Cass. civ. Sez. I, Sent., 07-03-2011, n. 5369 Diritti politici e civili Danno non patrimoniale

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. – Con Decreto del 28 giugno 2008, la Corte d’Appello di Catanzaro ha rigettato la domanda di equa riparazione proposta da M. F. nei confronti de Ministero dell’Economia e delle Finanze per la violazione del termine di ragionevole durata del processo, verificatasi in un giudizio in materia di pensioni di guerra promosso dal ricorrente dinanzi alla Corte dei Conti.

Pur rilevando che il giudizio, introdotto nell’anno 1971, si era concluso con sentenza del 7 luglio 2007, la Corte ha infatti escluso la sussistenza del danno non patrimoniale, osservando che il ricorrente aveva dimostrato un completo disinteresse per il procedimento, conclusosi con la dichiarazione di estinzione, a causa della mancata presentazione dell’istanza di prosecuzione prevista dal D.L. 15 novembre 1993, n. 453, art. 6, convertito in L. 14 gennaio 1994, n. 19. 2. – Avverso il predetto decreto il M. propone ricorso per cassazione, affidato ad un solo motivo. Il Ministero dell’Economia e delle Finanze non ha svolto difese.
Motivi della decisione

1. – Con l’unico motivo d’impugnazione, il ricorrente denuncia la violazione e/o la falsa applicazione della L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 2, commi 1 e 2, e dell’art. 6, par. 1, della Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo, sostenendo che, una volta accertata la violazione del termine di ragionevole durata del processo, la Corte d’Appello non avrebbe potuto escludere la sussistenza del danno non patrimoniale in virtù del comportamento tenuto da esso ricorrente successivamente al superamento del predetto termine, in quanto tale pregiudizio si identifica con gli effetti pregiudizievoli della res litigiosa, incidente nella specie su un bene primario quale il diritto alla pensione, ed idonea quindi a generare uno stato d’ansia nell’attesa della decisione.

1.1. – Il motivo è fondato.

In riferimento ai giudizi davanti al giudice amministrativo assoggettati alla disciplina anteriore all’entrata in vigore della L. 21 luglio 2000, n. 205, questa Corte ha affermalo che la lesione del diritto alla definizione del processo in un termine ragionevole, previsto dall’art. 6, par. 1, della CEDU, va riscontrata, analogamente a quanto accade per i giudizi dinanzi al giudice ordinario, avendo riguardo al periodo intercorso dall’instaurazione del relativo procedimento, senza che la decorrenza del predetto termine possa subire ostacoli o slittamenti in relazione alla mancata o ritardata presentazione dell’istanza di prelievo. La previsione di strumenti sollecitatori, infatti, non sospende nè differisce il dovere dello Stato di pronunciare sulla domanda, in caso di omesso esercizio degli stessi, nè implica il trasferimento sul ricorrente della responsabilità per il superamento del termine ragionevole, salva restando la vai illazione del comportamento della parte al solo fine dell’apprezzamento dell’entità del lamentato pregiudizio (cfr.

Cass.. Sez. Un. 23 dicembre 2005, n. 28507; Cass., Sez. 1 16 novembre 2006, n. 24438).

Tale orientamento è stato ribadito anche a seguito dell’entrata in vigore del D.L. 25 giugno 2008, n. 112, art. 54, comma 2, convertito in L. 6 agosto 2008, n. 133, che ha escluso la proponibilità della domanda di equa riparazione ove nel giudizio in cui si assume essersi verificata la lesione non sia stata presentata l’istanza di prelievo, precisandosi che tale disposizione non può incidere sugli atti anteriormente compiuti, i cui effetti, in difetto di una disciplina transitoria o di esplicite previsioni contrarie, restano regolati, secondo il fondamentale principio tempus regi actum, dalla norma sotto il cui imperio siano stati posti in essere (cfr. Cass., Sez. 1, 28 novembre 2008. n. 28428; 10 ottobre 2008. n. 24901).

