Cass. pen. Sez. IV, Sent., (ud. 27-01-2011) 04-02-2011, n. 4383 Riparazione per ingiusta detenzione

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

L’Avvocatura distrettuale dello Stato di Bari ricorre avverso l’ordinanza di cui in epigrafe con cui la Corte di appello di Bari ha accolto l’istanza ex art. 314 c.p.p. presentata da U.A. per l’ingiusta detenzione subita dal 20 maggio al 9 giugno 1993 (di cui 2 giorni in custodia cautelare in carcere) e, per l’effetto, le ha liquidato la somma di Euro 8.500,00 di cui 5.000,00, a titolo di ristoro della sofferenza morale patita per la suddetta privazione della libertà personale.

Il ricorso censura, sub specie della carenza, irragionevolezza ed illogicità della motivazione, sia il riconoscimento del diritto sia la determinazione del quantum.

Sotto il primo profilo, si sostiene che il giudice della riparazione aveva posto a fondamento del suo giudizio l’accertamento dei fatti quale era il risultato ex post dall’istruzione probatoria dibattimentale invece di valutare autonomamente la condotta posta in essere dall’istante anteriormente o contestualmente all’applicazione della misura cautelare ai fini del diverso giudizio imposto dall’art. 314 c.p.p. (in particolare il riferimento è alle condotte della U., poste a fondamento dell’ordinanza cautelare, la quale in due occasioni si era resa disponibile a trasportare o prelevare la sostanza stupefacente detenuta dal sodalizio criminale al quale prima facie sembrò appartenere la ricorrente).

Quanto alla determinazione del quantum della avvenuta liquidazione:si censura che dopo essere stata riconosciuta la somma di Euro 3.500,00, conseguente all’avere sofferto un periodo di detenzione domiciliare di 17 giorni (determinata mediante il criterio aritmetico in ragione di 235 Euro al giorno per la custodia cautelare in carcere, dimezzata per i giorni di custodia domiciliare), era stata aggiunta l’ulteriore somma di Euro 5.000, 00 a ristoro dei pregiudizi subiti, senza che, secondo l’Amministrazione a ricorrente, fosse stata articolata in proposito alcuna prova da parte dell’istante e senza che, comunque, sul punto, la Corte avesse fornito adeguata e satisfattiva motivazione, essendosi limitata a espressioni generiche e non dimostrative del diritto all’indennizzo ("..a detto importo deve essere aggiunto quello per il ristoro della sofferenza morale patita per la suddetta privazione della libertà personale").

Il ricorso è fondato con riferimento ad entrambi i profili.

Quanto all’an debeatur, secondo i principi elaborati ed affermati nell’ambito della giurisprudenza di questa Suprema Corte (a partire dalla fondamentale sentenza delle Sezioni unite, 13 dicembre 1995, Sarnataro), in tema di riparazione per l’ingiusta detenzione, il giudice di merito, per valutare se chi l’ha patita vi abbia dato o concorso a darvi causa con dolo o colpa grave (quest’ultima è l’ipotesi che qui interessa), deve apprezzare, in modo autonomo e completo, tutti gli elementi probatori disponibili, con particolare riferimento alla sussistenza di condotte che rivelino eclatante o macroscopica negligenza, imprudenza o violazione di leggi o regolamenti, fornendo del convincimento conseguito una motivazione che, se adeguata e congrua, è incensurabile in sede di legittimità.

Al riguardo, il giudice deve fondare la sua deliberazione su fatti concreti e precisi, esaminando la condotta tenuta dal richiedente sia prima che dopo la perdita della libertà personale, al fine di stabilire, con valutazione ex ante (e secondo un iter logico- motivazionale del tutto autonomo rispetto a quello seguito nel processo di merito), non se tale condotta integri estremi di reato, ma solo se sia stata il presupposto che abbia ingenerato, ancorchè in presenza di errore dell’autorità procedente, la falsa apparenza della sua configurabilità come illecito penale, dando luogo alla detenzione con rapporto di "causa ad effetto" (di recente, ex pluribus, Sezione 4, 3 giugno 2010, Davoli rv. 248074).

