Cass. civ. Sez. I, Sent., 07-03-2011, n. 5375 Diritti politici e civili

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. – Con decreto del 18 maggio 2007, la Corte d’Appello di Roma ha accolto la domanda di equa riparazione proposta da C.V. nei confronti del Ministero della Giustizia per la violazione del termine di ragionevole durata del processo, verificatasi in un giudizio di opposizione alla stima dell’indennità di espropriazione promosso dall’istante nei confronti del Comune di Sorrento.

Premesso che il giudizio presupposto, iniziato dinanzi al Tribunale di Napoli nell’anno 1989 e conclusosi in primo grado con sentenza del 4 settembre 2001 ed in appello con sentenza del 6 luglio 2004, era ancora pendente dinanzi alla Corte di Cassazione, la Corte, per quanto ancora rileva in questa sede, ne ha determinato la ragionevole durata in tre anni per la fase di primo grado e due anni per quella di appello, avuto riguardo alla relativa complessità della controversia, e, tenuto conto dell’entità della pretesa azionata e del patema d’animo cagionato dalla vicenda processuale, non incidente sui beni fondamentali della persona e della vita, ha liquidato equitativamente il danno non patrimoniale in complessivi Euro 7.500.00, oltre interessi legali dalla data del decreto.

Ha invece rigettato la domanda di riparazione del danno patrimoniale, osservando che il ricorrente non aveva allegato alcun elemento al riguardo, ed escludendo la rilevanza delle spese sostenute per altro procedimento.

2. – Avverso il predetto decreto il C. propone ricorso per cassazione. articolato in sette motivi. Il Ministero resiste con controricorso.
Motivi della decisione

1. – Con i primi due motivi d’impugnazione, il ricorrente denuncia la violazione e la falsa applicazione degli artt. 6, par. 1. 13 e 41 della Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo, nonchè della L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 2, comma 1, e dell’art. 117 Cost., comma 1 sostenendo che la Corte d’Appello, invece di considerare il giudizio presupposto nella sua unitarietà, lo ha erroneamente frazionato nelle sue singole fasi, facendo riferimento, ai fini della liquidazione dell’indennizzo, al solo periodo di tempo eccedente la durata ragionevole del processo, anzichè all’intera durata del giudizio, ed in tal modo discostandosi dai principi enunciati dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.

1.1. – I motivi sono infondati.

E’ pur vero, infatti, che. poichè la violazione dell’art. 6, par. 1, della CEDU discende dall’eccedenza, rispetto alla ragionevole durata del processo, del tempo intercorso dall’inizio della causa fino al momento della sua conclusione in esito all’ultimo grado od all’ultima fase, ovvero, in ipotesi di pendenza, fino al momento in cui l’interessato assuma l’iniziativa di reclamare detta riparazione, denunciando la situazione in atto, ai fini del suo accertamento non è consentito alla parte di formulare distinte domande per il primo ed il secondo grado, nè al giudice di scindere l’unica domanda proposta con riferimento all’intero giudizio, in quanto il diritto all’equa riparazione e la domanda diretta a farlo valere hanno carattere unitario e non sono suscettibili di essere frazionati o segmentati con riferimento ai singoli momenti della vicenda processuale (cfr. Cass. Sez. 1^, 27 agosto 2003. n. 12541).

Ciò non esclude, tuttavia, la possibilità di individuare degli standard di durata media ragionevole per ogni fase del processo, quando quest’ultimo si sia articolato in vari gradi e fasi, fermo restando che, anche in tal caso, ai lini dell’apprezzamento in ordine alla violazione termine ragionevole, occorre avere riguardo all’intero svolgimento del processo medesimo, dovendosi cioè addivenire ad una valutazione sintetica e complessiva dell’unico processo, da considerare nella sua complessiva articolazione (cfr.

Cass., Sez. 1, 11 settembre 2008, n. 23506).

Tali principi possono ritenersi sostanzialmente rispettati nel decreto impugnato, nonostante la parziale difformità del procedimento concretamente seguito ai fini dell’accertamento del ritardo nella definizione del giudizio presupposto rispetto a quello prospettato dalla giurisprudenza di legittimità: la Corte, infatti, dopo aver determinato rispettivamente in tre anni e due anni la durata ragionevole del giudizio di primo grado e di quello d’appello, in considerazione della non particolare complessità della controversia, ha rilevato che la prima fase si era conclusa con un ritardo di dieci anni, mentre la seconda non aveva ecceduto la durata ritenuta ragionevole. In tal modo, pur avendo distintamente valutato lo svolgimento dei due gradi di giudizio, essa è pervenuta ad un risultato non diverso da quello che avrebbe ottenuto mediante la considerazione unitaria degli stessi, e ciò a causa della sostanziale coincidenza della durata del giudizio di appello con quella astrattamente ritenuta ragionevole.

