Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 15-12-2010) 04-02-2011, n. 4178

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

p.1. Con sentenza del 29/10/2009, la Corte di Assise di Appello di Palermo confermava la sentenza pronunciata in data 6/06/2008 con la quale la Corte di Assise della medesima città aveva ritenuto M.N., F.I. e R.D. responsabili, in concorso con altre persone rimaste sconosciute, dell’omicidio premeditato di G.S. nonchè del porto di pistola, entrambi i reati aggravati dalla finalità mafiosa, e, per l’effetto, li aveva condannati alla pena dell’ergastolo con isolamento diurno per un anno. p.1.1. Rilevava la Corte che, dal complesso degli elementi probatori acquisiti nel corso del processo di primo grado, emergeva che: – l’omicidio di G.S. era stato eseguito dal gruppo di fuoco capeggiato da M.N. e che di tale commando avevano sicuramente fatto parte, oltre a quest’ultimo, gli altri due odierni imputati, F.I. e R.D., pur essendo certo che i tre avevano operato in concorso anche con altri membri della famiglia di Villabate;

– l’omicidio del G., pur costituendo un progetto criminoso genericamente ideato e coltivato da lungo tempo da P. F., boss di Belmonte Mezzagno, (come poteva desumersi dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia B., S., Gi. e più recentemente dalle rivelazioni di C. il quale aveva rivelato di essere stato in più occasioni destinatario di confidenze del M. in ordine a richieste fattegli affinchè si occupasse dell’omicidio del G., dopo che un precedente progetto omicidiario era stato accantonato a seguito del sopravvenuto arresto di Sc.Sa., boss di Misilmeri, che avrebbe dovuto eseguire il delitto), era stato, infine, posto in fase esecutiva a seguito di una decisione assunta nel corso di una riunione tenutasi in data 17 settembre 2004 in contrada (OMISSIS), ove era ubicato un capannone nella disponibilità di Sp.Ig., uomo di fiducia del P.; – nel corso della suddetta riunione, vertente su argomenti vari, cui avevano preso parte anche L.M.G., D.N.P. e S. I., il P. e M.N., ad un certo punto, si erano appartati ed il P. aveva introdotto "l’argomento G." di cui, peraltro, il M. mostrava di essere perfettamente a conoscenza per averlo appreso dal L.M.;

secondo la prospettazione fatta dal P. al M. nel corso del colloquio svoltosi in contrada (OMISSIS) intercettato dagli inquirenti, l’omicidio del G. era divenuto ormai necessario perchè questi, da ultimo, si era reso autore di un grave sgarbo (aveva trattato male) V.C., capo del mandamento palermitano di Santa Maria di Gesù e dava fastidio anche agli uomini d’onore di Roccella utilizzando la concessionaria Mercedes come sua base operativa;

dell’omicidio si sarebbe dovuto occupare il M., il quale però, nel corso della discussione, chiedeva ed otteneva dal suo padrino, di potere eseguire il delitto facendo leva esclusivamente sulle proprie forze, cioè avvalendosi esclusivamente di uomini di sua fiducia, senza incucchiamenti (ndr: coinvolgimenti nella esecuzione) di altri soggetti, cioè degli uomini d’onore di Santa Maria di Gesù, pur interessati alla esecuzione del delitto; delle ultime "malefatte" del G. si sarebbe dovuto informare Pr.Be., in modo tale che lo stesso non rimanesse stupito nel momento in cui gli fosse giunta notizia del delitto;

– della intervenuta deliberazione omicidiaria si sarebbe dovuto informare anche V.C., in modo tale da coinvolgerlo;

– a tal fine, quel giorno stesso ((OMISSIS)) M. N. e L.M.G. avrebbero dovuto contattare Ca.Lu., cugino ed esponente del sodalizio di Santa Maria di Gesù, per concordare un incontro con V.C.;

– sulla base dell’incrocio delle indicazioni e dei dati che potevano desumersi dalle intercettazioni ambientali e dell’attività di indagine esperita a mezzo di rilevatori satellitari (GPS), poteva darsi per provata, il giorno dell’omicidio, verificatosi a distanza di 18 giorni dalla riunione di contrada (OMISSIS), la presenza degli odierni imputati sul luogo del delitto, o nelle sue immediate adiacenze, mentre l’azione omicidiaria era in pieno svolgimento ed, in precedenza, il loro coinvolgimento anche nella fase preparatoria del delitto;

– in particolare, era stato accertato che i tre imputati, insieme, avevano partecipato, nel pomeriggio del (OMISSIS), a sopralluoghi e attività preliminari di perlustrazione dei luoghi che sarebbero stati teatro, intorno alle 20,00 di quello stesso giorno, dell’azione omicidiaria e, subito dopo, dei principali adempimenti post-delictum (fra cui quelli mirati alla dismissione dei veicoli utilizzati per l’azione, ed alla raccolta dei complici che ne avevano fatto uso);

– in particolare, i tre si erano recati a trovare presso la sua abitazione il già citato L.M.G., boss della zona in cui sarebbe stato eseguito il delitto, per concordare con lui gli ultimi dettagli dell’omicidio da compiere, non trovandolo in un primo momento ma riuscendovi qualche ora dopo;

– contestualmente al passaggio dei tre nei pressi della abitazione del L.M., l’imputato R.D. si lasciava sfuggire che aveva con sè una pistola;