Il principio in esame è stato esteso anche ai giudizi in materia pensionistica che si svolgono davanti alla Corte dei conti, osservandosi che per gli stessi non è individuabile alcuna disposizione che rendesse o renda obbligatoria la presentazione di un’istanza di fissazione o di prelievo da parte dell’interessato, in quanto l’abrogato L. 28 luglio 1971, n. 585, art. 20, attribuiva l’iniziativa per la fissazione dell’udienza di trattazione al Procuratore Generale presso della Corte, mentre il D.L. 15 novembre 1993, n. 453, art. 6, comma 3, convertito in L. 14 gennaio 1994, n. 19, ne prevede la fissazione d’ufficio ad opera del Presidente (cfr.

Cass., Sez. 1^, 11 maggio 2006, n. 10884: 7 aprile 2006. n. 8156).

In riferimento ai giudizi pendenti alla data di entrata in vigore della L. n. 19 cit., che ha modificato il D.L. n. 453, art. 6, comma 1, ponendo a carico della parte interessata l’onere di presentare un’istanza di prosecuzione nel termine di sei mesi dalla comunicazione della ricezione del fascicolo da parte della sezione regionale della Corte dei conti, e sanzionandone l’inadempimento con l’estinzione del giudizio, deve pertanto escludersi che, quanto meno fino alla data della predetta comunicazione, che segna l’insorgenza del predetto onere, l’inattività della parte possa giustificare l’esclusione del diritto all’equa riparazione per la violazione del termine di ragionevole durata del processo, ferma restando la possibilità di tener conto di tale inerzia ai fini della valutazione del pregiudizio conseguitone.

1.2. – A tale principio si è conformata, sia pure senza enunciarlo esplicitamente, la stessa Corte d’Appello, la quale non ha escluso l’avvenuta violazione del termine di ragionevole durata del processo, ma ha ritenuto insussistente il danno non patrimoniale, in virtù dell’intervenuta declaratoria di estinzione del giudizio ai sensi del D.L. n. 453 cit., art. 6, comma 1, desumendo dalla mancata presentazione dell’istanza di prosecuzione il completo disinteresse del ricorrente per la controversia.

Questa Corte ha tuttavia chiarito che, nella disciplina dettata dalla L. n. 89 del 2001, art. 2, il diritto all’equa riparazione prescinde dall’esito del giudizio irragionevolmente protrattosi nel tempo, e può quindi competere anche a chi, in quel giudizio, sia rimasto o sia eventualmente destinato a rimanere soccombente, a meno che l’azione o la resistenza in giudizio si configuri come abuso del processo, essendosi la parte resa responsabile di lite temeraria o avendo artatamente resistito al solo fine di lucrare l’equa riparazione (cfr. Cass.. Sez. 1^, 20 agosto 2010, n. 18780; 9 aprile 2010, n. 8513). L’esito sfavorevole del giudizio presupposto, infatti, non esclude di per sè la configurabilità di un danno non patrimoniale, il quale, pur non essendo ravvisatale in re ipsa come effetto automatico e necessario della lesione del diritto alla ragionevole durata del processo, ne costituisce una conseguenza normale, tale da giustificare il riconoscimento dell’equa riparazione, a meno che non ricorrano circostanze particolari, la cui prova è a carico dell’Amministrazione, le quali consentano di escludere che tale danno sia stato subito in concreto dal ricorrente (cfr. Cass. Sez. 1^, 30 agosto 2010, n. 18875; 13 novembre 2009, n. 24107).