1.2. – La modalità prescelta per la determinazione dell’indennizzo risulta poi conforme all’art. 2 cit., comma 3, lett. a), ai sensi del quale l’indennizzo per la violazione del termine di ragionevole durata del processo non dev’essere correlato alla durata dell’intero processo, ma al solo segmento temporale eccedente la durata ragionevole della vicenda processuale presupposta, che risulti in punto di fatto ingiustificato o irragionevole. Tale criterio di calcolo, secondo il consolidato orientamento di questa Corte, appare non solo coerente con il principio enunciato dall’art. 111 Cost. il quale prevede che il giusto processo abbia comunque una durata connaturata alle sue caratteristiche concrete e peculiari, seppure contenuta entro il limite della ragionevolezza, ma, come riconosciuto dalla stessa Corte EDU nella sentenza 27 marzo 2003, resa sul ricorso n. 36813/97, non si pone neppure in contrasto con l’art. 6. par. 1, della CEDU, in quanto non esclude la complessiva attitudine della L. n. 89 del 2001 a garantire un serio ristoro per la lesione de diritto in questione (cfr. Cass. Sez. 1^, 23 novembre 2010, n. 23654; 14 febbraio 2008, n. 3716).

2. – Sono invece fondati il terzo ed il quarto motivo, con cui il ricorrente deduce la violazione e la falsa applicazione degli artt. 6, par. 1, 13 e 41 della CEDU, della L. n. 89 del 2001, art. 2, commi 1 e 3, e art. 3, comma 4, dell’art. 42 Cost., art. 111 Cost., comma 6, e art. 117 Cost., comma 1, degli artt. 1226 e 2056 cod. civ., e dell’art. 132 c.p.c., n. 4, art. 135 c.p.c., comma 4 e art. 737 cod. proc. civ., nonchè l’omessa o insufficiente motivazione circa un latto controverso e decisivo per il giudizio, censurando il decreto impugnato nella parte in cui ha liquidato l’indennizzo in misura inferiore ai parametri adottati dalla Corte EDU, senza tener conto della particolare rilevanza degl’interessi economici coinvolti nella controversia, avente ad oggetto il ristoro dovuto per un’espropriazione disposta da circa trent’anni, e ricorrendo, ai lini della motivazione, a mere espressioni di stile, inidonee a consentire un controllo in ordine alle ragioni della decisione.

2.1 – Come ripetutamente affermato da questa Corte, infatti, il giudice nazionale, se da un lato non può ignorare, nella liquidazione del ristoro dovuto per la lesione del diritto alla ragionevole durata del processo, i criteri applicati dalla Corte EDU, dall’altro può apportarvi le deroghe giustificate dalle circostanze concrete della singola vicenda, purchè motivate e non irragionevoli.

E’ stato peraltro precisato che, ove non emergano elementi concreti in grado di far apprezzare la peculiare rilevanza del danno non patrimoniale, l’esigenza di garantire che la liquidazione sia satisfattiva di un danno e non indebitamente lucrativa comporta, alla stregua della più recente giurisprudenza della Corte di Strasburgo. che la quantificazione di tale pregiudizio dev’essere, di regola, non inferiore a Euro 750.00 per ogni anno di ritardo, in relazione ai primi tre anni eccedenti la durata ragionevole, e non inferiore a Euro 1.000,00 per quelli successivi, in quanto l’irragionevole durata eccedente il periodo indicato comporta un evidente aggravamento del danno (cfr. Cass., Sez. 1^, 30 luglio 2010, n. 17922; 14 ottobre 2009, n. 21840).

Rispetto ai predetti parametri, la Corte territoriale ha operato una riduzione, avendo liquidato, in relazione all’accertato ritardo di dieci anni nella definizione del giudizio, l’importo di Euro 7.500,00 a titolo di indennizzo per il danno non patrimoniale subito dal ricorrente. Tale quantificazione non appare tuttavia sorretta da un’adeguata motivazione, essendosi la Corte limitala, per giustificare il notevole scostamento in senso peggiorativo dai criteri elaborati dalla Corte EDU, a lare riferimento alla natura della controversia, evidenziandone l’estraneità ai beni fondamentali della persona e della vita, nonchè all’entità della pretesa azionata per desumerne il patema d’animo cagionato all’istante dal protrarsi della vicenda processuale, omettendo però, contraddittoriamente, di considerare l’aggravamento di tale sofferenza prodotto dalla vistosa dilatazione dei tempi del giudizio.