– successivamente, l’attività preparatoria era proseguita con il posteggio di un’auto, da utilizzare verosimilmente solo in funzione di appoggio al commando incaricato di uccidere il G., nei pressi dell’abitazione della vittima (anche se non così vicino, come avrebbe voluto il M.);

– in precedenza, i tre odierni imputati, di ritorno dal primo sopralluogo nel luogo ove sarebbe stato compiuto l’omicidio (in (OMISSIS)), giunti all’altezza di (OMISSIS), invece di inoltrarsi nell’attiguo centro abitato di (OMISSIS), come facevano tutte le volte che, nel rientrare a (OMISSIS), passavano appunto dalla zona di (OMISSIS), si avventuravano invece verso la periferia lungo un percorso a dir poco insolito, in aperta campagna, portandosi in zona ubicata fra la via (OMISSIS), che è la via in cui sarebbe stata data alle fiamme ed abbandonata la motocicletta verosimilmente impiegata per commettere l’omicidio, ed il fondo in cui ricade il deposito EAS presso il quale sarebbero state rinvenute, anch’esse bruciate, le tre auto rubate presumibilmente usate parimenti dal commando con funzioni di appoggio;

– durante il tragitto, M. e F. concertavano il modo ed il punto migliore in cui posizionare delle auto non meglio precisate in vista di un’azione da compiersi alle 8 (alludendo alle 8 di sera e pertanto alle 20,00) e per la quale paventavano il rischio di potere restare imbottigliati nel traffico;

– questo scambio di idee avveniva mentre si trovavano a passare da un punto che, secondo il teste Dott. r. dista un centinaio di metri dal luogo in cui di lì a due ore circa sarebbe stato consumato l’omicidio;

– sempre nel corso di questo conciliabolo relativo al posizionamento delle auto, il M. aggiungeva che "la denuncia la devono fare": frase che, interpretata alla luce di quanto realmente accaduto, appariva chiaramente alludere al fatto che le auto in questione erano state rubate ed esprimere al contempo la certezza che non vi sarebbe stato alcun problema perchè il furto sarebbe stato denunciato solo in seguito;

– tutti e tre gli odierni imputati avevano curato di tenersi liberi da ogni impegno, a cominciare da quelli familiari, o di non prenderne, a partire dalle 18:30, dando ad amici, parenti e conoscenti indicazioni assolutamente false su ciò che stavano facendo o che si accingevano a fare (ad esempio, R.D. aveva detto ad un suo interlocutore che si stava andando a coricare perchè stava male; F.I. aveva detto alla sua compagna, poco prima di lasciare l’auto insieme agli altri sodali, di avere un appuntamento a (OMISSIS); M.N., mentre prendeva accordi con la moglie per la cena, quella sera, assicurandole che sarebbe tornato a casa per le 20,00 – 20:30, quasi contemporaneamente demandava al cognato di farle sapere il contrario, e di non chiamarlo al telefono; ad azione compiuta, il M., parlando con la sua compagna M.T., le forniva false notizie sui suoi movimenti assumendo, contrariamente al vero, di essere stato con suo padre);

– i tre imputati, nel transitare più volte dinanzi al Bar (OMISSIS) quel pomeriggio, avevano seguito l’itinerario via (OMISSIS), nel percorso di andata e, in occasione del secondo sopralluogo, anche in quello di ritorno, riponendo particolare cura nel constatare se un certo soggetto, che altri non era se non il G., fosse o meno presente, ricavandone peraltro conferma dall’osservazione diretta;

– al termine del loro secondo sopralluogo a (OMISSIS), i tre imputati abbandonavano la BMW insieme a Ru.Mi., che nel frattempo si era aggiunto a loro, senza salutarsi nè separarsi, potendo anzi da alcuni passaggi della conversazione precedenti all’abbandono dell’auto comprendersi che dovevano recarsi tutti insieme, e di gran fretta, in un luogo prestabilito; in tale occasione il M. appariva particolarmente teso, ed, in attesa della persona che doveva venire a prenderli, si doleva del fatto che, ancora una volta, come sempre, cioè come già accaduto in passato, per contingenze analoghe, si sarebbero trovati in cinque a bordo della stessa auto (e cioè lui F.E., R.D., Ru.Mi., che si era aggiunto a loro da pochi minuti, oltre il conducente dell’auto che doveva venire a prenderli); alle ore 19,17, all’atto di scendere dalla BMW, R.D. chiedeva che cosa dovessero fare dei telefonini, e subito M. raccomandava di metterli "tutti ddà", ossia, verosimilmente, di lasciarli all’interno dell’auto;

dal momento in cui lasciavano la BMW, i tre facevano tacere i telefonini, di cui fino ad allora avevano fatto un uso intenso, persino frenetico;

questa consegna del silenzio telefonico veniva scrupolosamente osservata sia da F.I., che addirittura spegneva il proprio telefonino, per tornare a farne uso solo alle 20:45; sia dallo stesso M., il quale, forse, spegneva uno dei cellulari che aveva in uso quel giorno, mentre sicuramente lasciava acceso l’altro, ma si guardava bene dal rispondere alle chiamate nel frattempo pervenute (in numero di sette, dalle 19:57 alle 20:28: ma quest’ultima sull’utenza nr. (OMISSIS)), oppure non poteva rispondere, perchè aveva deliberatamente lasciato il telefonino acceso a bordo dell’auto, tornando a farne uso solo alle ore 20,32;

tale consegna del silenzio veniva, invece, solo in parte osservata da R.D., il quale alle ore 20,12, e pertanto a delitto già commesso, faceva una telefonata ad A.A. di Misilmeri, ma in precedenza, alle ore 19,46 ed alle ore 19,47, trovandosi nella zona di via (OMISSIS), praticamente a ridosso del luogo in cui di lì a qualche minuto sarebbe stato commesso l’omicidio, telefonava al fratello R.N., che si trovava in (OMISSIS), allo scopo verosimilmente di sapere se il G. fosse già partito dal Bar (OMISSIS) o vi indugiasse ancora. Ulteriori elementi probatori a carico dei tre imputati provenivano, infine, dalle dichiarazioni di C.M..

