parti non avevano addotto specifici elementi dai quali si potesse desumere che il comportamento del giudice e delle altre autorità chiamate a concorrere alla definizione del giudizio aveva inciso sulla durata del giudizio al di là di quanto esso era stato condizionato da carenze strutturali e normative. Il ricorrente lamenta l’insufficienza della motivazione addotta, senza però contestare tale premessa, e senza neppure precisare quali fossero gli elementi acquisiti agli atti che la Corte d’Appello avrebbe omesso di prendere in considerazione al fine di valutare l’incidenza della c.t.u. sulla dilatazione dei tempi processuali, con la conseguenza che le censure in esame risultano prive di autosufficienza.

3. – Con il quinto motivo, il ricorrente deduce la violazione e la falsa applicazione dell’art. 111 Cost., comma 6, della L. n. 89 del 2001, art. 3, comma 4, e dell’art. 132 c.p.c., n. 4, dell’art. 135 c.p.c., comma 4, e dell’art. 737 cod. proc. civ., nonchè l’omessa o insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, censurando il decreto impugnato nella parte in cui, con espressioni standardizzate, ha liquidato l’indennizzo in misura inferiore ai parametri adottati dalla Corte EDU, senza tener conto degl’interessi coinvolti nella controversia.

3.1 – Come ripetutamente affermato da questa Corte, infatti, il giudice nazionale, se da un lato non può ignorare, nella liquidazione del ristoro dovuto per la lesione del diritto alla ragionevole durata del processo, i criteri applicati dalla Corte EDU, dall’altro può apportarvi le deroghe giustificale dalle circostanze concrete della singola vicenda, purchè motivate e non irragionevoli.

E’ stato peraltro precisato che, ove non emergano elementi concreti in grado di far apprezzare la peculiare rilevanza del danno non patrimoniale, l’esigenza di garantire che la liquidazione sia satisfattiva di un danno e non indebitamente lucrativa comporta, alla stregua della più recente giurisprudenza della Corte di Strasburgo, che la quantificazione di tale pregiudizio dev’essere, di regola, non inferiore a Euro 750,00 per ogni anno di ritardo, in relazione ai primi tre anni eccedenti la durata ragionevole, e non inferiore a Euro 1.000,00 per quelli successivi, in quanto l’irragionevole durata eccedente il periodo indicato comporta un evidente aggravamento del danno (cfr. Cass., Sez. 1^, 30 luglio 2010, n. 17922; 14 ottobre 2009. n. 21840).

I predetti criteri sono stati puntualmente rispettati dalla Corte d’Appello, la quale, tenuto conto della natura della controversia, non attinente ai beni fondamentali della persona e della vita, e del patema d’animo cagionato dalla vicenda processuale, ha liquidato, in relazione all’accertato ritardo di tre anni e mezzo nella definizione del processo, l’importo di Euro 3.500,00 a titolo di indennizzo per il danno non patrimoniale, la cui quantificazione appare addirittura superiore ai valori risultanti dall’applicazione dei criteri enunciati dalla Corte EDU. Il ricorrente si duole della mancata considerazione degl’interessi economici coinvolti nel giudizio, evidenziando la rilevanza della somma (L. 382.746.935) il cui pagamento costituiva oggetto della controversia e la modestia delle sue condizioni economiche, senza però indicare gli elementi, addotti nel giudizio di merito, dai quali la Corte d’Appello avrebbe dovuto desumere tali condizioni. Il giudizio di comparazione tra l’entità della pretesa patrimoniale azionata (c.d. posta in gioco) e la condizione socio – economica del richiedente, cui il giudice di merito deve procedere per accertare l’impatto dell’irragionevole ritardo sulla psiche di quest’ultimo, al fine di giustificare l’eventuale scostamento, in senso sia migliorativo che peggiorativo, dai parametri indennitari fissati dalla Corte EDU, deve infatti aver luogo pur sempre sulla base delle allegazioni e delle prove fornite dalle parti (cfr. Cass., Sez. 1^, 24 luglio 2009, n. 17404; 2 novembre 2007. n. 23048). che nella specie non sono state neppure riportate ne ricorso, con la conseguenza che anche questa censura si presenta, sotto tale profilo, priva di autosufficienza.