In una tale prospettiva, secondo un assunto interpretativo anch’esso pacifico nella giurisprudenza di legittimità, la nozione di "colpa grave" di cui all’art. 314 c.p.p., comma 1, ostativa del diritto alla riparazione dell’ingiusta detenzione, va individuato in quella condotta che, pur tesa ad altri risultati, ponga in essere, per evidente, macroscopica negligenza, imprudenza, trascuratezza, inosservanza di leggi, regolamenti o norme disciplinari, una situazione tale da costituire una non voluta, ma prevedibile ragione di intervento dell’autorità giudiziaria, che si sostami nell’adozione o nel mantenimento di un provvedimento restrittivo della libertà personale. A tal riguardo, la colpa grave può concretarsi in comportamenti sia processuali sia di tipo extraprocessuale, come la grave leggerezza o la macroscopica trascuratezza, tenuti sia anteriormente che successivamente al momento restrittivo della libertà personale; onde, l’applicazione della suddetta disciplina normativa non può non imporre l’analisi dei comportamenti tenuti dall’interessato, anche prima dell’inizio dell’attività investigativa e della relativa conoscenza, indipendentemente dalla circostanza che tali comportamenti non integrino reato (anzi, questo è il presupposto, scontato, dell’intervento del giudice della riparazione) (cfr., ancora, Sezione 4, 3 giugno 2010, Davoli rv. 248074).

Alla luce dei richiamati principi, risulta evidente il vizio in cui è incorso nella fattispecie in esame il giudice della riparazione omettendo di compiere la disamina del provvedimento con cui venne disposta la misura cautelare a carico dell’istante allo scopo di verificare se tale provvedimento fu adottato o meno per effetto anche di quei comportamenti evidenziati nell’ordinanza impugnata, dei quali è stata esclusa la rilevanza colposa, alla luce degli accertamenti compiuti in sede dibattimentale.

Quanto alla determinazione del quantum, è noto che, in tema di liquidazione dell’indennizzo previsto a titolo di riparazione per l’ingiusta detenzione (artt. 314 e seg. c.p.p.), il canone base per la liquidazione è costituito dal rapporto tra la somma massima posta a disposizione dal legislatore (Euro 516.456,90), il termine di durata massima della custodia cautelare (di cui all’art. 303 c.p.p., comma 4, espresso in giorni) e la durata dell’ingiusta detenzione patita nel caso concreto. Tale criterio aritmetico di calcolo, rispetto al quale, in particolare, la somma che ne deriva (Euro 235,82, per ciascun giorno di detenzione in carcere) può essere ragionevolmente dimezzata (Euro 117,91) nel caso di detenzione domiciliare, attesa la sua minore afflittività, costituisce, però, solo una base utile per sottrarre la determinazione dell’indennizzo ad un’eccessiva discrezionalità del giudice e garantire in modo razionale una uniformità di giudizio. Il parametro aritmetico indicato, pertanto, costituisce uno standard che fa riferimento all’indennizzo in un’astratta situazione in cui i diversi fattori di danno derivanti dall’ingiusta detenzione si siano concretizzati in modo medio ed ordinario; con la conseguenza che tale parametro può subire variazioni verso l’alto o verso il basso in ragione di specifiche contingenze proprie del caso concreto. In ogni caso, al giudice è chiesta una valutazione che pur equitativa, non può mai essere arbitraria, onde egli è tenuto ad offrire una adeguata motivazione che dia conto, alla luce del materiale probatorio acquisito, delle ragioni per le quali si è distaccato dai parametri standard, con l’unico limite che il frutto della sia determinazione non può condurre allo sfondamento del tetto, normativamente fissato, dell’entità massima della liquidazione (cfr., di recente, Sezione 4, 16 luglio 2009, Ministero dell’economia in proc. Morelli).

Nella specie, proprio l’apprezzamento della motivazione, sopra riportata per quanto di interesse, che ha consentito di attribuire l’ulteriore somma di Euro 5.000,00 in misura sensibilmente superiore a quella standard, ne evidenzia l’assoluta carenza dimostrativa e l’illogicità, facendosi ivi riferimento, ma senza adeguata spiegazione e senza alcun riferimento a fatti concreti, a voci di pregiudizio ulteriori prive di alcun riscontro fattuale, ritualmente introdotto nel procedimento.

La Corte dovrà meglio approfondire la questione della liquidazione, in ossequio al suddetto principio.

L’ordinanza va, pertanto, annullata con rinvio al giudice competente, che si atterrà ai principi sopra indicati.
P.Q.M.

Annulla l’ordinanza impugnata con rinvio alla Corte di Appello di Bari cui demanda anche il regolamento spese fra le parti per questo giudizio.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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