Cass. pen. Sez. IV, Sent., (ud. 13-01-2011) 03-02-2011, n. 4114 Omicidio colposo

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

G.E. veniva condannato dal Tribunale di Varese, con sentenza 14.2.2007, alla pena di mesi sei di reclusione, nonchè al risarcimento del danno, con rimessione delle parti davanti al giudice civile, con una provvisionale di Euro 30.000,00 e con la sospensione condizionale della pena subordinata al pagamento della somma provvisoriamente assegnata alla parte civile con la sentenza, perchè riconosciuto responsabile del reato previsto e punito dall’art. 113 c.p., art. 590 c.p., commi 1, 2 e 3, in relazione art. 583 c.p., comma 1, n. 1, perchè in cooperazione con S.A., nelle rispettive qualità rivestite: G.E. di titolare della ditta MIREMA s.a.s. corrente in Varese; S.A. di titolare firmatario della omonima impresa individuale e di fatto datore di lavoro di N.R., cagionavano al detto lavoratore lesioni personali, gravi, commettendo I fatto per colpa consistita in negligenza, imperizia, inosservanza alla normativa vigente. In particolare era stata affidata, al N.R., la posa di un falso telaio di una finestra posta a circa 5 metri impiegando un trabattello totalmente privo di parapetti protettivi e di scalette di accesso ai diversi piani e allestito con piano di calpestio non idoneo e in contrasto con le istruzioni del libretto di montaggio del trabattello stesso (pannelli di armatura) con la conseguente caduta che aveva provocato le lesioni sopra indicate.

Agli imputati erano state contestate specificamente le seguenti violazioni di legge: G.E., del D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 7, comma 2, in relazione al comma 3,; S.A., D.Lgs. n .626 del 1994, art. 7, comma 2, lett. a), art. 35, comma 4, lett. a) b) c), art. 37, comma 1,; del D.P.R. n. 164 del 1956, artt. 7, 23 e 24, (fatto avvenuto In (OMISSIS)).

La dinamica dell’infortunio risultava accertata dal Tribunale come segue. Il G., socio, accomandatario della Mirema s.a.s., società che si occupava della gestione di una struttura sportiva operante in Varese, denominata "Laguna Blu", il 12/5/2004 aveva presentato al Comune di Varese una istanza volta ad ottenere un permesso di costruire per l’ampliamento del centro sportivo, con la creazione di "una nuova palestra pesi ottenuta dalla chiusura della parte sottostante la passerella di ingresso al pianoterra… ". Dopo i favorevoli pareri della ASL e della commissione urbanistica comunale, la Mirema aveva ottenuto la prevista autorizzazione.

Progettista e direttore lavori era l’arch. Go.Ti., il quale non aveva ricevuto alcun incarico specifico per la sicurezza nel cantiere non rientrando a suo dire i lavori predetti nella previsione del D.Lgs. n. 494 del 1996, art. 3, comma 3. S.A. era il titolare di una impresa individuale operante in campo edilizio, ed era stato incaricato dal G. con contratto stipulato in forma solo verbale, dell’esecuzione dei lavori oggetto del permesso di costruire.

L’impresa di S. operava senza dipendenti essendo il titolare l’unico soggetto attivo all’interno dell’impresa, giovandosi, come ammesso, solitamente di altri lavoratori saltuari, parimenti titolari di partita Iva, che lo coadiuvavano nei lavori, sostanzialmente solo con la prestazione di manodopera. Lo stesso – la cui posizione era stata stralciata avendo definito il giudizio ex artt. 444 e ss. c.p.p., ed era stato quindi sentito ai sensi dell’art. 197 c.p.p.) – aveva ammesso anche di possedere l’attrezzatura completa per l’espletamento dell’attività edilizia, precisando che quindi richiedeva ai manovali, che di volta in volta chiamava, solo di portare con sè gli attrezzi di stretta pertinenza individuale (in sostanza secchio e cazzuola).

Anche R.N. era a sua volta titolare di una impresa edile individuale (Edil NR) regolarmente iscritta alla Camera di Commercio dall’autunno del 2002. Come da documento acquisito agli atti, datato 13/9/04, la Edil NR avrebbe ricevuto dallo S. l’incarico di eseguire parte delle opere in subappalto. L’incarico risultava così testualmente descritto nel citato documento: "lo svolgimento di prestazioni di mano d’opera in genere in subappalto presso il cantiere del Centro Sportivo Laguna Blu". L’attrezzatura utilizzata era di proprietà dello S., ed il R. avrebbe dovuto prestare solo manodopera, venendo pagato con una somma fissa per ogni ora lavorata, inserendosi nella struttura organizzativa dello S..

Come osservato dal Tribunale, i tre soggetti ( G., S. e R.) operavano quindi formalmente nelle rispettive qualità di committente, di appaltatore e di subappaltatore, anche se vari elementi sembravano attestare una realtà almeno parzialmente diversa dalla forma. Ed invero, secondo il primo giudice, nei rapporti fra S. e R., risultava del tutto evidente l’aggiramento della disciplina del contratto di lavoro subordinato ex art. 2094 c.c., posto che solo sulla carta il secondo poteva agire come lavoratore autonomo, trovandosi invece inserito nella organizzazione del datore di lavoro, dovendo rispondere alle sue direttive, utilizzando non solo il materiale, ma anche l’attrezzatura messa a disposizione dallo S., venendo pagato a tempo e non in relazione all’opera e non avendo la benchè minima autonomia decisionale. Era dunque da escludere, ad avviso del Tribunale, come peraltro da prassi diffusa nel settore edilizio, che nella realtà il contratto stipulato fra S. e R. potesse essere qualificato come appalto, posto che al secondo era in effetti richiesta la semplice prestazione di mano d’opera, senza neppure l’indicazione, in contratto, dell’opera o del servizio da eseguire.

Secondo il G., nel mese di agosto l’impresa S. era stata poi richiamata per l’assegnazione di nuove opere, originariamente non previste, essendosi verificate delle perdite nelle docce degli spogliatoi. Si era trattato evidentemente di lavori diversi da quelli che avevano formato oggetto del contratto iniziale.