Questi, già diverso tempo prima che l’omicidio venisse commesso, aveva ricevuto delle confidenze dal suo capo ( M.N.) in ordine a pressioni che questi aveva ricevuto affinchè si occupasse dell’omicidio del G., soggetto che dava fastidio per la sua pretesa di tornare ad occuparsi di appalti, nonostante gli dovesse essere ormai chiara la circostanza di essere persona particolarmente invisa alla fazione mafiosa più direttamente riconducibile a Pr.Be..

C. sin dall’estate 2004 era stato estromesso dalla famiglia di Villabate per talune sue incomprensioni con il M.. Nulla, pertanto, aveva saputo della preparazione dell’omicidio del G..

Il giorno dell’omicidio, passando in macchina, in compagnia della sorella, da (OMISSIS), all’altezza della abitazione di L.M.G., boss della borgata Roccella ma anche suo amico di vecchia data, aveva incontrato quest’ultimo e sapendo che più avanti, nella stessa via, era stato commesso un omicidio (tale comunicazione gli era stata data telefonicamente da suoi familiari che abitavano proprio a ridosso del luogo ove era stato commesso l’omicidio) aveva chiesto al suo amico chi fosse la vittima, ben sapendo che il L.M. doveva senz’altro saperlo non solo perchè era il boss della zona ma anche perchè, come confidatogli in precedenza dal M., quando sembrava che dell’omicidio si dovesse occupare Sc.Sa., era stato richiesto di fornire informazioni sulle abitudini della vittima. Il L.M. si era limitato, con un sorrisino, a dire che non sapeva nulla, ma nel contempo lo aveva invitato ad andarlo a trovare non appena avesse accompagnato la sorella a casa. Ed era stata in occasione di questo secondo incontro che il L.M. gli aveva detto che l’ucciso altro non era che l’imprenditore G.S.. Il L.M. nulla gli aveva detto, ovviamente, circa l’identità degli autori dell’omicidio ma al C. era stato subito chiaro che a commetterlo erano stati M.N. ed i fedelissimi componenti del suo gruppo di fuoco, primi fra tutti F.E. e R.D.. Ed incontrando, qualche giorno dopo, il F., si era lamentato con lui del fatto che avessero individuato quale luogo in cui commettere l’omicidio proprio un punto posto nelle estreme vicinanze della abitazione dei suoi familiari, non ricevendo peraltro dal suo interlocutore, che aveva replicato con fare infastidito con una scrollata di spalle, alcuna plausibile giustificazione, se non la frase "che vuoi da me?". p.1.2. La Corte, quindi, riassumeva, gli elementi a carico degli imputati nei termini di seguito indicati. p.1.2.1. A carico del M. gravava, innanzitutto, il contenuto della conversazione del (OMISSIS) che fotografava l’imputato nel momento in cui concordava con P.F. la consumazione del delitto, e rivendicava orgogliosamente a sè ed ai suoi uomini di fiducia il compito di organizzare ed attuare l’omicidio di G.S.. Diciotto giorni dopo la suddetta intercettazione, G.S. veniva ucciso e tale intervallo temporale doveva ritenersi pienamente compatibile con i tempi tecnici necessari per mettere a punto il piano operativo di esecuzione del delitto, anche perchè i movimenti quotidiani del G., erano ben noti agli uomini della cosca di Villabate ed a quelli della cosca di Roccella. L’incrocio delle indicazioni e dei dati desumibili dalle plurime e convergenti fonti probatorie, fotografava, sia pure a posteriori, la figura del prevenuto e dei suoi uomini mentre preparavano l’azione, perlustrando palmo a palmo il percorso che avrebbe dovuto seguire il G. verso casa, individuavano il punto dove colpire, predisponevano i mezzi con cui eseguire il delitto, la loro collocazione, verificavano le vie di fuga.

La responsabilità del prevenuto trovava, in particolare, riscontro nella accertata presenza sulla scena del delitto al momento del fatto, di R.D., facente parte del gruppo di fuoco di Villabate, insieme al quale nelle ore precedenti aveva perlustrato i luoghi ove sarebbe stato commesso l’omicidio.

M.N., al momento del delitto, era il capo della cosca mafiosa di Villabate, incarico che aveva acquisito per volontà del suo "padrino" di iniziazione mafiosa, P.F.. Dalle concordi dichiarazioni dei collaboratori di giustizia C. M. e c.f. emergeva, altresì, l’esistenza di un vero e proprio gruppo di fuoco operante al diretto comando del M. e a mezzo del quale era stato sgombrato il campo dalla presenza sul territorio di Villabate di esponenti della fazione Montalto, apparendo pertanto più che giustificato l’orgoglio con cui il prevenuto rivendicava il suo buon diritto a svolgere con l’ausilio delle sue sole forze il compito omicidiario, benchè all’omicidio fosse interessato anche V.C. della cosca della Guadagna. Dalle dichiarazioni di C.M. emergeva, a conferma ulteriore di quanto risultava dalle intercettazioni ambientali, che già da tempo M.N. aveva ricevuto delle pressioni dal P. per uccidere il G..

