Cass. civ. Sez. I, Sent., 10-03-2011, n. 5754 Diritti politici e civili

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. – Con decreto del 23 maggio 2008, la Corte d’Appello di Roma ha accolto la domanda di equa riparazione proposta da R.A. nei confronti del Ministero della Giustizia per la violazione del termine di ragionevole durata del processo, verificativi in un giudizio dinanzi al Tribunale di Santa Maria C.V., in funzione di giudice del lavoro, promosso dall’istante nei confronti dell’INPS. Premesso che il giudizio presupposto, iniziato nell’anno 1997 dinanzi al Pretore di Santa Maria C.V., era stato definito in primo grado dal Tribunale con sentenza del 27 aprile 2006, la Corte, per quanto ancora rileva in questa sede, ne ha determinato la durata ragionevole in due anni e mezzo, avuto riguardo alla non rilevante complessità della controversia, e, tenuto conto del modico valore della stessa, ha liquidato equitativamente il danno non patrimoniale in Euro 5.200,00, pari ad Euro 800,00 per ogni anno di ritardo, condannando inoltre il Ministero al pagamento delle spese processuali, liquidate in complessivi Euro 800,00, ivi compresi Euro 200,00 per diritti ed Euro 550,00 per onorario.

2. – Avverso il predetto decreto la R. propone ricorso per cassazione, articolato in tre motivi. Il Ministero non ha svolto difese scritte.
Motivi della decisione

1. Con il primo motivo d’impugnazione, la ricorrente denuncia l’omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, sostenendo che la Corte d’Appello, ne liquidare l’indennizzo, si è discostata dai parametri adottati dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, senza fornire alcuna motivazione, ed in particolare senza procedere alla necessaria compartizione tra le condizioni socio – economiche di essa ricorrente e la natura e l’entità della pretesa azionata nel giudizio presupposto, avente ad oggetto il pagamento degli interessi legali e della rivalutazione monetaria sull’indennità di disoccupazione agricola corrisposta dall’INPS. 1.1 – Il motivo è infondato.

Come ripetutamente affermato da questa Corte, il giudice nazionale, se da un lato non può ignorare, nella liquidazione del ristoro dovuto per la lesione del diritto alla ragionevole durata del processo, i criteri applicati dalla Corte EDU, dall’altro può apportarvi le deroghe giustificate dalle circostanze concrete della singola vicenda, purchè motivate e non irragionevoli. E’ stato tuttavia precisato che, ove non emergano elementi concreti in grado di far apprezzare la peculiare rilevanza del danno non patrimoniale, l’esigenza di garantire che la liquidazione sia satisfattiva di un danno e non indebitamente lucrativa comporta, alla stregua della più recente giurisprudenza della Corte di Strasburgo, che la quantificazione di tale pregiudizio dev’essere, di regola, non inferiore a Euro 750,00 per ogni anno di ritardo, in relazione ai primi tre anni eccedenti la durata ragionevole, e non inferiore a Euro 1.000,00 per quelli successivi, in quanto l’irragionevole durata eccedente il periodo indicato comporta un evidente aggravamento del danno (cfr. Cass., Sez. 1^, 30 luglio 2010, n. 17922; 14 ottobre 2009, n. 21840).

Tali parametri sono stati sostanzialmente rispettati dalla Corte d’Appello, la quale, tenuto conto della modesta entità della pretesa azionata nel giudizio presupposto, ha liquidato, in relazione all’accertato ritardo di sei anni e mezzo nella definizione del processo, l’importo di Euro 5.200,00, a titolo di indennizzo per il danno non patrimoniale, la cui quantificazione appare in linea, nel suo complesso, con i valori risultanti dall’applicazione dei criteri enunciati dalla Corte EDU. Indipendentemente dalla parziale difformità riscontrabile nella determinazione dell’importo unitario.

La ricorrente si duole della mancata precisazione delle ragioni che hanno indotto la Corte d’Appello a ritenere modesti gl’interessi economici coinvolti nella controversia, senza però considerare che il giudizio di comparazione tra la natura e l’entità della pretesa patrimoniale (c.d. posta in gioco) e la condizione socioeconomica del richiedente, cui il giudice di merito deve procedere per accertare l’impatto dell’irragionevole ritardo sulla psiche di quest’ultimo, al fine di giustificare l’eventuale scostamento, in senso sia. migliorativo che peggiorativo, dai parametri indennitari fissati dalla Corte EDU, deve pur sempre aver luogo sulla base delle allegazioni e delle prove fornite dalle parti (cfr. Cass.. Sez. 1^, 24 luglio 2009, n. 17404; 2 novembre 2007, n. 23048). Queste ultime, nella specie, non sono state neppure riportate nel ricorso, essendosi la ricorrente limitala ad evidenziare la propria qualità di bracciante agricola e l’oggetto del giudizio presupposto, senza neppure precisare il valore della pretesa nello stesso azionata, con la conseguenza che la censura si presenta, sotto tale profilo, priva di autosufficienza.