In ogni caso, nel Piano Operativo di Sicurezza, elaborato dallo S., non risultava prevista la muratura di falsi telai e, di conseguenza, nel piano stesso non era previsto nulla in relazione a tali lavori, con conseguente totale omissione nella valutazione dei relativi rischi. Quanto ai rischi di caduta dall’alto (rilevati esclusivamente con riferimento alle lavorazioni di posa di armatura per strutture in elevazione e per l’esecuzione di murature esterne), lo S. aveva previsto peraltro l’utilizzo esclusivamente di andatoie e passerelle adeguatamente protette e munite di parapetti, nonchè di un ponteggio metallico fisso ancorato alla parete e parimenti protetto e utilizzato con cinture di sicurezza. Anche il R., secondo il primo Giudice, aveva escluso che fra le opere che S. aveva in appalto vi fosse la posa dei falsi telai tant’è che l’unico installato era quello rilevato in occasione dell’infortunio.

Dagli atti del dibattimento era emerso, dunque (sul punto vi era un stato sostanziale accordo fra le parti), che i lavori di ampliamento della struttura sportiva erano iniziati e finiti nel mese di luglio;

che nel mese di agosto erano state eseguite opere interne originariamente non previste; che nel mese di settembre S. era stato ulteriormente richiamato per gli ultimi ritocchi, dopo l’accesso di altri artigiani (parquettista, serramentista, fabbro ecc), incaricati direttamente da G.. Secondo lo S., quel giorno "c’era una certa premura perchè (la palestra) doveva aprire".

La mattina del (OMISSIS), il R. si era trovato a dover montare un falso telaio. Il primo Giudice aveva rilevato che, per come riferito dallo stesso R., quel mattino egli – secondo le indicazioni ricevute da S. che verso le 9,30 si era allontanato – avrebbe dovuto effettuare altri lavori (precisamente gli ultimi lavori di stabilitura e di chiusura delle tubature in modo da poter finire il tutto entro mezzogiorno). Anche S. aveva confermato che queste erano state le indicazioni che aveva dato al R. quel mattino bevendo il caffè, per poi allontanarsi e portarsi a casa di G. per altri lavori. Si trattava dell’ultimo giorno di lavori, presso il centro sportivo che di lì a poco sarebbe stato inaugurato. Verso le 10,00 R. era stato chiamato da G. che gli aveva chiesto di montare il falso telaio metallico alla grande finestra trapezoidale, posta (guardando dall’interno) alla destra dell’ingresso del centro sportivo. In quel momento S. non c’era e l’operaio dunque aveva preso ordini direttamente dal committente ("perchè lì diciamo se ti danno ordini devi salire) se no devi andare a casa. Lì era da fare come diceva lui "fai questo, fai questo, fai questo", se no devi andare a casa").

Il G. stesso lo aveva accompagnato sul posto e gli aveva detto di utilizzare un trabattello che era già presente in loco, attrezzo che gli avrebbe consentito di raggiungere la quota della finestra:

R. l’aveva già visto in cantiere e sapeva che il trabattello era di G., ma non l’aveva mai utilizzato prima di allora.

Secondo il R., dunque, egli aveva aiutato il G. a posizionare il falso telaio dall’esterno, ove il piano di calpestio era posto ad una quota decisamente più alta e il vano finestra era dunque raggiungibile utilizzando una scala; poi, mentre G. teneva ferma la struttura, egli si era portato all’interno e salendo sul trabattello aveva preso a murare le zanche del falso telaio, mentre il committente si allontanava.

Il G. aveva dichiarato che, invece, quel giorno il R. era stato mandato da S. (che aveva confermato non essere stato presente al momento dell’incidente ed anzi di non averlo proprio visto quel mattino) "dopo la chiusura di tutti i lavori per fare quel falso telaio e le finiture… in occasione dell’apertura del centro sportivo era stato sostituito un falso telaio di legno con quello in acciaio ed erano state fatte le finiture. E quello è stato l’intervento per cui era stato mandato il signor R.", il G. aveva dunque negato di aver mai impartito direttive al lavoratore, precisando che, peraltro, l’innalzamento del falso telaio e la installazione dello stesso ben potevano ben essere effettuati dall’esterno, e sempre dall’esterno sarebbe stato anche possibile murarne le zanche; a dire dell’imputato, lì R. avrebbe dovuto operare da solo, dall’esterno della palestra, senza correre dunque alcun rischio.

Il G., a suo dire, non si sarebbe preoccupato della presenza del trabattello all’interno della palestra, sicuro che il R. avrebbe utilizzato i cavalletti e le assi da ponte che lo S. aveva lasciato sul posto, operando dalla balconata esterna: solo dopo l’infortunio si sarebbe accorto che la parte lesa aveva operato dall’interno dell’edificio.

Il manovale, secondo la versione difensiva del G., avrebbe fatto tutto da solo, oppure facendosi aiutare da soggetti rimasti sconosciuti; avrebbe da solo sollevato fino ad una quota di cinque metri di altezza una struttura di quelle dimensioni e di oltre 20 kg di peso arrampicandosi su un trabattello privo di scale, riuscendo poi a posizionarlo ed iniziando almeno le operazioni di muratura o, in alternativa, l’avrebbe, sempre da solo, trasportato all’esterno, l’avrebbe posato e poi, lasciandolo senza alcun ancoraggio, si sarebbe portato all’interno del fabbricato, sarebbe salito sul trabattello ed avrebbe iniziato a murarlo. Il Tribunale riteneva la ricostruzione descritta dal G. assolutamente non verosimile.

Secondo la dinamica del fatto come ricostruita dal Tribunale, una volta posato il falso telaio, il R. si era portato all’interno dell’edificio per le operazioni di muratura delle zanche. Come asseritamente indicatogli dal G., per raggiungere il vano finestra (situato ad una altezza di cm. 505 alla base, innalzandosi per ulteriori cm. 142 secondo il rilievo operato dalla ASL), egli aveva utilizzato il trabattello che era già presente sul posto (pacificamente di proprietà dell’imputato). A detta del R., tale attrezzo recava tre piani e consentiva di giungere ad una quota di circa 5 mt in modo da poter operare all’altezza del falso telaio;

solo sull’ultimo piano era stato creato un piano di calpestio, realizzato appoggiandovi dei pannelli di legno da armatura (di circa mt. 2,00 x 0,50), mentre gli altri piani non erano stati completati con la posa dei tavolati e ciò gli aveva consentito di raggiungere la sommità del trabattello arrampicandosi dalla spalla laterale, dal lato interno alla struttura stessa, posto che non era dotato di scalette interne. Non erano stati peraltro montati nè stabilizzatori, nè paletti; le ruote non erano state fermate da cunei ed il trabattello non era ancorato alla parete in alcun modo.

