Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 18-01-2011) 04-02-2011, n. 4230 Violenza sessuale

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

R.A. veniva condannato il 24 settembre 2008 dal G.I.P. del Tribunale di Sanremo, all’esito di un giudizio abbreviato, per il reato di violenza privata in danno di B.M., così riqualificando l’originaria contestazione di violenza sessuale, per avere, in ora notturna e luogo appartato, in concorso con persona rimasta ignota, costretto la predetta a subire palpeggiamenti al seno da sopra il cappotto.

La decisione, appellata dall’imputato, veniva parzialmente riformata, con sentenza depositata il 6 luglio 2009, dalla Corte d’appello di Genova, che riqualificava il fatto riconducendolo all’originaria imputazione di violenza sessuale ritenendo, tuttavia, l’ipotesi lieve di cui al comma secondo dell’art. 609 bis c.p..

Avverso tale pronuncia il R. proponeva ricorso per Cassazione.

Con il primo motivo di ricorso denunciava la violazione dell’art. 609 bis c.p., commi 2 e 3, erronea valutazione delle prove e travisamento del fatto, in quanto la qualificazione del fatto come violenza sessuale non troverebbe riscontro negli elementi di indagine in atti e, segnatamente, nelle dichiarazioni delle persone escusse, ritenendo quindi provato che il contatto con la persona offesa, in quanto fugace ed estemporaneo, non era finalizzato ad appagare l’istinto sessuale ma a calmare, sebbene in modo brutale e minaccioso, la medesima.

Con il secondo motivo di ricorso lamentava la violazione dell’art. 597 c.p.p., comma 3 in quanto la riqualificazione del fatto operata dalla Corte territoriale si risolverebbe nella violazione del divieto di reformatio in pejus, determinando l’oggettiva inapplicabilità dell’indulto, non consentito per il reato di violenza sessuale e riconosciuto, invece, dal giudice di prime cure per quello di violenza privata.

Con il terzo motivo di ricorso rilevava la violazione dell’art. 176 c.p.p. e la manifesta illogicità, contraddittorietà o apparenza della motivazione in relazione al diniego del beneficio della non menzione della condanna nel certificato penale, espressamente richiesto nei motivi di gravame. Osservava, a tale proposito, che le argomentazioni poste a sostegno della pronuncia sul punto si ponevano in contrasto evidente con i criteri adottati per la concessione delle attenuanti generiche.

Con il quarto motivo di ricorso denunciava la violazione dell’art. 163 c.p. e art. 597 c.p.p., comma 5 perchè, pur in presenza delle condizioni di legge e senza tener conto del risarcimento del danno e delle altre ragioni che avevano indotto il giudice di prime cure ad applicare una pena detentiva lieve sostituta ai sensi della L. n. 689 del 1981, art. 53, la Corte territoriale non aveva applicato d’ufficio la sospensione condizionale della pena omettendo di indicarne le ragioni.

Insisteva, pertanto, per l’annullamento della sentenza impugnata.
Motivi della decisione

Il ricorso è inammissibile perchè basato su motivi manifestamente infondati.

Occorre rilevare, in primo luogo, come non sussista la lamentata violazione dell’art. 609 bis c.p., avendo la Corte d’appello correttamente proceduto alla riqualificazione del fatto attribuito all’imputato come violenza sessuale.

La Corte illustra nel dettaglio le condivisibili ragioni per le quali il palpeggiamento del seno delle persona offesa, effettuato con le modalità individuate alla luce del complessivo impianto probatorio, sia riconducibile alla fattispecie astratta dell’art. 609 bis e non anche a quella di violenza privata in quanto qualificabile inequivocabilmente come gesto invasivo dell’altrui sfera sessuale.

Del resto, questa Sezione ha avuto già modo di precisare come sia del tutto irrilevante, quando sia sussistente la coscienza e volontà di compiere un atto invasivo e lesivo della libertà sessuale della persona non consenziente, l’eventuale fine ulteriore, sia esso di concupiscenza, ludico o d’umiliazione, propostosi dal soggetto agente (Sez. 3, n. 39718, 12 ottobre 2009; Sez. 3, n. 21336,4 giugno 2010).

E’ del tutto evidente che la sussistenza del dolo generico possa ritenersi ampiamente dimostrata allorquando l’azione del palpeggiamento, peraltro descritto come ripetuto dalla persona offesa, si svolga in un contesto quale quello preso in esame nell’impugnata decisione, caratterizzato dal pedinare senza motivo la vittima, richiamarne l’attenzione riferendosi al suo aspetto fisico ("bionda vieni qua") e rivolgendole un epiteto ingiurioso ("troia") sinonimo di prostituta.

Altrettanto infondata è la questione relativa alla presunta violazione, da parte del giudice dell’appello, del divieto di reformatio in pejus.

Come già si è avuto modo di affermare, infatti, tale divieto ha, come finalità, quella di impedire, in mancanza di appello del Pubblico Ministero, un trattamento sanzionatorio deteriore rispetto a quello applicato dal giudice a quo e non anche ad attribuire all’imputato un trattamento più favorevole, sotto ogni aspetto, rispetto a quello derivante dal precedente grado di giudizio.

Da tale assunto si è ricavato l’ulteriore principio, che questo Collegio condivide, che non confligge con il divieto di reformatio in pejus l’esclusione, da parte del giudice, dell’applicazione di una causa estintiva del reato non consentita dalla nuova, più grave definizione giuridica effettuata in applicazione dell’art. 597 c.p.p., in quanto tale disposizione ha lo scopo di permettere al giudice d’appello di rimediare ad una eventuale errata qualificazione giuridica del fatto operata dal primo giudice salvaguardando, così, la corretta applicazione della legge penale. Gli eventuali effetti negativi derivanti da tale riqualificazione altro non sono se non una conseguenza necessaria ed inevitabile dell’esercizio di tale facoltà, derivante dalla preminenza attribuita dal legislatore alla necessità di assicurare una pronuncia conforme a diritto (v. Sez. 6, n.4075, 2 aprile 1998; Sez. 3, 28815,11 luglio 2008).

Resta da osservare che, nella fattispecie, non si tratta di un beneficio applicabile in astratto, avendo il primo giudice applicato già l’indulto alla pena irrogata dopo la derubricazione del reato originariamente contestato.

L’indulto, pertanto, pur essendo oggettivamente inapplicabile al reato diversamente qualificato per espressa previsione di legge ( L. 31 luglio 2006, n. 241, art. 1, comma 2, n. 20) risulta, come si è detto, già applicato.

Per quanto riguarda, invece, il terzo e quarto motivo di ricorso, deve ricordarsi che questa Corte ha riconosciuto, anche recentemente, che vi è l’obbligo, per il giudice dell’appello, di dare comunque conto in motivazione dell’esercizio concreto, positivo o negativo, del potere-dovere di applicazione della sospensione condizionale della pena e della non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale.

Tale obbligo è stato rispettato nella sentenza impugnata, laddove con motivazione adeguata, coerente e priva di cadute logiche, vengono indicate le ragioni per le quali non si è ritenuto di non concedere il beneficio della non menzione espressamente richiesto.

Per quanto riguarda, invece, la sospensione condizionale, nessuna richiesta risulta effettuata nei motivi di appello.

All’inammissibilità del ricorso consegue, ex art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e di una somma in favore della Cassa delle Ammende che si stima equo determinare in Euro 1000,00.
P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della di Euro 1000,00 in favore della Cassa delle Ammende.

In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52 in quanto disposto d’ufficio.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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