Dalle dichiarazioni dei collaboranti S., B. e Gi. emergeva con chiarezza, altresì, che G.S. costituiva già da tempo un serio problema, per determinati ambienti di Cosa Nostra, ma soprattutto per P.F. che da svariati anni nutriva un odio ormai radicato nei confronti dell’imprenditore di (OMISSIS) ed aveva progettato di ucciderlo, senza però riuscire a concretizzare tale proposito per l’opposizione di altre componenti della organizzazione mafiosa.

Dall’intero compendio probatorio emergeva con nettezza la figura di un G.S. tenace ed ostinato, che pur sapendo di essere osteggiato da un cricca imprenditorial – mafiosa operante nei territori di Bagheria, Misilmeri e luoghi limitrofi, voleva fortemente riaffermarsi nel settore degli appalti, quantomeno in quello del trasporto e del movimento terra, ed era attivissimo nella ricerca di nuove occasioni di lavoro, che puntualmente il P. voleva contrastare, inviando il suo fido M.N. a dissuadere dall’assegnare commesse gli imprenditori del settore del calcestruzzo ed a convincere lo stesso G. a farsi da parte.

Dalle intercettazioni ambientali svolte in contrada Mendola, emergevi con chiarezza che il M., su input del P., aveva esercitato tali pressioni ed anche il fastidio del boss di Villabate per l’ostinazione con cui il G. aveva rivendicato il suo buon diritto a lavorare. Era stato accertato, altresì, che negli ultimi tempi il G. aveva cercato l’appoggio di esponenti della cosca di Casteldaccia, Pi.Gi. e Vi.Gi., e, da ultimo, quello di Mo.On. reggente della cosca di Monreale mettendosi a disposizione di questi per potere lavorare.

Tale strategia era stata ben percepita da P.F. che, da quel grande tragediatore che era, aveva finto un riavvicinamento al G. addivenendo con quest’ultimo, nel corso di un incontro al bar (OMISSIS) di cui era stata testimone la figlia della vittima, ad un accordo di massima per la spartizione dei lavori che sarebbero derivati dalla realizzazione della Metropolitana di (OMISSIS) e non ostacolando l’assegnazione alla ditta di R. L. (genero del G.) di nuove commesse da parte di una calcestruzzi di Misilmeri, dopo che in precedenza ne aveva bloccato l’assegnazione esercitando pressioni sul titolare di tale calcestruzzi.

Le risultanze processuali confermavano pienamente, in definitiva, il ruolo di M.N. di organizzatore ed esecutore dell’omicidio. Oltre al contenuto già inequivocabile delle menzionate intercettazioni ambientali del giorno (OMISSIS), comprese quelle successive al delitto, che costituivano prova fondamentale e decisiva in tal senso, gravavano sull’imputato anche le dichiarazioni di C.M. e quelle di G.R., figlia della vittima. Quest’ultima aveva dichiarato di avere avuto modo di vedere M.N., qualche giorno prima dell’omicidio, fermo nei pressi del bar (OMISSIS), intento a scrutare in direzione dello stesso. Conosceva il M., avendo avuto modo di vederlo qualche anno prima in carcere in occasione dei colloqui che lei ed il giovane di Villabate avevano con i rispettivi genitori.

L’intercettazione del 17 settembre 2004 evidenziava altresì la figura di L.M.G. quale soggetto interessato alla esecuzione dell’omicidio ed ulteriori risultanze processuali (intercettazioni del (OMISSIS); dichiarazioni di C. M.) confermavano tale ruolo, evidenziando l’esistenza di contatti, sino a poco prima del delitto, fra M.N. e il citato L.M. in previsione dell’omicidio da compiere. p.1.2.2. Quanto a F.I., la raggiunta prova della colpevolezza di M. non poteva non ripercuotersi pesantemente anche sulla sua posizione processuale, per le gravissime implicazioni indizianti che intuitivamente ne discendevano, una volta acclarato che lo stesso era componente del gruppo di fuoco di Villabate alle dipendenze di M.N..

Tutte le fonti riguardanti direttamente o indirettamente la posizione di F.I. " E." attestavano la partecipazione di questo imputato a tutti i più significativi episodi criminosi del sodalizio criminale capeggiato da M.N..

C. lo indicava come il "braccio destro" del M., attribuendogli un ruolo importante anche nella trasferta di Pr. a (OMISSIS) e nella gestione della latitanza di quest’ultimo, accusandolo altresì di essere pienamente partecipe del traffico di stupefacenti gestito dal M. per conto della cosca di Villabate e di avere partecipato ad alcuni omicidi di rilievo strategico, come quello di Pe. e la scomparsa di co.

a..

Nè si poteva dire che il deterioramento del rapporto personale del C. con il M., culminato con la definitiva rottura maturata tra Settembre e i primi di Ottobre del 2004, avesse interrotto il rapporto di amicizia del dichiarante con il F., pur essendo stato ovviamente lo stesso C. esautorato dalla gestione degli incarichi e dalle attività che lo legavano a gruppo di mafia di Villabate.