4. – Con il sesto ed il settimo motivo, il ricorrente lamenta la violazione e la falsa applicazione dell’ari. 111 Cost., comma 6, della L. n. 89 del 2001, art. 2, commi 1 e 2, e art. 3, comma 4, degli artt. 1226 e 2056 cod. civ., e degli artt. 132 c.p.c., n. 4, art. 135 c.p.c., comma 4 e art. 737 cod. proc. civ., nonchè la contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, sostenendo che la Corte d’Appello ha erroneamente negato la riparazione del danno patrimoniale, avendo immotivatamente ritenuto che egli non avesse allegato alcun elemento concreto, laddove le maggiori spese processuali sopportate da esso ricorrente rappresentavano un danno direttamente derivante dall’eccessiva durata del giudizio.

4.1. – Le censure sono infondate.

Il danno patrimoniale suscettibile di riparazione ai sensi della L. n. 89 del 2001, dovendo costituire una conseguenza immediata e diretta della lesione del diritto alla definizione del processo entro un termine ragionevole, consiste infatti unicamente nello specifico pregiudizio subito dalla parte in conseguenza del fatto che la controversia si è eccessivamente protratta nel tempo e che la sua soluzione è stata ottenuta con ingiustificato ritardo ovvero non è stata ancora conseguita, pur essendo trascorso un lasso di tempo ritenuto dalla legge irragionevole. Esso, pertanto, non si identifica con il danno, da inadempimento o da illecito extracontrattuale, che ha costituito oggetto della controversia, il cui risarcimento dipende unicamente dall’esito del giudizio, nell’ambito del quale deve trovare ristoro anche l’ulteriore pregiudizio derivante dal ritardo nel soddisfacimento della pretesa azionata; ma non si identifica neppure con le spese e gli oneri sostenuti dalla parte per la propria difesa, dovendo il loro rimborso essere richiesto nel medesimo giudizio, ai sensi degli artt. 91 e 92 cod. proc. civ. (cfr. Cass. Sez. 1. 24 gennaio 2007, n. 1605: 29 marzo 2006, n. 7140; 16 febbraio 2005, n. 3118).

5. – E’ invece fondato l’ottavo motivo, con cui il ricorrente deduce la violazione e la falsa applicazione degli artt. 1218, 1219 e 1224 cod. civ., censurando il decreto impugnato nella parte in cui ha riconosciuto sulla somma liquidata gl’interessi legali con decorrenza dalla data della decisione, anzichè da quella della domanda.

5.1. – Il diritto all’equa riparazione non postula infatti l’accertamento di un illecito secondo la nozione contemplata dall’art. 2043 cod. civ., nè presuppone la verifica dell’elemento soggettivo della colpa a carico di un agente, ma è ancorato all’accertamento della violazione dell’art. 6, par. 1, CEDU, cioè di un evento ex se lesivo del diritto della persona alla definizione del suo procedimento in una durata ragionevole; la relativa obbligazione si configura pertanto non già come obbligazione ex delicto, ma come obbligazione ex lege avente carattere indennitaria, con la conseguenza che gli interessi legali possono decorrere, purchè richiesti, dalla data di deposito del ricorso, conformemente al principio secondo cui gli effetti della pronuncia retroagiscono alla data della domanda (cfr. Cass., Sez. 1^, 2 febbraio 2007, n. 2248; 13 aprile 2006, n. 8712).

6. – Il decreto impugnato va pertanto cassato, limitatamente alla pronuncia riguardante la decorrenza degli interessi sulla somma riconosciuta a titolo di indennizzo, e, non risultando necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 2, disponendo la decorrenza degli interessi dalla data di deposito del ricorso.

7. – L’esito complessivo del giudizio, contrassegnato dall’accoglimento della domanda di merito e dal limitato accoglimento dell’impugnazione, giustifica la condanna del Ministero al pagamento delle spese del giudizio di merito e la compensazione parziale di quelle del giudizio di legittimità, che per il residuo vanno poste a carico del Ministero, in qualità di parte soccombente, e si liquidano come dal dispositivo.
P.Q.M.

LA CORTE accoglie l’ottavo motivo di ricorso, rigetta gli altri, cassa il decreto impugnato in relazione al motivo accolto, e, decidendo nel merito, dispone la decorrenza degli interessi dalla domanda; condanna il Ministero della Giustizia al pagamento delle spese del giudizio di merito, che si liquidano in complessivi Euro 650,00. ivi compresi Euro 280,00 per onorario. Euro 200,00 per diritti ed Euro 170,00 per esborsi, oltre alle spese generali ed agli accessori di legge, ed al pagamento di metà delle spese del giudizio di legittimità, che si liquidano per la quota in complessivi Euro 300,00, ivi compresi Euro 250,00 per onorario ed Euro 50,00 per esborsi, oltre alle spese generali ed agli accessori di legge, dichiarando compensata tra le parti la residua metà.

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