Cass. civ. Sez. V, Sent., 09-03-2011, n. 5585 Imposta di successione

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza n. 31 del 14/3/2005 la Commissione Tributaria Regionale dell’Emilia Romagna accoglieva il gravame interposto dall’Agenzia delle entrate Bologna (OMISSIS) nei confronti della a pronunzia della Commissione Tributaria Provinciale di Bologna di accoglimento dell’impugnazione del silenzio rifiuto formatosi sull’istanza di rimborso della maggior imposta di successione calcolata sulla denuncia presentata il 7/7/1983 e rettificata con istanza prodotta il 7/7/1988, proposta dalle sigg.re F., G. e T. M., eredi del sig. Ta.Fe..

Avverso la suindicata decisione del giudice dell’appello le sigg.re F., G. e T.M. propongono ora ricorso per cassazione affidato a 3 motivi, illustrati da memoria.

Resistono con controricorso il Ministero dell’economia e delle finanze e l’Agenzia delle entrate.
Motivi della decisione

Va preliminarmente dichiarata l’inammissibilità del ricorso proposto nei confronti Ministero dell’Economia e delle Finanze, non essendo stato quest’ultimo – cui è succeduta l’Agenzia delle entrate a far data dal 1.1.2001 – parte nel giudizio d’appello, introdotto con atto d’impugnazione depositato il 27/2/2002 dall’Agenzia delle entrate Bologna (OMISSIS), unica legittimata pertanto in questo giudizio di cassazione (cfr. Cass., 3/11/2010, n. 22319; Cass., 21/7/2010, n. 17079; Cass., 25/2/2009, n. 4500).

Con il 1 motivo le ricorrenti denunziano violazione della L. n. 880 del 1986, art. 8, della L. n. 154 del 1988, art. 12, comma 3 ter, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Si dolgono che il giudice dell’appello abbia erroneamente negato, diversamente dal giudice di prime cure, l’applicabilità nel caso delle norme di cui alla L. n. 880 del 1986, art. 8, L. n. 154 del 1988, art. 12, comma 3 ter.

Con il 2 motivo denunziano falsa applicazione della L. n. 880 del 1986, art. 8, della L. n. 154 del 1988, art. 12, comma 3 ter, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Si dolgono che nell’impugnata sentenza si sia erroneamente ritenuto che la facoltà di rettificare il valore imponibile dichiarato nella denuncia di successione è consentita solo in ipotesi di errori materiali e di calcolo, altresì nel termine di 6 mesi dalla data di apertura della successione.

Con il 3 motivo denunziano contraddittoria motivazione su punto decisivo della controversia, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Lamentano che l’impugnata sentenza è affetta da manifesta illogicità "fra la premessa logico-giuridica della motivazione, che riconosce le leggi, ed il dispositivo, che le disconosce".

I motivi, che possono congiuntamente esaminarsi in quanto connessi, sono in parte inammissibili e in parte infondati.

Come questa Corte ha già avuto più volte modo di affermare, i motivi posti a fondamento dell’invocata cassazione della decisione impugnata debbono avere i caratteri della specificità, della completezza, e della riferibilità alla decisione stessa, con – fra l’altro – l’esposizione di argomentazioni intelligibili ed esaurienti ad illustrazione delle dedotte violazioni di norme o principi di diritto, essendo inammissibile il motivo nel quale non venga precisato in qual modo e sotto quale profilo (se per contrasto con la norma indicata, o con l’interpretazione della stessa fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina) abbia avuto luogo la violazione nella quale si assume essere incorsa la pronuncia di merito.

Sebbene l’esposizione sommaria dei fatti di causa non deve necessariamente costituire una premessa a sè stante ed autonoma rispetto ai motivi di impugnazione, è tuttavia indispensabile, per soddisfare la prescrizione di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4, che il ricorso, almeno nella parte destinata alla esposizione dei motivi, offra, sia pure in modo sommario, una cognizione sufficientemente chiara e completa dei fatti che hanno originato la controversia, nonchè delle vicende del processo e della posizione dei soggetti che vi hanno partecipato, in modo che tali elementi possano essere conosciuti soltanto mediante il ricorso, senza necessità di attingere ad altre fonti, ivi compresi i propri scritti difensivi del giudizio di merito, la sentenza impugnata ed il ricorso per cassazione (v. Cass., 23/7/2004, n. 13830; Cass., 17/4/2000, n. 4937; Cass., 22/5/1999, n. 4998).

E cioè indispensabile che dal solo contesto del ricorso sia possibile desumere una conoscenza del "fatto", sostanziale e processuale, sufficiente per bene intendere il significato e la portata delle critiche rivolte alla pronuncia del giudice a qua (v.