Le tavole, poi, non erano state posate – come di consueto – in senso perpendicolare alle spalle del trabattello stesso (cd. "scalette"), ma in senso parallelo ad esse, appoggiate non sui montanti laterali ma sui distanziatori, sporgendo a sbalzo dagli stessi, almeno dalla parte che volgeva verso il muro, per circa 50 cm., in modo da giungere a toccare il muro stesso proprio sotto l’apertura su cui andava montato il falso telaio (tale ricostruzione appariva mostrata con chiarezza sullo schema elaborato dagli ispettori dell’ASI, sulla base delle indicazioni fornite dalla parte lesa).

Come risultava evidente anche dalle fotografie in atti, il trabattello non poteva essere accostato completamente al muro, a causa della presenza di una trave in calcestruzzo sporgente, per cui la struttura necessariamente doveva trovarsi a qualche decina di centimetri di distanza dalla parete. Per avvicinarsi dunque il più possibile al punto in cui doveva lavorare, R. – mantenendo il piede destro sul piano di calpestio del trabattello -aveva appoggiato il sinistro al muro, mantenendosi in equilibrio e cominciando a lavorare di cazzuola. Dopo qualche minuto, però, il piede sinistro aveva cominciato a risentire della fatica data dalla posizione estremamente scomoda e il lavoratore si era mosso per avvicinare al muro il piede destro; cosi facendo lo aveva portato in un punto della tavola situato fuori dal perimetro di appoggio formato dalle strutture portanti del trabattello, tanto da provocarne il ribaltamento. La tavola, infatti, non ancorata in alcun modo, aveva ceduto sotto il peso dell’uomo, facendolo cadere verso la trave in calcestruzzo alla sua sinistra e poi a terra. Anche il G., che sarebbe stato in ufficio al momento dell’incidente e sarebbe accorso nell’udire il rumore, aveva asserito che, mentre si trovava sulla passerella situata proprio a fianco del punto ove era avvenuto l’infortunio, gli era sembrato di "vedere una mano che picchiava… mi sembra di aver visto una mano che si attaccava alla balaustra…" o meglio vicino alla trave, come aveva poi specificato mostrando il punto in fotografia. Effettivamente gli operatori dell’ASI, al momento, avevano rilevato la presenza di una impronta sulla parte inferiore del vetro della bussola di ingresso al centro sportivo, situata all’inizio della passerella, proprio alla sinistra della apertura in cui il R. avrebbe dovuto montare il falso telaio, ad un’altezza di circa 3 mt. da terra. Era dunque ben possibile che, al momento in cui aveva perso l’equilibrio, il lavoratore avesse disperatamente cercato un appiglio con la mano, non riuscendo comunque a trattenersi e ad evitare dunque la caduta.

Ciò comprovava in ogni caso come il R. stesse operando ad una altezza ben maggiore rispetto a quella cui era montato il trabattello al momento del sopralluogo, altrimenti un corpo in caduta non avrebbe avuto modo di cercare appiglio in un punto posto al di sopra della propria testa. Con ogni probabilità, peraltro, il manovale aveva in mano, al momento in cui l’asse si era ribaltata, gli attrezzi da lavoro, e ciò poteva aver ancora di più rallentato la sua capacità di aggrapparsi a qualcosa durante la caduta. Secchio e cazzuola erano stati infatti notati da diversi testimoni a terra, vicino al corpo dell’uomo.

Secondo il R., al momento della sua caduta nessun altro era presente. Il cognato X.S. era all’esterno della struttura, intento a caricare sul proprio camion delle macerie, che il G. gli aveva chiesto di portare via, ed era accorso alle urla del congiunto; sentito come teste, aveva infatti dichiarato che quel mattino era stato chiamato al cellulare proprio dal R. che, su incarico di G., cercava qualcuno disponibile per portare via dal cantiere le macerie accumulate: egli dunque era giunto sul luogo verso le 9.30 – 10.00 e il cognato gli aveva presentato il G., che personalmente lo aveva incaricato della rimozione delle macerie ed aiutato anche a caricarle sul camion con una piccola ruspa di proprietà dello stesso imputato. X. aveva fatto un primo viaggio in discarica e poi era tornato nuovamente per un secondo carico. Mentre stava caricando il camion, aveva visto peraltro il R. lavorare alla muratura del falso telaio (che dunque era già stato posato), arrampicato sul terzo piano del trabattello; poco dopo, avendo sentite delle urla, era accorso, trovando il congiunto già a terra, vicino a delle tavole di legno, al secchio e alla cazzuola. Anche questo teste aveva confermato che il trabattello era montato fino al terzo piano e che non aveva le protezioni frontali (il teste aveva infatti inizialmente dichiarato che le protezioni erano presenti, mentre poi aveva mostrato in fotografia che quel che egli aveva definito "protezioni", e che erano, in realtà, i montanti laterali della struttura). Il teste P.W., che aveva fatto parte dell’equipaggio del 118 ed evidentemente non poteva avere alcun interesse all’esito del procedimento, aveva dichiarato che al momento dell’infortunio il trabattello era montato in modo da consentire di arrivare fino alla finestra, quindi ad una altezza di circa 5 – 6 metri; egli, visionate le foto, aveva radicalmente escluso che il trabattello si presentasse così come ivi raffigurato ed aveva precisato che non erano presenti i parapetti nè le scale di accesso. Vicino al corpo del lavoratore infortunato erano presenti delle assi di legno, probabilmente cadute insieme a lui dalla sommità della struttura.

C.S. aveva confermato le stesse circostanze e precisato che il tipo di lesioni riportate dal lavoratore erano apparse ictu oculi compatibili con una caduta dall’altezza descritta.

Quanto ai testi di difesa, il Tribunale rilevava che la testimonianza della sig.ra L. (teste a difesa e dipendente del G.), che si era limitata a dichiarare che quel mattino alle ore 8.30 – e quindi prima dell’inizio del lavoro – il trabattello appariva come ritratto in fotografia, non aveva aggiunto alcun elemento, posto che lo stesso trabattello ben poteva essere stato innalzato nelle ore successive, prima dell’infortunio. Era quindi emerso con chiarezza, secondo il primo Giudice, come il R. fosse caduto da una altezza di circa 5 mt., corrispondenti al terzo piano del trabattello su cui era salito per lavorare. Quando però, due giorni dopo, gli operatori del competente servizio dell’ASI – allertati con estremo ritardo dal Pronto Soccorso – avevano effettuato un sopralluogo presso il centro sportivo, il trabattello, ancora presente vicino alla finestra, appariva montato ad una altezza molto più bassa con il piano di calpestio a mt 1,35; tanto che – come ricordato dal teste F. – sul punto era stato sentito, prima, S., il quale aveva dichiarato che il lavoratore era caduto da tale altezza, e poi lo stesso R. che aveva confermato la medesima circostanza:

l’infortunato era stato sentito in Ospedale, mentre si trovava ancora in prognosi riservata, nel timore che una eventuale evoluzione negativa della patologia avesse potuto impedire un esame in condizioni più tranquille.

Il Tribunale evidenziava altresì che una iniziale versione dei fatti, resa dallo S. con atteggiamento finalizzato ad accreditare la linea difensiva seguita dal G., era stata poi del tutto smentita non solo dalle dichiarazioni dello stesso S. – il quale aveva poi definito la propria posizione processuale per questi stessi fatti con l’applicazione della pena – e del R., ma anche da quanto riferito dagli altri testimoni sentiti, dall’impronta sulla trave, dall’entità delle lesioni e dalle valutazioni di ordine logico. Il trabattello dunque non poteva trovarsi in quelle condizioni allorquando vi era salito il R..

Il G. aveva ammesso che il trabattello era suo.

Riteneva il primo Giudice del tutto evidente che se fossero state adottate le semplici e assai poco dispendiose misure di sicurezza previste dalla normativa in materia, l’incidente non avrebbe avuto luogo, come era altrettanto evidente che tali prescrizioni non erano state di fatto rispettate neppure nello stato in cui il trabattello era stato trovato al momento del sopralluogo dell’ASL, allorquando il trabattello presentava un piano di calpestio formato da tavole non ancorate, con parti a sbalzo, male accostate, prive di fermapiede. La struttura utilizzata era quindi in sè da ritenersi pericolosa e, significativamente, proprio l’adozione delle misure precauzionali imposte dalla normativa di settore avrebbe consentito di evitare l’infortunio.

Il Tribunale riteneva che non potesse dubitarsi che all’imputato G. facesse capo la responsabilità di tali macroscopiche omissioni, rilevando, sul, punto, che la difesa aveva ripetutamente sottolineato come difettasse in capo a G. la qualifica di datore di lavoro – che, ex art. 2087 c.c., fonda il titolo di responsabilità per gli infortuni dei lavoratori omettendo tuttavia di considerare correttamente le responsabilità che la legge riserva al committente.

In particolare, il Tribunale riteneva che, in base agli elementi raccolti e già descritti sopra con riferimento alle qualifiche soggettive delle parti, i rapporti fra G. e R. potessero essere ricostruiti in due modi.

Poteva infatti ritenersi che la posa del falso telaio rientrasse implicitamente nel complesso delle opere murarie affidate allo S. e dunque demandate per l’esecuzione al R.; in questo caso poteva dirsi certamente provata l’ipotesi accusatoria formulata dal PM, posto che il G. non si era limitato a commissionare l’opera: egli infatti si era ingerito nelle scelte tecnico – operative dell’appaltatore, impartendo direttive dirette anche al R. e mettendogli a disposizione attrezzatura non idonea; si sarebbe semmai potuto discutere della residua responsabilità dell’appaltatore, di fatto estromesso dalla gestione di tali opere, ma certo non poteva escludersi la responsabilità del committente, posto che costui assume una posizione di garanzia, ed è chiamato a rispondere penalmente degli eventi dannosi subiti dai dipendenti dell’appaltatore, ove si sia ingerito nell’esecuzione dell’opera mediante una condotta che abbia determinato o concorso a determinare l’inosservanza di norme di legge, regolamento o prudenziali poste a tutela degli addetti, esplicando così un effetto sinergico nella produzione dell’evento di danno.

Peraltro, osservava ancora il Tribunale che in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, in caso di subappalto, la responsabilità del committente permane quando il subappaltatore non abbia una autonomia tecnica e, in particolare, quando questi, per le opere di sicurezza del lavoro sia tenuto ad avvalersi di quelle del cantiere principale e non abbia libertà di determinazione. Il G., secondo il Tribunale, aveva tenuto una condotta che era valsa ad aggravare la sua responsabilità anche oltre il dettato del D.Lgs. n. 164 del 1996, art. 6, e art. 5, lett. a), posto che egli non si era limitato ad affidare ad altri l’esecuzione dell’opera, ma si era ingerito nelle scelte altrui ed aveva in concreto imposto l’utilizzo di una attrezzatura priva dei requisiti di sicurezza.

Anche nell’ulteriore ipotesi che quel giorno G. avesse stipulato con il R. un nuovo contratto, incaricandolo personalmente – sia pure solo in forma verbale, come peraltro aveva fatto con lo S. per tutti i lavori commissionati – di montare il falso telaio, opera non compresa nel contratto di appalto stipulato con S., l’obbligo di prevenzione poteva essere ricondotto alla previsione del D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 7, per cui, secondo la giurisprudenza, in tema di responsabilità del datore di lavoro per gli infortuni sul lavoro, l’obbligo di collaborazione prevenzionale tra il committente e l’appaltatore o lavoratore autonomo che abbiano assunto il compito di eseguire l’opera, imposto dal D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 7, prescinde dalla forma giuridica del contratto concluso dal committente ed in particolare sussiste sia nel caso di appalto ordinario di opere o servizi, sia nel caso, peraltro vietato, di appalto di manodopera, atteso che in entrambi i casi ricorre l’esigenza di tutela prevenzionale dei lavoratori;

inoltre, l’esistenza di un contratto d’opera non vale a trasferire il rischio connesso all’esecuzione del lavoro, ed il relativo onere di tutela della sicurezza e dell’incolumità, dal committente al prestatore d’opera.

In entrambe le ipotesi, dunque, la responsabilità del G., ad avviso del Tribunale, era risultata pacificamente provata, avendo comunque egli richiesto al R. l’utilizzo di una attrezzatura da lavoro di sua proprietà, indispensabile per portare a termine l’incarico conferito e totalmente priva dei requisiti minimi di sicurezza, in palese violazione del D.P.R. n. 547 del 1955, art. 5, così come richiamato dal D.P.R. n. 164 del 1956, art. 3, laddove è prescritto che "nel caso in cui dal datore di lavoro siano concessi in uso macchine o attrezzi di sua proprietà per l’esecuzione dei lavori… dette macchine o attrezzi devono essere muniti dei dispositivi di sicurezza previsti dal presente decreto".

Osservava ancora il Tribunale che doveva peraltro trovare applicazione anche la disciplina dettata dal D.Lgs. n. 494 del 1996, e in particolare gli artt. 3 e 6, laddove è previsto che spetta al committente o al responsabile dei lavori la valutazione dei rischi di cui al D.Lgs. n. 626 del 2004, art. 3, e che il committente deve ritenersi esonerato dalle responsabilità connesse all’adempimento degli obblighi limitatamente all’incarico conferito al responsabile dei lavori. Nel caso di specie, posto che l’incarico conferito all’arch. Go. non comprendeva anche l’esecuzione delle opere realizzate dal R. (era stato lo stesso G. ad affermarlo, ribadendo più volte che quei lavori erano terminati nel mese di luglio), l’obbligo di valutazione dei rischi e la responsabilità in merito alla loro eliminazione erano rimasti interamente in capo al G..

Nè, infine, la condotta del R. poteva dirsi tale da incidere sul nesso causale fra la condotta del G. e l’evento lesivo. Il R., infatti, pur formalmente titolare di una impresa individuale, si era limitato a prestare la propria manodopera, senza avere a disposizione attrezzature nè la minima organizzazione propria dell’impresa. A seguito di rituale gravame proposto dall’imputato, la Corte d’Appello di Milano confermava l’impugnata decisione, disattendendo tutte le tesi difensive, peraltro analoghe a quelle già sottoposte al vaglio del primo giudice la cui motivazione la Corte stessa richiamava analiticamente, ricordandone, con diffuse argomentazioni, i più significativi passaggi concernenti: la ricostruzione del fatto, il compendio probatorio acquisito e valutato, l’esame critico delle deposizioni della parte lesa e dei testi, la ritenuta sussistenza delle violazioni di legge contestate, la posizione di garanzia del G., i rapporti di lavoro intercorsi tra quest’ultimo, lo S. ed il R., l’accertato nesso di causalità tra la condotta del G. e l’evento, la mancanza di qualsiasi connotazione di abnormità nella condotta del lavoratore infortunato.

La Corte distrettuale si soffermava, in particolare e diffusamente, sul vaglio di credibilità delle dichiarazioni della parte lesa pervenendo ad un giudizio di piena ed assoluta attendibilità in quanto circostanziate, precise, nonchè suffragate da plurimi riscontri di varia natura, anche sul piano logico e deduttivo, in ordine alla dinamica dell’evento, alle condizioni del trabattello, ed alla stessa posizione di garanzia del G. laddove la parte lesa aveva riferito di aver ricevuto personalmente proprio da quest’ultimo l’ordine di posizionare il falso telaio utilizzando quel trabattello privo di qualsiasi presidio di sicurezza, e pacificamente di proprietà del G. per stessa ammissione del medesimo:

circostanze fattuali di valenza assolutamente tranciante, tali da fornire la prova certa della penale responsabilità del G. in ordine al reato ascrittogli. La Corte distrettuale non mancava di richiamare altresì la giurisprudenza di legittimità in tema di responsabilità del committente, escludendo infine qualsiasi incidenza del comportamento dell’infortunato – dall’appellante prospettato come abnorme – sul nesso di causalità tra la condotta dell’imputato e l’evento. Avverso detta sentenza propone ricorso per cassazione il G., tramite il difensore, deducendo motivi che possono così riassumersi: 1) Violazione dell’art. 125 c.p.p., art. 192 c.p.p., comma 1, art. 546 c.p.p., comma 1, lett. e), e dell’art. 590 c.p., per mancanza, illogicità e contraddittorietà della motivazione della sentenza impugnata in ordine alla ricostruzione dei fatti ed agli elementi probatori processuali indicati dalla parte nei motivi di gravame, nonchè inosservanza ed erronea applicazione della legge penale in ordine alla sussistenza del reato di lesioni colpose:

ad avviso del ricorrente la ricostruzione dei fatti operata dai giudici di merito risulterebbe smentita per tabulas, in particolare avuto riguardo alla posizione iniziale dell’infortunato quale descritta nelle sentenze di primo e secondo grado che avrebbe dovuto determinare non una rovinosa caduta a terra ma, semmai, sulla "presunta" (per come si legge nel ricorso) trave. La Corte territoriale avrebbe ancorato il proprio convincimento alle dichiarazioni della parte lesa e dello S. senza alcun approfondito vaglio di credibilità, ed avrebbe erroneamente attribuito al G. la stipula di un autonomo contratto di appalto con il R.: ed invero, se così fosse stato, anche al G. avrebbero dovuto essere contestate le medesime violazioni di legge addebitate allo S.; 2) Violazione dell’art. 125 c.p.p., e dell’art, art. 192 c.p.p., comma 1, art. 546 c.p.p., comma 1, lett. e), e degli artt. 590 e 41 c.p., per mancanza, illogicità e contraddittorietà della motivazione della sentenza impugnata in ordine alla ricostruzione dei fatti ed agli elementi probatori processuali indicati dalla parte nei motivi di gravame, nonchè inosservanza ed erronea applicazione della legge penale in ordine al mancato riconoscimento della sussistenza di causa di per sè sufficiente a determinare l’evento. La Corte d’Appello avrebbe violato i criteri della valutazione della prova indicati nell’art. 192 c.p.p., venendo meno all’onere motivazionale sui cui principi generali il ricorrente si sofferma con diffuse argomentazioni, sostenendo che i giudici di seconda istanza non avrebbero adeguatamente vagliato le argomentazioni difensive svolte con i motivi di appello; 3) Violazione di legge ed erronea applicazione di leggi penali ex art. 606, lett. b), – violazione artt. 468, 493, 495, 192 e 194 c.p.p., con riferimento al valore probatorio conferito alle deposizioni della persona offesa, che avrebbero dovuto essere valutate con estremo rigore in quanto contrastate da altri elementi di prova; 4) Violazione di legge ed erronea applicazione di leggi penali ex art. 606, lett. b); violazione artt. 468, 493, 495,192, 194 e 197 – bis c.p.p., con riferimento al valore probatorio conferito alle deposizioni del testimone assistito S.: vengono sostanzialmente ripetute le doglianze e le critiche sopra ricordate quanto alla denuncia di vizio motivazionale in ordine alla valutazione delle dichiarazioni della parte lesa, e viene evocata la pronuncia n. 265/2004 della Corte Costituzionale circa la necessità di un approfondito e peculiare vaglio critico delle dichiarazioni del cd. testimone assistito; 5) Inosservanza ed erronea applicazione della legge penale e manifesta illogicità della motivazione ex art. 606, lett. b) -violazione artt. 40 e 41 c.p.: G.E. sarebbe stato riconosciuto colpevole del reato a lui ascritto per non avere vigilato (secondo contestazione di colpa specifica), e ciò in palese contrasto con la descrizione della condotta contestata nel capo di imputazione; le motivazioni addotte dalla Corte di Appello di Milano, a conferma della sentenza resa in primo grado dal Tribunale di Varese, risulterebbero non rispondenti alla logica ma, soprattutto, non spiegherebbero perchè nessun testimone abbia visto il G. consegnare e/o anche consentire l’utilizzo del famoso trabattello al R.; detta circostanza sarebbe stata data per certa, pur in mancanza di elementi di prova: di tal che, sarebbe quanto meno azzardato affermare la responsabilità dell’imputato e, per converso, altrettanto azzardato escludere l’esistenza di una grave condotta colposa autonoma in capo a terzi, come tale idonea ad essere considerata unica causa del tragico incidente e, quindi, atta ad interrompere il nesso causale, ai sensi del dell’ art. 41 c.p., comma 2,; sarebbe invero palese, secondo il ricorrente, l’assoluta e totale imprudenza del povero R. ed anche dello S., con plurime violazioni di norme specifiche; 6) Inosservanza ed erronea applicazione della legge penale e manifesta illogicità della motivazione ex art. 606, lett. e) e d) – violazione artt. 40 e 41 c.p., con riferimento alla mancata assunzione della posizione di garanzia ad opera di "Veronese Marco" (indicazione di persona, quest’ultima, da ritenersi all’evidenza frutto di errore materiale);

il ricorrente si duole della "mancata valutazione inerente alla responsabilità dello S." (per come testualmente si legge) e viene ancora una volta prospettata come asseritamente abnorme, imprudente ed imprevedibile la condotta della parte lesa; 7) Inosservanza ed erronea applicazione della legge penale e manifesta illogicità della motivazione ex art. 606 lett. e), e di – violazione art. 597, comma 1, e art. 605 c.p.; ad avviso del ricorrente, la Corte territoriale sarebbe venuta meno all’onere motivazionale non avendo fornito adeguata risposta a specifiche deduzioni dell’appellante.

Sono stati poi depositati "motivi aggiunti" con allegata dichiarazione di revoca della costituzione di parte civile in conseguenza di avvenuta transazione: con detti motivi si sollecita, nel caso di mancato accoglimento dei motivi principali del ricorso, l’annullamento dell’impugnata sentenza con rinvio ad altra sezione della Corte d’Appello di Milano per la rivalutazione del trattamento sanzionatorio in considerazione dell’intervenuto risarcimento del danno.
Motivi della decisione

Il ricorso deve essere dichiarato inammissibile per le ragioni di seguito indicate.

Preliminarmente va rilevata la inammissibilità della doglianza relativa al trattamento sanzionatorio dedotta con i motivi nuovi, trattandosi di censura concernente questione rimasta assolutamente estranea ai motivi del ricorso: di tal che deve trovare applicazione il consolidato e condivisibile principio enunciato da questa Corte secondo cui "i motivi nuovi proposti a sostegno dell’impugnazione devono avere ad oggetto, a pena di inammissibilità, i capi o i punti della decisione impugnata che sono stati enunciati nell’originario atto di gravame, ai sensi dell’art. 581 c.p.p., comma 1, lett. a)," ("ex plurimis", Sez. 6^, n. 27325 del 20/05/2008 Ud. – dep. 04/07/2008 – Rv. 240367; conf. Sez. 1^, n. 40174 del 01/10/2009 Ud. – dep. 16/10/2009, Rv. 245351 – con la quale è stato ulteriormente precisato che "sono inammissibili i motivi nuovi aventi ad oggetto il trattamento sanzionatorio se l’impugnazione della sentenza abbia ad oggetto esclusivamente il punto relativo alla responsabilità").

Passando ad esaminare le doglianze oggetto del ricorso, osserva il Collegio che il G. ha riproposto le tesi difensive già sostenute in sede di merito e disattese dal Tribunale prima e dalla Corte d’appello poi. Al riguardo giova ricordare che nella giurisprudenza di questa Corte è stato enunciato, e più volte ribadito, il condivisibile principio di diritto secondo cui "è inammissibile il ricorso per cassazione fondato su motivi che ripropongono le stesse ragioni già discusse e ritenute infondate dal giudice del gravame, dovendosi gli stessi considerare non specifici.