Del mantenimento di buoni rapporti personali fra C. e F. riferisce, peraltro, anche c., al quale non risultava che i rapporti tra i due si fossero guastati dopo la rottura con il M.; ma anche nelle intercettazioni telefoniche, e precisamente in un breve inciso di una conversazione telefonica intercorsa il 12 Ottobre 2004 tra il M. e un ignoto interlocutore, che era stata captata dal dispositivo di intercettazione ambientale piazzato all’interno della BMW, si desumeva che, mentre il M. aveva già troncato ogni rapporto con il C. al punto che non si parlavano più, per ogni eventuale questione pendente con lo stesso C. il boss di Villabate aveva delegato, per l’appunto, il F.. c. f. aveva confermato il ruolo di spicco assunto dal F., riferendo anch’egli del ruolo avuto da quest’ultimo nella trasferta di Pr. a (OMISSIS) e nell’omicidio Pe.. Del ruolo di vice capo famiglia assunto dal F., il c. aveva riferito di essere stato diretto testimone, soffermandosi in particolare su telefonate in cui il M., trovandosi fuori (OMISSIS), aveva chiesto al F. notizie di indagini sfociate in arresti a carico di personaggi legati alla cosca di Bagheria o di Villabate. Ma erano soprattutto le intercettazioni telefoniche ed ambientali riversate in atti a confermare il quadro emergente dalle dichiarazioni dei suddetti collaboranti, potendosi dalle stesse desumere preziose informazioni in ordine al ruolo assunto dal F. quale alter ego del M., tutte le volte che questi si trovava fuori dalla (OMISSIS) e finanche dal territorio italiano, come spesso succedeva. Dall’esame di tale fonti di prova si arguiva, pertanto, che, spesso, era il F. che curava i rapporti con Mo.On. e con P.C., in luogo del capo cosca impedito.

Emblematiche, sotto questo profilo, erano l’intercettazione telefonica del 16 gennaio 2004 (che offriva un esempio di come il F. si preoccupasse di aggiornare e informare il suo capo, durante le sue assenze, su tutte le novità di rilievo, ma anche sull’andamento degli affari correnti della cosca, che per conto del capo lui continuava a gestire) e l’intercettazione ambientale a bordo della BMW del 16 Ottobre 2004 di cui si da conto nella sentenza "Grande Mandamento" in atti, nella quale si ascoltava il M. investire del ruolo di sostituto l’affiliato R.N., nel caso di impedimento suo e di F.E..

Le risultanze delle attività di osservazione operate dalla Polizia, opportunamente coordinate con le intercettazioni telefoniche, dimostravano, infine, come F.E. fosse il principale terminale di riferimento per i contatti e le attività preparatorie di incontri riservati del M. con esponenti di altre famiglie mafiose, a cominciare da P.C.: ad esempio, l’odierno imputato si trovava presso il casolare di contrada (OMISSIS) in data (OMISSIS) per conferire per l’appunto con il boss di Belmonte Mezzagno. Questo ruolo di alter ego del M. svolto dal F. era, peraltro, desumibile anche dalle riprese filmate degli incontri dell’odierno imputato con Mo.On. accreditato di essere il reggente della cosca mafiosa di Bagheria. E’ peraltro sempre in compagnia del suo braccio destro che M. N. si recava presso la sede della CON.SUD.TIR per incontrarsi con il Mo.. Assai rilevante era anche il fatto che, in data 17 settembre 2004, dopo il suo incontro con P. e, come si evinceva dalla intercettazione, dopo essersi recato in compagnia del L.M. da Ca.Lu., il M. si era incontrato con F. mettendolo a conoscenza dell’incarico omicidiario ricevuto e delegandolo di curare lo studio dei movimenti della vittima designata.

Tale circostanza era stata riscontrata nella intercettazione ambientale del (OMISSIS), nel corso della quale il F. aveva reso edotto il M. della necessità che l’operazione da svolgere in (OMISSIS) venisse effettuata in un tratto antecedente a quello in cui, verso le ore 20,00, il traffico era particolarmente congestionato. Momento importante dell’intera vicenda, anche con riguardo al F., era, poi, costituito dal colloquio a quattrocchi tra lo stesso M. e P.C. al casolare di contrada (OMISSIS). Ed invero, l’unica garanzia che il primo aveva chiesto al secondo, ottenendola, era stata quella di potersi scegliere lui i compagni con cui agire, senza interferenze di terzi estranei. Era, quindi, semplicemente impensabile che, dopo avere posto e ottenuto la condizione di scegliersi gli elementi migliori e più affidabili per il compimento di un’azione così delicata e rischiosa, e per la quale s’era personalmente esposto al cospetto del suo padrino, non solo offrendosi di compierla lui, ma addirittura rivendicando orgogliosamente a sè e al suo gruppo la capacità di fare da soli, senza l’aiuto di estranei, il M. potesse avere poi scartato, al momento di scegliere i complici, o comunque potesse aver deciso di fare a meno dell’apporto, anzitutto, del suo vice, ossia del soggetto in cui riponeva più fiducia.