In tale prospettiva, la stessa estinzione del giudizio, nella specie conseguente alla mancata presentazione dell’istanza di prosecuzione, non giustifica l’esclusione del diritto all’equa riparazione, non valendo ad elidere il dato oggettivo costituito dalla pregressa durata del processo, di per sè idoneo a giustificare l’affermazione della sussistenza del danno non patrimoniale, ma polendo assumere rilevanza, in relazione alla causa che l’ha determinata, su diverso piano dell’identificazione e della valutazione di detto pregiudizio, quale motivo di riduzione dell’indennizzo, nella misura in cui l’inerzia della parte evidenzi uno scarso interesse per la sollecita definizione della controversia, e quindi un minor disagio per il protrarsi della sua pendenza (cfr. Cass., Sez. 1^, 7 marzo 2006. n. 4865).

2. – La sentenza impugnata va pertanto cassata, e non risultando necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito, ai sensi dell’art. 384 cod. proc. civ., comma 2, con il riconoscimento in favore del ricorrente dell’indennizzo per il danno non patrimoniale derivante dalla lesione del diritto alla ragionevole durata del processo.

2.1. – Ai fini della liquidazione di tale pregiudizio, premesso che la Corte d’Appello ha determinato in tre anni la durata ragionevole del processo, con statuizione che non ha costituito oggetto d’impugnazione, si osserva, quanto alla decorrenza di tale durata, che il fatto costitutivo del diritto all’equa riparazione è individuabile non già nella L. n. 89 del 2001, art. 2, che in attuazione dell’art. 13 della CEDU si è limitato ad apprestare, in favore della vittima della lesione del diritto alla ragionevole durata del processo, un rimedio giurisdizionale interno analogo alla prevista tutela internazionale, ma direttamente nella violazione dell’art. 6 della Convenzione, al quale va riconosciuta immediata rilevanza nel diritto interno, per effetto della ratifica intervenuta con L. 4 agosto 1955. n. 848 (cfr. Cass. Sez. Un., 23 dicembre 2005, n. 28507; Cass. Sez. 1^, 1 marzo 2007. n. 4842).

Con tale ratifica, peraltro, non fu dato immediato ingresso all’azione di riparazione, che era condizionata all’accettazione di una clausola opzionale che prevedeva il riconoscimento della competenza della Commissione (oggi, della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo) da parte dello Stato contraente; e poichè per l’Italia tale accettazione è intervenuta soltanto il 1 agosto 1973. il calcolo della ragionevole durata non può tener conto del periodo di svolgimento del processo presupposto anteriore alla predetta data (cfr. Cass. Sez. 1^, 10 luglio 2009, n. 16284; 20 giugno 2006, n. 14286).

2.2. – Tanto precisato, e tenuto conto da un lato della particolare consistenza del ritardo nella definizione del giudizio pensionistico, e dall’altro dell’assenza di qualsiasi elemento dal quale possa desumersi l’entità degli interessi economici coinvolti nella controversia, nonchè dello scarso interesse alla risoluzione della stessa manifestato dal ricorrente dapprima attraverso la mancata assunzione di qualsiasi iniziativa sollecitatoria, e successivamente attraverso l’inadempimento dell’onere di proporre l’istanza di prosecuzione, il danno non patrimoniale può essere liquidato nell’importo complessivo di Euro 16.958,00, sul quale sono dovuti gl’interessi legali con decorrenza dalla domanda.

3. – Le spese di entrambi i gradi del giudizio seguono la soccombenza, e si liquidano come dal dispositivo.
P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso nei termini di cui in motivazione, cassa il decreto impugnato, e, decidendo nel merito, condanna il Ministero dell’Economia e delle Finanze a corrispondere a M.F. la somma di Euro 16.958,00 a titolo di indennizzo, oltre interessi legali dalla domanda, nonchè al pagamento delle spese processuali, che si liquidano per il giudizio di merito in complessivi Euro 1.650.00, ivi compresi Euro 1.000,00 per onorario, Euro 600,00 per diritti ed Euro 50,00 per esborsi, oltre alle spese generali ed agli accessori di legge, e per il giudizio di legittimità in complessivi Euro 1.100,00, ivi compresi Euro 1.000.00 per onorario ed Euro 100,00 per esborsi, oltre alle spese generali ed agli accessori di legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *