Cass. civ. Sez. II, Sent., 08-03-2011, n. 5426 Reintegrazione o spoglio

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

C.P., proprietario di un fondo in agro di (OMISSIS), chiese ed ottenne dal Pretore di Lucera che il proprio confinante T.A. sospendesse i lavori di erezione di un porticato in cemento armato in aderenza a preesistente costruzione dello stesso resistente – in quanto non rispettosa delle distanze legali dal confine di proprietà – e che lo reintegrasse nel possesso, ripristinando lo stato dei luoghi e facendo cessare ogni turbativa e molestia al proprio possesso. Nel successivo giudizio di merito innanzi al Tribunale di Lucera, in cui il C. aveva riproposto le medesime ragioni del giudizio interdittale, il T. si costituì assumendo che il proprio fabbricato e l’annesso porticato, erano stati eretti nel 1963 pur se in lamiera metallica con pali in ferro infissi stabilmente al terreno con una colata di cemento e che, essendo stata la parte accessoria solo sostituita, senza mutamento di sagoma o dimensioni, dal manufatto il cui completamento gli era stato inibito dal provvedimento del Pretore, non vi sarebbe stato alcuno spoglio o turbativa di pregressa situazione di possesso del vicino. Eccepì la prescrizione estintiva dell’intrapresa azione per decorso ultraventennale del termine e, in via riconvenzionale subordinata, chiese che fosse accertato e dichiarato che aveva acquistato per usucapione il diritto di mantenere la nuova costruzione a distanza inferiore a quella stabilita dalle norme urbanistiche locali.

Il Tribunale adito accolse la domanda del C., ordinando al T. di ripristinare lo stato dei luoghi nel rispetto delle distanze legali stabilite dal confine previste dal Piano Regolatore Generale e dal Regolamento Edilizio del Comune di Carlantino nonchè di reintegrare il possesso in favore dell’attore, demandando a separato giudizio la liquidazione dei danni chiesti dal C..

La Corre di Appello di Bari pronunziando sentenza n. 671/2004 respinse l’appello del T., osservando: che le facoltà inerenti all’esercizio del diritto di proprietà – ira le quali rientrava quella di esigere il rispetto delle distanze legali- sarebbero state imprescrittibili; che il T. non aveva dimostrato di aver posseduto lo stato dei luoghi per il periodo di tempo utile a far maturare l’usucapione; che il porticato in lamiera preesistente era risultato, per forma e disposizione, del tutto differente dalla costruzione in cemento armato; che la CTU espletata aveva dimostrato che non erano state rispettate le distanze minime del fabbricato dai confini.

Contro tale decisione ha proposto ricorso il T. sulla base di due motivi, cui ha resistito il C. con controricorso, con cui ha anche chiesto la condanna dell’avversario à sensi dell’art. 96 c.p.c..
Motivi della decisione

1 – Il ricorrente, con il primo motivo, fa valere la "violazione e falsa applicazione dell’art. 2934 c.c. nonchè degli artt. 1171 e 1168 c.c." contrastando l’affermazione del Tribunale della non identità del precedente manufatto con la erigenda costruzione in cemento armato, da ciò riproducendo la tesi del preuso; ha altresì puntualizzato che, quanto meno, sarebbe stato prescritto il diritto al risarcimento del danno, accertato – in relazione all’an debeatur – nella gravata decisione.

2 – Il motivo sopradescritto è inammissibile per quanto concerne la non argomentata contestazione del travisamento del fatto in cui sarebbe incorso il giudice dell’appello che, comunque, in base alla mera prospettazione, avrebbe dovuto formare oggetto della diversa impugnazione per revocazione – ed è infondato – non potendo la Corte delibare l’eccepita inammissibilità del motivo a causa della dedotta "novità" contenuta nel controricorso, in mancanza di testuale allegazioni a sostegno- quanto alla condanna generica, atteso che la lesione del diritto domenicale si è perpetuata in diem – per lo meno fino all’inizio della fase interdittale e con effetti interruttivi permanenti sino alla decisione sul mento risarcitorio.

3 – Lamenta altresì il T., con il secondo motivo la "omessa, insufficiente, e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, non avendo rilevato la Corte distrettuale l’insanabile incongruenza logica delle norme di piano regolatore che, da un lato stabilivano in dieci metri la distanza minima tra costruzioni e dall’altro imponevano il rispetto di venti metri dei manufatti dai confini:

stante l’esiguità del lotto del ricorrente, in nessun caso si sarebbe potuto costruire perchè comunque non si sarebbe potuto rispettare il distacco maggiore.

3/a – Il motivo non è fondato in quanto, se pure la Corte territoriale non ha dato puntuale risposta al motivo di appello – limitandosi a statuire che dalla CTU risultava il mancato rispetto della distanza di venti metri – tuttavia la statuizione di rigetto della domanda va mantenuta ferma à sensi dell’art. 384 c.p.c., atteso che non sussiste la denunziata, evidente antinomia tra le due prescrizioni urbanistiche, dal momento che la dedotta inapplicabilità della prescrizione urbanistica deve essere valutata in astratto – prescindendo dunque dalla superficie del singolo lotto – e che nell’interpretazione del testo normativo deve applicarsi sia il principio della ratio legislatoris sia quello, più generale, che impone di ricercare il canone ermeneutico che consenta di conservare effetto alla disposizione: posto ciò appare alla Corte chiaro il senso delle due prescrizioni, imponendo che nella zona agricola, in cui l’attività edilizia è subordinata alla necessità del fondo e non è permessa una edificazione intensiva, le costruzioni debbono essere tra loro – e quindi nello stesso lotto – distanti per lo meno 10 metri e altresì debbano rispettare 20 metri di distacco dal confine: se ciò non sia possibile nella concreta, fattispecie non può tacciarsi di irragionevolezza – per chiederne la parziale disapplicazione – la relativa previsione di piano regolatore sol perchè determinerebbe l’inedificabilità – salvo il preuso, come nella fattispecie verificatosi per l’edificio principale – su lotti di minima estensione.

4 – La terza articolazione del ricorso titolata "ulteriore motivo di doglianza in appello" non costituisce motivo delibabile dalla Corte in quanto si concretizza nella ripetizione – a mò di narrativa di fatto – di un motivo di gravame disatteso dalla Corte territoriale.

5 – Parte resistente ha chiesto che il T., stante la pretestuosità del ricorso, venga condannato al risarcimento del danno per responsabilità processuale aggravata: la richiesta, pur se ammissibile anche in sede di legittimità (cfr. Cass. 24.645/2007) è infondata in quanto la Corte ritiene di dar seguito all’indirizzo interpretativo per il quale il carattere temerario della lite, presupposto della condanna al risarcimento dei danni, va ravvisato nella coscienza della infondatezza della domanda e delle tesi sostenute, ovvero nel difetto della normale diligenza per l’acquisizione di detta consapevolezza, non già nella mera opinabilità del diritto fatto valere (cfr. Cass. 14.583/2003; Cass. 10731/2001; Cass. 9579/2000 n. 9579): nella fattispecie non si rinviene il primo dei succitati presupposti e comunque non sono motivate le conseguenze negative patrimoniali – diverse da quelle emendabili attraverso la condanna al pagamento delle spese di lite – che da esso discenderebbero.

6 – Le spese seguono la soccombenza complessiva e vanno liquidate come da dispositivo.
P.Q.M.

LA CORTE Respinge il ricorso nonchè la domanda di risarcimento del danno ex art. 96 c.p.c., comma 1, contenuta nel controricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che, liquida in Euro 2.200,00 di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre I.V.A., C.P.A. e spese generali come per legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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