Cass., 4/6/1999, n. 5492).

Quanto al vizio di motivazione ex artt. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, va invero ribadito che esso si configura solamente quando dall’esame del ragionamento svolto dal giudice del merito, quale risulta dalla sentenza, sia riscontrabile il mancato o insufficiente esame di punti decisivi della controversia prospettati dalle parti o rilevabili d’ufficio, ovvero un insanabile contrasto tra le argomentazioni adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico giuridico posto a base della decisione (in particolare cfr.

Cass., 25/2/2004, n. 3803).

Tale vizio non consiste pertanto nella difformità dell’apprezzamento dei fatti e delle prove preteso dalla parte rispetto a quello operato dal giudice di merito (v. Cass., 14/3/2006, n. 5443; Cass., 20/10/2005, n. 20322).

La deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata con ricorso per cassazione conferisce infatti al giudice di legittimità non già il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la mera facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico – formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, cui in via esclusiva spetta il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, di dare (salvo i casi tassativamente previsti dalla legge) prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti (v. Cass., 7/3/2006, n. 4842; Cass., 27/4/2005, n. 8718).

Orbene, i suindicati principi risultano invero non osservati dalle odierne ricorrenti.

Già sotto l’assorbente profilo dell’autosufficienza, va posto in rilievo come le medesime facciano richiamo ad atti e documenti del giudizio di merito (es., la "denuncia di successione presentata al competente ufficio di Bologna", l’"avviso di liquidazione", le "rate annuali, la prima al 9 luglio 1984, l’ultima al 7 luglio 1993", il notificato "avviso di accertamento", il "ricorso 16-17 dicembre 1985 alla Commissione tributaria di 1 grado di Bologna", la "memoria integrativa del 13.12.1988", l’"istanza di rimborso",, il "ricorso alla Commissione tributaria di 1^ grado di Bologna", l’"istanza di rimborso delle somme versate in più", la sentenza della Commissione Tributaria di Bologna, l’atto di "appello") di cui lamentano la mancata o erronea valutazione, limitandosi a meramente rinviare agli atti del giudizio di merito, senza invero debitamente riprodurli nel ricorso.

A tale stregua non pongono questa Corte nella condizione di effettuare il richiesto controllo (anche in ordine alla tempestività e decisività dei denunziati vizi), da condursi sulla base delle sole deduzioni contenute nel ricorso, alle cui lacune non è possibile sopperire con indagini integrative, non avendo la Corte di legittimità accesso agli atti del giudizio di merito (v Cass., 24/3/2003, n. 3158; Cass., 25/8/2003, n. 12444; Cass., 1/2/1995, n. 1161).

Emerge dunque evidente, alla stregua di tutto quanto sopra rilevato ed esposto, come, lungi dal denunziare vizi della sentenza gravata rilevanti sotto i ricordati profili, le deduzioni delle odierne ricorrenti, oltre a risultare formulate secondo un modello difforme da quello delineato all’art. 366 c.p.c., n. 4, in realtà si risolvono nella mera rispettiva doglianza circa l’asseritamente erronea attribuzione da parte del giudice del merito agli elementi valutati di un valore ed un significato difformi dalle loro aspettative (v. Cass., 20/10/2005, n. 20322), e nell’inammissibile pretesa di una lettura dell’asserto probatorio diversa da quella nel caso operata dai giudici di merito (cfr. Cass., 18/4/2006, n. 8932).

Per tale via, infatti, lungi dal censurare la sentenza per uno dei tassativi motivi indicati nell’art. 360 c.p.c., le ricorrenti in realtà sollecitano, contra ius e cercando di superare i limiti istituzionali del giudizio di legittimità, un nuovo giudizio di merito, in contrasto con il fermo principio di questa Corte secondo cui il giudizio di legittimità non è un giudizio di merito di terzo grado nel quale possano sottoporsi alla attenzione dei giudici della Corte di Cassazione elementi di fatto già considerati dai giudici del merito, al fine di pervenire ad un diverso apprezzamento dei medesimi (cfr. Cass., 14/3/2006, n. 5443).

All’inammissibilità ed infondatezza dei motivi consegue il rigetto del ricorso.

Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.
P.Q.M.

LA CORTE dichiara inammissibile il ricorso proposto nei confronti del Ministero dell’economia e delle finanze, compensandone le spese.

Rigetta il ricorso proposto nei confronti dell’Agenzia delle entrate.

Condanna le ricorrenti al pagamento, in solido, delle spese del giudizio di cassazione, che liquida in complessivi Euro 2.200,00, di cui Euro 2.000,00 per onorari, oltre a spese generali ed accessori come per legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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