Però, la prova fondamentale della colpevolezza del prevenuto era costituita dal complesso degli elementi (intercettazioni ambientali e telefoniche, risultanze del rilevatore satellitare) che fotografavano la sua presenza, il giorno (OMISSIS), sulla BMW, mentre insieme a M.N. e R.D. partecipava alle operazioni preliminari dell’omicidio e poi, insieme agli altri due suoi coimputati, si dirigeva verso il luogo prescelto per la consumazione del delitto. In particolare, doveva ritenersi provato, che, insieme ai suoi coimputati, il F. aveva partecipato, nel pomeriggio del (OMISSIS), a sopralluoghi e attività preliminari di perlustrazione dei luoghi che sarebbero stati teatro, intorno alle 20:00 di quello stesso giorno, dell’azione omicidiaria e, subito dopo, dei principali adempimenti post-delictum (come sbarazzarsi dei veicoli utilizzati per l’azione, e raccogliere i complici che ne avevano fatto uso). Insieme ai predetti, il F. aveva compiuto un’attività preparatoria consistita nell’andare a posteggiare un’auto, da utilizzare verosimilmente solo in funzione di appoggio al commando incaricato di uccidere il G., nei pressi dell’abitazione della vittima (anche se non cosi vicino, come avrebbe voluto il M.). Aveva curato di tenersi libero da ogni impegno, a cominciare da quelli familiari, o di non prenderne, a partire dalle 18:30, dando ad amici parenti e conoscenti, indicazioni assolutamente false su ciò che stava facendo o che si accingeva a fare: aveva detto alla sua compagna, poco prima di lasciare l’auto insieme agli altri sodali per recarsi a bordo di altra vettura sulla scena del delitto, di avere un appuntamento a Villabate. Insieme agli altri era transitato più volte dinanzi al Bar (OMISSIS) quel pomeriggio per controllare la presenza sul posto della vittima. Dal momento in cui aveva lasciato la BMW, aveva fatto tacere il suo telefonino, di cui fino ad allora aveva fatto un uso intenso, per precisa direttiva impartita da M.N. poco prima di scendere dall’auto, tornando a farne uso solo alle 20,45. Su di lui, ed ovviamente su quella del M.N., pesava come un macigno la condotta del suo correo R.D., che aveva violato la consegna del black out telefonico rendendosi autore, qualche minuto prima del delitto, di due telefonate all’indirizzo del fratello R.N. per sapere se il G. fosse già partito dal Bar (OMISSIS) o vi indugiasse ancora.

A carico del prevenuto pesavano altresì le dichiarazioni di C.M. sul contenuto di un incontro di qualche giorno successivo all’omicidio. Aveva riferito il C., che avendo mantenuto un rapporto personale con il F., nonostante il proprio allontanamento dal sodalizio, in occasione di un incontro con costui, avvenuto a distanza di qualche giorno dal fatto omicidiario, si era lamentato anche con lui, come già aveva fatto con L. M., dell’accaduto, non per il fatto in sè, quanto piuttosto per il luogo prescelto, vicino casa della madre di esso C.. Il F., lungi dall’esprimere la sua estraneità ai fatti, si era limitato a replicare, facendo spallucce e dicendo "Che vuoi da me?".

Il C. già sapeva del progetto omicidiario nei confronti di G. e con l’appunto mosso al F., che peraltro era l’elemento cardine su cui si appoggiava il M. per azioni di tal fatta, intendeva accomunarlo nella critica di cui il cui il principale destinatario era ovviamente il capo della cosca. E, il tipo di risposta e l’atteggiamento tenuto dal F., avevano confermato la sua convinzione che il delitto non potesse che essere opera del gruppo capeggiato dal M., non foss’altro perchè era l’unico gruppo di fuoco operativo in quel territorio. E in effetti, se il F. fosse stato estraneo al delitto, la sua reazione avrebbe dovuto essere ben altra che non una semplice "scrollata di spalle". p.1.2.3. Quanto a R.D., la cui appartenenza al sodalizio mafioso di Villabate risultava accertata con sentenza irrevocabile, era stato concordemente indicato dai collaboranti C. e c. come componente del gruppo di fuoco di Villabate alle dipendenze di M.N. che aveva preso parte a quella sorta di faida che vi era stata in Villabate fra le due opposte fazioni mafiose che si era conclusa con lo sterminio dei soggetti vicini ai Montalto e l’affermazione della fazione di cui faceva parte l’emergente M.. Entrambi i collaboratori avevano indicato il R. come soggetto fedelissimo al giovane capo cosca, ricordandone il coinvolgimento nelle estorsioni e nel traffico degli stupefacenti.

Anche c.f. aveva indicato R.D. come una delle persone di fiducia del M., che si occupavano della "messa a posto" di imprenditori e commercianti o professionisti, come aveva potuto constatare lui stesso in occasione di una estorsione in danno di tale Gi., amico dello stesso dichiarante.

Ed invero, le intercettazioni telefoniche ed ambientali avevano suffragato le propalazioni dei due collaboranti anzitutto nella parte in cui concordemente indicavano R.D. come persona di fiducia di M.N., legato a questi da vincoli di sincera amicizia.

Ma la prova fondamentale della colpevolezza del prevenuto in ordine ai fatti di causa era costituita dal complesso degli elementi (intercettazioni ambientali e telefoniche, risultanze del rilevatore satellitare) che fotografavano la sua presenza sulla BMW, mentre insieme a M.N. e F.I. partecipava alle operazioni preliminari dell’omicidio e poi, insieme agli altri due suoi coimputati, si dirigeva verso il luogo prescelto per la consumazione del delitto.

Insieme ai coimputati aveva compiuto un’attività preparatoria consistita nell’andare a posteggiare un’auto, da utilizzare verosimilmente solo in funzione di appoggio al commando incaricato di uccidere il G., nei pressi dell’abitazione della vittima (anche se non cosi vicino, come avrebbe voluto il M., ricevendo il rimprovero del suo capo che gli imputava di distrarsi perchè sempre alle prese con il suo telefonino). Insieme ai suoi coimputati, aveva curato di tenersi libero da ogni impegno, a cominciare da quelli familiari, o di non prenderne, a partire dalle 18:30, dando ad amici parenti e conoscenti indicazioni assolutamente false su ciò che stava facendo o che si accingeva a fare (in un paio di occasioni, mentre perlustrava i luoghi che di lì a poco sarebbero stati teatro del delitto, aveva liquidato i suoi interlocutori che volevano vederlo quella sera affermando di non poterlo fare perchè si sentiva male e stava per andare a letto). Insieme ai suoi coimputati era transitato più volte dinanzi al Bar (OMISSIS) quel pomeriggio per controllare la presenza sul posto della vittima.

Dal momento in cui aveva lasciato la BMW, aveva fatto tacere il suo telefonino, di cui fino ad allora aveva fatto un uso intenso, per precisa direttiva impartita da M.N..

Era certo, però, che, pur avendo ricevuto dal M. l’ordine di lasciare a bordo della BMW il telefonino, aveva contravvenuto clamorosamente a tale direttiva, portandolo con sè. E tale gesto si era rivelato fortemente pregiudizievole per lui e per i suoi correi, perchè non sapendo resistere alla tentazione, mentre si trovava (presumibilmente con funzioni di appoggio di coloro che avrebbero dovuto affiancare il motorino in transito della vittima) sul luogo ove stava per compiersi il delitto, aveva telefonato per ben due volte al fratello N., che si trovava al bar (OMISSIS) ove controllava i movimenti del G., chiedendogli se questi si fosse messo o meno in viaggio verso casa. E tali telefonate, verificatesi a pochissimi minuti dall’arrivo sul posto della vittima (5 o poco più) pesavano come un macigno su di lui e sui suoi correi, perchè, chiudendo per così dire il cerchio, fotografavano la sua partecipazione e quella di M. e F. all’omicidio.

Inoltre, nell’allontanarsi dalla scena del delitto, aveva telefonato poco dopo le 20,00 a quel (OMISSIS) di Misilmeri al quale, su direttiva del F., aveva già telefonato nel corso del pomeriggio, evidentemente affinchè facesse da tramite con il P., avvertendo quest’ultimo che l’operazione cui tanto questi teneva era in corso di svolgimento. p.2. Avverso la suddetta sentenza, tutti gli imputati, hanno proposto ricorso per cassazione. p.2.1. M. ha dedotto i seguenti motivi:

p.2.1.1. violazione dell’art. 271 c.p.p., in ordine alle intercettazioni disposte all’interno dell’autovettura Bmw (decreto n. 1820/2004) e all’interno di un capanno adibito alla custodia di attrezzi (decreto n. 12030/03-24), essendo state le medesime disposte in violazione delle norme che consentono di utilizzare, eccezionalmente, impianti diversi da quelli in dotazione della Procura. Ed infatti, il P.m. aveva omesso di motivare in ordine alla insufficienza o inidoneità delle apparecchiature installate presso i propri uffici atteso che aveva motivato per relationem richiamando una precompilata certificazione attestante che "in data odierna, presso la sala intercettazione di questa procura, non sono disponibili postazioni per l’esecuzione di nuovi decreti di intercettazione telefoniche ed ambientali", attestazione sempre identica sia per i decreti che per le proroghe. L’intercettazione, poi, della conversazione in data 17/09/2004 (decreto n. 12030/03-24) era inutilizzabile essendo stata captata in luogo aperto e, quindi, al di fuori dei luoghi ove erano state autorizzate le intercettazioni. Ulteriori motivi di inutilizzabilità in ordine ad altri decreti di intercettazione sono stati dedotti con memoria depositata il 28/10/2010. p.2.1.2. ILLOGICITA’ E CONTRADDITTORIETA’ DELLA MOTIVAZIONE: il ricorrente, in ordine al contesto entro il quale l’omicidio era maturato e al quale la Corte territoriale aveva attribuito una notevole importanza, contesta la concludenza delle dichiarazioni dei collaboratori B. – S. e Gi. atteso che i medesimi avevano riferito fatti di cui erano a conoscenza alcuni anni prima dell’omicidio compiuto il (OMISSIS): infatti il B. e S. avevano riferito fatti fino agli anni 1996/1997 ed il Gi. fino al 2002. Di conseguenza, le loro dichiarazioni non potevano essere utilizzate per ricostruire le gerarchie mafiose vigenti nel 2004. La sentenza, poi, si dimostrava contraddittoria nella parte in cui aveva tentato di stigmatizzare esclusivamente il forte astio nutrito dal P. nei confronti del G. – alla luce delle notizie fornite dal B. – pur non potendo fare a meno di sottolineare come la vittima si fosse posta in assoluto contrasto non solo con P.F. ma anche con g.v. di Bagheria. Non era, quindi, dato comprendere il motivo per cui il P. potesse ritenersi l’unico soggetto interessato all’omicidio del G..

Si assumeva, poi, in sentenza che il soggetto di maggior potere mafioso che avesse in animo di osteggiare il G. era il Pr. – come riferito dal Gi. a conoscenza di fatti risalenti fino al 2001 – e che costui fosse collegato al solo P..

Sennonchè non poteva credibilmente ritenersi che il Pr. – per un astio risalente al 2001 – avesse quale unico referente il Pa. al fine di compiere un fatto omicidiario nel 2004.

