Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 14-01-2011) 04-02-2011, n. 4403 Ricorso

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

D.L.C.M.B. ricorre, a mezzo del suo difensore, contro la sentenza 17 maggio 2010 della Corte di appello di Roma, la quale ha confermato la condanna 16 dicembre 2009 del Tribunale di Roma, ad anni 2 e mesi 6 di reclusione per i delitti di maltrattamenti in danno della convivente in concorso con il reato di lesioni.
Motivi della decisione

Con un primo motivo di impugnazione viene dedotta inosservanza ed erronea applicazione della legge, nonchè vizio di motivazione sotto il profilo della ritenuta sussistenza del reato di maltrattamenti, mancando nella specie la prova che gli atti di violenza, se ed in quanto sussistenti, siano stati espressione dell’abituale prevaricante supremazia sulla persona della vittima.

Esito questo di assoggettamento ed umiliazione permanente non desumibile nè dalle dichiarazioni della parte offesa nè dai suoi "confidenti": mancando quindi lo svilimento, la denigrazione e la prevaricazione difetterebbe l’azione esecutiva del ritenuto delitto, con conseguente annullamento della pronuncia di responsabilità.

Con un secondo motivo si lamenta che la valutazione delle dichiarazioni della convivente dell’imputato non sia stata rispettosa dei canoni probatori indicati dalla legge e dalla giurisprudenza, tenuto in particolare conto che i giudici di merito non hanno dato credibilità alle accuse di natura sessuale, pure formulate dalla donna negli stessi contesti d’accusa. Le critiche ora indicate sono state ribadite con memoria difensiva depositata il 16 dicembre 2010.

I primi due motivi, per la loro stretta connessione vanno congiuntamente esaminati. Entrambi peraltro non superano la soglia dell’ammissibilità.

I giudici di merito, con doppia conforme pronuncia di colpevolezza, hanno rigorosamente accertato e diffusamente argomentato:

a) sull’attendibilità intrinseca ed estrinseca della persona offesa;

b) sulla sistematicità della violenza, praticata in famiglia dal ricorrente, e sulla non occasionalità e saltuarietà degli episodi, confermati dalle risultanze documentali ed avvalorate dalle conformi dichiarazioni delle testi D. e A.;

c) sulla soggettività che connota il delitto e per la quale l’agente non deve necessariamente avere il fine di maltrattare la vittima, ma semplicemente quello, nella specie accertato, di porre in essere volontariamente una condotta "offensiva" abituale;

d) sulla compatibilità della condanna ex art. 572 c.p. rispetto all’intervenuta assoluzione per l’accusa di violenza sessuale, cui la gravata sentenza è pervenuta, non tanto per l’insussistenza radicale dei fatti riferiti, quanto invece a seguito dell’interpretazione delle affermazioni della donna che ha parlato in proposito di "comportamenti pretesi dal coniuge" nonostante il suo "non gradimento".

I motivi vanno pertanto dichiarati inammissibili.

Con un terzo motivo si prospetta violazione di legge in ordine alla determinazione della sanzione finale ottenuta in contrasto con i disposti dell’art. 438 c.p.p..

Il motivo è la mera iterazione di un corrispondente censura, formulata in appello, e per la quale esiste ineccepibile risposta della corte distrettuale, qui da ribadirsi per la sua correttezza, e non modificabile per effetto delle doglianze proposte nel ricorso in modo disancorato dalla motivazione del provvedimento impugnato.

Con un quarto motivo si evidenzia l’eccessività della pena base fissata a fronte di un capo di imputazione nel quale non è definito l’arco temporale e senza tener conto dell’incensuratezza dell’imputato, il suo comportamento collaborativo e la sua particolare situazione personale.

La critica involge profili di assoluta infondatezza ed inammissibilità.

Tali doglianze risultano infatti inammissibili nella misura in cui involgono censure di mero fatto; invero per risalente ed immutata giurisprudenza (Cass. Penale sez. V, 9074/1983, Siani) in tema di determinazione della pena (anche nei conteggi intermedi di attenuazione od aumento), la valutazione del giudice di legittimità, in ordine all’efficacia ed alla completezza degli argomenti svolti in sede di merito, non può andare scissa dal risultato decisorio sotto il duplice profilo della pena in concreto irrogata e del giudizio globalmente espresso, come manifestazione del convincimento del giudice di merito, irrilevante apparendo nella specie un preteso ed inesistente comportamento collaborativo, nè la peculiarità della riferita situazione personale dell’imputato.

All’inammissibilità del ricorso stesso consegue, ex art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e di una somma in favore della Cassa delle ammende che si stima equo determinare in Euro 1000,00 (mille).
P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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