3. – Con il quinto ed il sesto motivo, il ricorrente lamenta la violazione e la falsa applicazione dell’art. 111 Cost., comma 6, della L. n. 89 del 2001, art. 2, commi 1 e 3, e art. 3, comma 4, degli artt. 1226 e 2056 cod. civ., e dell’art. 132 c.p.c., n. 4, art. 135 c.p.c., comma 4 e art. 737 cod. proc. civ., nonchè l’omessa o insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, sostenendo che la Corte d’Appello ha erroneamente negato la riparazione del danno patrimoniale, avendo immotivatamente ritenuto che egli non avesse allegato alcun elemento concreto, laddove le maggiori spese processuali sopportate da esso ricorrente rappresentavano un danno direttamente derivante dall’eccessiva durata del giudizio.

3.1. – Le censure sono infondate.

Il danno patrimoniale suscettibile di riparazione ai sensi della L. n. 89 del 2001, dovendo costituire una conseguenza immediata e diretta della lesione del diritto alla definizione del processo entro un termine ragionevole, consiste infatti unicamente nello specifico pregiudizio subito dalla parte in conseguenza del fatto che la controversia si è eccessivamente protratta nel tempo e che la sua soluzione è stata ottenuta con ingiustificato ritardo ovvero non è stata ancora conseguita, pur essendo trascorso un lasso di tempo ritenuto dalla legge irragionevole. Esso, pertanto, non si identifica con il danno, da inadempimento o da illecito extracontrattuale, che ha costituito oggetto della controversia, il cui risarcimento dipende unicamente dall’esito del giudizio, nell’ambito del quale deve trovare ristoro anche l’ulteriore pregiudizio derivante dal ritardo nel soddisfacimento della pretesa azionata; ma non si identifica neppure con le spese e gli oneri sostenuti dalla parte per la propria difesa, dovendo il loro rimborso essere richiesto nel medesimo giudizio. ai sensi degli artt. 91 e 92 cod. proc. civ. (cfr. Cass., Sez. 1^, 24 gennaio 2007, n. 1605; 29 marzo 2006, n. 7140; 16 febbraio 2005, n. 3118).

4. – E’ infine fondato il settimo motivo, con cui il ricorrente deduce la violazione e la falsa applicazione degli artt. 1218, 1219 e 1224 cod. civ., censurando il decreto impugnato nella parte in cui ha riconosciuto sulla somma liquidata gl’interessi legali con decorrenza dalla data della decisione, anzichè da quella della domanda.

4.1. – Il diritto all’equa riparazione non postula infatti l’accertamento di un illecito secondo la nozione contemplata dall’art. 2043 cod. civ. nè presuppone la verifica dell’elemento soggettivo della colpa a carico di un agente, ma è ancorato all’accertamento della violazione dell’art. 6. par. 1, della CEDU, cioè di un evento ex se lesivo del diritto della persona alla definizione del suo procedimento in una durata ragionevole; la relativa obbligazione si configura pertanto non già come obbligazione ex delicto, ma come obbligazione ex lege avente carattere indennitario, con la conseguenza che gli interessi legali possono decorrere, purchè richiesti, dalla data di deposito del ricorso, conformemente al principio secondo cui gli effetti della pronuncia retroagiscono alla data della domanda (cfr. Cass., Sez. 1^ 2 febbraio 2007, n. 2248; 13 aprile 2006, n. 8712).

5. – Il decreto impugnato va pertanto cassato, e, non risultando necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 2, attraverso una nuova liquidazione del danno non patrimoniale, che, tenuto conto degli elementi già considerati dalla Corte d’Appello, nonchè della particolare consistenza del ritardo nella definizione del giudizio e del conseguente aggravamento del patema d’animo subito dal ricorrente, può essere quantificato nell’importo di Euro 9.250.00, sul quale sono dovuti gl’interessi legali con decorrenza dalla data di deposito del ricorso.

6. – Le spese di entrambi i gradi del giudizio seguono la soccombenza, e si liquidano come dal dispositivo.
P.Q.M.

La Corte accoglie il terzo, il quarto ed il settimo motivo di ricorso, rigetta gli altri. cassa il decreto impugnato in relazione ai motivi accolti, e, decidendo nel merito, condanna il Ministero della Giustizia al pagamento della somma di Euro 9.250,00 a titolo d’indennizzo, oltre interessi legali dalla domanda, nonchè al pagamento delle spese processuali, che si liquidano per il giudizio di merito in complessivi Euro 900,00, ivi compresi Euro 500,00 per onorario. Euro 600,00 per diritti ed Euro 100.00 per esborsi, oltre alle spese generali ed agli accessori di legge, e per il giudizio di legittimità in complessivi Euro 1.000.00, ivi compresi Euro 900,00 per onorario ed Euro 100,00 per esborsi, oltre alle spese generali ed agli accessori di legge.

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