La mancanza di specificità del motivo, invero, dev’essere apprezzata non solo per la sua genericità, come indeterminatezza, ma anche per la mancanza di correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’impugnazione, questa non potendo ignorare le esplicitazioni del giudice censurato senza cadere nel vizio di aspecificità conducente, a mente dell’art. 591, comma 1, lett. c), all’inammissibilità" (in termini, Sez. 4^, n. 5191 del 29/03/2000 Ud. – dep. 03/05/2000 – Rv. 216473; CONF: Sez. 5^, n. 11933 del 27/01/2005, dep. 25/03/2005, Rv. 231708). E va altresì evidenziato che il primo giudice aveva affrontato e risolto le questioni sollevate dalla difesa seguendo un percorso motivazionale caratterizzato da completezza argomentativa e dalla puntualità dei riferimenti agli elementi probatori acquisiti e rilevanti ai fini dell’esame della posizione del G.; di tal che, trattandosi di conferma della sentenza di primo grado, i giudici di seconda istanza, a fondamento del convincimento espresso, legittimamente hanno richiamato anche la motivazione addotta dal Tribunale, senza peraltro mancare di ricordare i passaggi più significativi dell’iter argomentativo seguito dal primo giudice e di fornire autonome valutazioni a fronte delle deduzioni dell’appellante: è principio pacifico in giurisprudenza quello secondo cui, nel caso di doppia conforme, le motivazioni della sentenza di primo grado e di appello, fondendosi, si integrano a vicenda, confluendo in un risultato organico ed inscindibile al quale occorre in ogni caso fare riferimento per giudicare della congruità della motivazione ("ex plurimis", Sez. 3^, n. 4700 del 14/02/1994 Ud.

– dep. 23/04/1994 – Rv. 197497).

Nella concreta fattispecie la decisione impugnata si presenta dunque formalmente e sostanzialmente legittima ed i suoi contenuti motivazionali – quali sopra riportati (nella parte relativa allo "svolgimento del processo") e da intendersi qui integralmente richiamati onde evitare superflue ripetizioni – forniscono, con argomentazioni basate su una corretta utilizzazione e valutazione delle risultanze probatorie, esauriente e persuasiva risposta ai quesiti concernenti l’infortunio oggetto del processo: la Corte distrettuale, dopo aver analizzato tutti gli aspetti della vicenda (dinamica dell’infortunio, posizione di garanzia del G., nesso di causalità tra la condotta contestata e l’evento, comportamento della parte lesa) ha spiegato le ragioni per le quali ha ritenuto sussistente la penale responsabilità dell’odierno ricorrente.

I profili di violazione di legge e vizio di motivazione prospettati dal ricorrente, non sono pertanto riscontrabili nella sentenza impugnata, con la quale la Corte territoriale ha dimostrato, come detto, di aver analizzato ogni aspetto essenziale della vicenda, pervenendo, all’esito di un approfondito vaglio di tutta la materia del giudizio, a conclusioni sorrette da argomentazioni adeguate e logicamente concatenate. La Corte territoriale ha puntualmente ragguagliato il giudizio di fondatezza dell’accusa al compendio probatorio acquisito, a fronte del quale non possono trovare spazio le deduzioni difensive, per lo più finalizzate a sollecitare una lettura del materiale probatorio diversa da quella operata dalla Corte distrettuale, ed in quanto tale non proponibile in questa sede.

Per completezza argomentativa si impongono solo talune ulteriori precisazioni in relazione alle questioni poste dal ricorrente.

Per quel che riguarda la tesi difensiva circa l’asserita estraneità del G. all’infortunio "de quo", la decisione impugnata ha risposto a tale rilievo evincendo dagli elementi dimostrativi quelli specificamente afferenti l’effettivo ruolo del G. stesso. Ed anche per quanto concerne le doglianze relative ai profili di colpa specifica ci si trova di fronte a prospettazioni che risultano formulate in difetto di correlazione con i contenuti della decisione impugnata e si risolvono in mere critiche discorsive a quest’ultima.

Il compito del datore di lavoro è molteplice e articolato, e va dalla istruzione dei lavoratori sui rischi di determinati lavori – e dalla conseguente necessità di adottare certe misure di sicurezza – alla predisposizione di queste misure (con obbligo, quindi, ove le stesse consistano in particolari cose o strumenti, di mettere queste cose, questi strumenti, a portata di mano del lavoratore), e, soprattutto, al controllo continuo, pressante, per imporre che i lavoratori rispettino quelle norme, si adeguino alla misure in esse previste e sfuggano alla superficiale tentazione di trascurarle. Il datore di lavoro deve avere la cultura e la forma mentis del garante del bene costituzionalmente rilevante costituito dalla integrità del lavoratore, e non deve perciò limitarsi ad informare i lavoratori sulle norme antinfortunistiche previste, ma deve attivarsi e controllare sino alla pedanteria, che tali norme siano assimilate dai lavoratori nella ordinaria prassi di lavoro (cfr, Sez. 4^, 3 marzo 1995, Grassi). Sul punto ebbero modo di intervenire anche le Sezioni Unite di questa Corte (Sez. Un, n. 6168 del 21/05/1988 Ud. – dep. 21/04/1989 – Rv. 181121) enunciando il principio secondo cui "al fine di escludere la responsabilità per reati colposi dei soggetti obbligati del D.P.R. 27 aprile 1955, n. 547, ex art. 4, a garantire la sicurezza dello svolgimento del lavoro, non è sufficiente che tali soggetti impartiscano le direttive da seguire a tale scopo, ma è necessario che ne controllino con prudente e continua diligenza la puntuale osservanza" (conf. Sez. 4^, 25.9.1995, Morganti, secondo cui le norme antinfortunistiche impongono al datore di lavoro una continua sorveglianza dei lavoratori allo scopo di prevenire gli infortuni e di evitare che si verifichino imprudenze da parte dei lavoratori dipendenti). Nè, con riferimento alla concreta fattispecie, rileva la presenza di eventuali altri soggetti gravati da obbligo di garanzia: in proposito, è sufficiente sottolineare che, per come insindacabilmente accertato dai giudici del merito in punto di fatto, fu proprio il G. a dare personalmente all’operaio, poi infortunatosi, l’ordine di installare il falso telaio utilizzando il "trabattello", di proprietà del G. medesimo, assolutamente inadeguato, quanto alle misure di sicurezza, per il lavoro che l’operaio era stato chiamato a svolgere. La mancanza di una idonea protezione, addebitabile per quanto detto al G., ha reso possibile il verificarsi dell’incidente e ciò è sufficiente ad integrare il nesso di causalità essendo assolutamente pacifica la giurisprudenza di questa Corte secondo cui la eventuale imprudenza del lavoratore non elide il nesso di causalità allorchè l’incidente si verifichi a causa del lavoro svolto e per l’inadeguatezza delle misure di prevenzione. La prospettazione di una causa di esenzione da colpa che si richiami alla condotta imprudente del lavoratore, non rileva allorchè chi la invoca versa in re illicita, per non avere negligentemente impedito l’evento lesivo.