2. – Sono invece fondati il secondo ed il terzo motivo, con cui la ricorrente denuncia la violazione e la falsa applicazione della L. 13 giugno 1942, n. 794, art. 24 come modificata dalla L. 19 dicembre 1949. n. 957, e del D.M. 9 aprile 2004, n. 127, nonchè l’omessa e/o insufficiente motivazione del decreto impugnato, sostenendo che la Corte d’Appello, nel liquidare le spese processuali, ha determinato i diritti di avvocato in un importo globale inferiore a quello risultante dall’applicazione delle vigenti tariffe professionali, senza spiegare le ragioni per cui ha eliminato o ridotto le voci indicate nella nota specifica depositata in giudizio da essa ricorrente.

2.1. – Anche tenendo conto del minor valore della controversia, risultante dalla somma riconosciuta a titolo di indennizzo per la lesione del diritto alla ragionevole durata del processo, rispetto a quello corrispondente all’importo richiesto con il ricorso introduttivo del procedimento ed assunto come riferimento nella redazione della nota specifica depositata dinanzi alla Corte d’Appello, l’importo dei diritti di avvocato liquidato con il decreto impugnato appare infatti inferiore alla somma di quelli corrispondenti alle prestazioni indicate nella nota stessa, senza che la Corte si sia fatta carico di individuare le voci da essa ritenute non meritevoli di riconoscimento.

Tale modalità di liquidazione non è conforme all’orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità, secondo cui il giudice, in presenza d’una nota specifica prodotta dalla parte vittoriosa, non può limitarsi ad una globale determinazione dei diritti di procuratore e degli onorari di avvocato, in misura inferiore a quelli esposti, ma ha l’onere di dare adeguata motivazione dell’eliminazione e della riduzione di voci da lui operata, allo scopo di consentire, attraverso il sindacato di legittimità, l’accertamento della conformità della liquidazione a quanto risulta dagli atti ed alle tariffe, in relazione all’inderogabilità dei relativi minimi, a norma della L. n. 794 del 1942, art. 24 (cfr. Cass. Sez. 3^, 30 ottobre 2009. n. 23059; Cass. Sez. lav. 24 febbraio 2009, n. 4404).

3. – Il decreto impugnato va pertanto cassato, limitatamente alla parte concernente la liquidazione delle spese processuali, e, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 2, mediante una nuova liquidazione dei diritti di avvocato, che segue come dal dispositivo. In proposito, occorre soltanto precisare che dalla nota specifica trascritta nel ricorso vanno espunte le voci relative all’esame della documentazione prodotta dalla controparte ed alla corrispondenza informativa con il cliente, non sussistendo la prova delle relative prestazioni, mentre va ridotto alla metà, conformemente alla tariffa professionale, l’importo relativo alla richiesta delle copie del ricorso.

4. – L’oggetto dell’impugnazione, limitata alla pronuncia sulle spese processuali, giustifica la dichiarazione di parziale compensazione delle spese del giudizio di legittimità, che per il residuo vanno poste a carico del Ministero, quale parte soccombente, e si liquidano per la frazione come dal dispositivo.
P.Q.M.

LA CORTE rigetta il primo motivo di ricorso, accoglie il secondo ed il terzo, cassa il decreto impugnato nella parte relativa alla liquidazione delle spese processuali, e, decidendo nel merito, condanna il Ministero della Giustizia al pagamento delle spese del giudizio di merito, che si liquidano in complessivi Euro 978,00, ivi compresi Euro 550,00 per onorario, Euro 378,00 per diritti ed Euro 50,00 per esborsi, oltre alle spese generali ed agli accessori di legge;

condanna il Ministero della Giustizia al pagamento della metà delle spese del giudizio di legittimità, che si liquidano per la quota in complessivi Euro 350,00, ivi compresi Euro 300,00 per onorario ed Euro 50,00 per esborsi, oltre alle spese generali ed agli accessori di legge, dichiarando compensata tra le parti la residua metà.

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