Tanto meno la causa esimente è invocabile, se la si pone, come nel caso di specie, alla base del proprio errore di valutazione, assumendo che il sinistro si è verificato non perchè si sia tenuto un comportamento antigiuridico, ma sol perchè vi sarebbe stata, da parte del lavoratore infortunatosi, una condotta anomala ed inopinata: chi è responsabile della sicurezza del lavoro deve avere sensibilità tale da rendersi interprete, in via di prevedibilità, del comportamento altrui. In altri termini, l’errore sulla legittima aspettativa che non si verifichino condotte imprudenti da parte dei lavoratori non è invocabile, non solo per la illiceità della propria condotta omissiva, ma anche per la mancata attività diretta ad evitare l’evento, imputabile a colpa altrui, quando si è, come nel caso "de quo", nella possibilità in concreto di impedirlo. E’ il cosiddetto "doppio aspetto della colpa", secondo cui si risponde sia per colpa diretta sia per colpa indiretta, una volta che l’incidente dipende dal comportamento dell’agente, che invoca a sua discriminante la responsabilità altrui.

E’ da osservare, peraltro, che la normativa antinfortunistica mira a salvaguardare l’incolumità del lavoratore non solo dai rischi derivanti da incidenti o fatalità, ma anche da quelli che possono scaturire dalla sue stesse disattenzioni, imprudenze o disubbidienze alle istruzioni o prassi raccomandate, purchè connesse allo svolgimento dell’attività lavorativa. E’ pur vero che destinatari delle norme di prevenzione contro gli infortuni sul lavoro sono non solo i datori di lavoro, i dirigenti e i preposti, ma anche gli stessi operai; tuttavia, l’inosservanza di dette norme da parte dei datori di lavoro, dei dirigenti e dei preposti ha valore assorbente rispetto al comportamento dell’operaio, la cui condotta può assumere rilevanza ai fini penalistici solo dopo che da parte dei soggetti obbligati siano adempiute le prescrizioni di loro competenza. Nella concreta fattispecie, giova ricordarlo, rilievo assoluto e tranciante, ai fini della sussistenza della penale responsabilità del G., assume la circostanza che fu proprio quest’ultimo ad impartire al R. le disposizioni per la collocazione del falso telaio, ben consapevole che a tal fine il lavoratore avrebbe dovuto utilizzare quel "trabattello" assolutamente inadeguato, sotto il profilo delle misure di protezione, per l’attività lavorativa da svolgere: il che, in aggiunta alle considerazioni in punto di diritto sopra svolte, rende manifestamente infondate le dedotte doglianze.

Per quel che riguarda poi la valenza probatoria riconosciuta dai giudici di merito alle dichiarazioni della parte lesa, è bene ricordare che, secondo il consolidato, e condivisibile, indirizzo interpretativo affermatosi nella giurisprudenza di questa Corte, a base del libero convincimento del giudice possono essere poste le dichiarazioni della parte offesa e quelle di un testimone legato da stretti vincoli di parentela con la medesima, con la conseguenza che la deposizione della persona offesa dal reato, pur se non può essere equiparata a quella del testimone estraneo, può tuttavia essere assunta anche da sola come fonte di prova, ove sia sottoposta a un attento controllo di credibilità oggettiva e soggettiva e non richiede necessariamente neppure riscontri esterni, quando non sussistano situazioni che inducano a dubitare della sua attendibilità ("ex plurimis", Sez. 3^, n. 22848 del 27/03/2003 Ud. – dep. 23/05/2003 – Rv. 225232, Assenza). Orbene: nel caso in esame non può assolutamente dirsi che questo controllo sia mancato e va, piuttosto, sottolineato che il complesso motivazionale di merito ha svolto un percorso argomentativo del tutto condivisibile, non affetto da vizi di illogicità; il complesso motivazionale di merito ha debitamente ancorato l’attendibilità intrinseca della persona offesa agli elementi di fatto desumibili dall’analisi del caso: a partire dalla questione della muratura delle zanche del falso telaio, che doveva necessariamente essere effettuata dal lato interno della struttura; a continuare con il tema delle tracce di un impronta di mano, riferibile all’infortunato, sulla parete anteriore del vetro della bussola d’ingresso al centro sportivo, ad un’altezza di circa 3 metri da terra, impronta evidentemente lasciata nel corso della caduta; a continuare, ancora, con la testimonianza dei componenti dell’equipaggio del 118, P. e C.; per finire con le dichiarazioni fornite da quel tale X., che aveva visto il R. lavorare, e che appaiono del tutto coerenti alle dichiarazioni del medesimo R.. Dunque, la voce della persona offesa è stata suffragata da una pluralità di riscontri concreti confermativi dell’ontologia del fatto, oltre che dagli esiti della prova logica.

Identiche considerazioni valgono per le dichiarazioni dello S.. Innanzi tutto giova sottolineare che anche in proposito il ricorrente si è limitato ad una serie di doglianze a carattere del tutto generico, lamentando "… la preferenza accordata alle dichiarazioni dibattimentali dello S. rispetto a quelle rese in sede di prima indagine"; peraltro, a fronte di simili vaghe censure, vi è l’articolato complesso motivazionale che ha analiticamente esaminato il complesso della prova rappresentativa promanante dallo S. e ne ha individuato la chiara valenza ai fini del decidere.

Alla declaratoria di inammissibilità segue, per legge, la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonchè (trattandosi di causa di inammissibilità riconducibile alla volontà, e quindi a colpa, dei ricorrenti: cfr. Corte Costituzionale, sent. N. 186 del 7 – 13 giugno 2000) al versamento a favore della cassa delle ammende di una somma che si ritiene equo e congruo determinare in Euro mille.
P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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