Peraltro, dalla stessa sentenza emergeva che il veto posto dal P. nei confronti del G., era stato ampiamente superato nel luglio del 2004 quando il suddetto G., in seguito ad un incontro avuto con il P., aveva riferito alla figlia delle nuove possibilità di lavoro che sarebbero potute derivare dai lavori della metropolitana di (OMISSIS): ma, su questo argomento, la Corte aveva replicato – con illazione priva di riscontro e coerenza logica – che il P. aveva proposto una collaborazione al G. al solo fine di fuorviare gli eventuali futuri sospetti sulla sua persona in caso di attentato al G..

Anche le dichiarazioni del C. – del quale si contestava la credibilità – dovevano ritenersi poco concludenti perchè attenevano esclusivamente ai rapporti tra il M. ed il P. senza alcun riferimento all’omicidio G.. Infatti, le dichiarazioni del suddetto C., in ordine al fatto che aveva appreso dal M. che aveva ricevuto il mandato di uccidere il G., non potevano ritenersi attendibili sia perchè aveva riferito circostanze apprese genericamente e autonomamente interpretate – come aveva riconosciuto la stessa sentenza in cui si parlava di "personali deduzioni e congetture del collaborante" – sia perchè nutriva, nei confronti del M., un particolare astio. La Corte, poi, aveva mostrato di credere al C. nella parte in cui aveva dichiarato che il P., nel 2003, aveva incaricato dell’omicidio tale Sc. – mosso da un movente personale – che, però, non potette portarlo a termine essendo stato arrestato. Sennonchè era palese che il movente personale dello Sc. non era compatibile con il fatto che l’omicidio era maturato all’interno di Cosa Nostra ed era illogica la sentenza che collocava l’operato del P. – ossia il conferimento del mandato omicidiario al M. – al momento dell’arresto dello Sc. avvenuto il 6/10/2003, per poi contestualizzarlo al 17/09/2004 ossia un anno dopo, quando, nel luglio del 2004, era già avvenuto un accordo tra il P. ed il G. sulla spartizione dei lavori della metropolitana.

Anche i colloqui intercettati del 30/7/2004 (fra Pi. e Vi.) e quello del 6/10/2004 (fra i cugini Vi.), ai quali la Corte aveva attribuito molta importanza, non solo non erano concludenti ma erano stati interpretati in modo illogico e contradditorio. Infatti, quanto al colloquio del 30/07/2004, si desumeva chiaramente che altri soggetti – Mi.Gi. e Mo.On. – erano interessati a che il G. fosse estromesso dal mondo degli appalti. Quanto al colloquio del 6/10/2004, in cui si parlava dell’unico accordo intervenuto tra il G. ed il Mo., nulla escludeva che nell’estate del 2004 il G. avesse concluso con altri soggetti, altri accordi. Se, quindi, nessun elemento probatorio temporalmente antecedente alla riunione del 17/9/2004, era idoneo a confermare la commissione dell’omicidio G., la sentenza impugnata, nella parte in cui aveva ritenuto che nel colloquio intercettato nella suddetta data vi era la prova del mandato da parte del P. al M., era il frutto di un’interpretazione soggettiva, ambigua e contraddittoria.

Infatti, da quella conversazione si evinceva solo che il boss mafioso V., aveva contrasti con il G., sicchè ogni ulteriore deduzione tratta dalla Corte – secondo la quale il V. doveva solo essere messo a conoscenza del delitto per renderlo moralmente responsabile – era meramente ipotetica. In realtà, la versione fornita dal M. – secondo il quale quel colloquio andava interpretato solo come una mera richiesta alla quale egli "per viltà" non aveva saputo opporsi, ma alla quale non era stato dato alcun seguito – forniva la vera chiave interpretativa del criptico linguaggio usato dagli interlocutori come dimostrato anche dal fatto che, nonostante i controlli ai quali erano sottoposti sia il P. che il M., non era mai stato registrato un incontro fra costoro ed il V. ed il Pr. senza il cui consenso l’omicidio non avrebbe potuto essere commesso. Il ricorrente, poi, sostiene che la sentenza impugnata sarebbe affetta da evidente contraddittorietà anche in ordine alle modalità di realizzazione del fatto delittuoso basandosi la motivazione su mere ipotesi indimostrate ed indimostrabili, atteso che la copiosità degli elementi probatori indicati non consentiva una ricostruzione certa dello svolgimento del fatto nonchè dei momenti antecedenti e successivi al delitto.

Infatti, era stata proprio la Corte territoriale ad aver dato atto che non vi era alcuna certezza in merito ai veicoli utilizzati, sul ruolo specifico degli imputati, sulla comprensione delle intercettazioni telefoniche ed ambientali, sicchè, per colmare il vuoto probatorio attinente l’arco temporale intercorrente fra le ore 19,20 e le ore 20,32 del giorno dell’omicidio, era stata costretta a fare largo impiego di mere supposizioni.

Il ricorrente, poi, in relazione ai singoli indizi evidenziati dalla Corte, rileva:

– la "presenza di R.D. sulla scena del delitto a pochissimi minuti dall’arrivo della vittima designata", era una congettura atteso che non vi era precisione sull’orario stesso del delitto, nè tantomeno certezza sul mantenimento, da parte del predetto, della stessa posizione per un arco temporale che avrebbe coperto anche il momento dell’omicidio;

– la circostanza che si sarebbe trattato di un omicidio premeditato e compiutamente organizzato, era smentita dall’osservazione secondo la quale sarebbe illogico che, nonostante la disponibilità di un "gruppo di fuoco", la fase dell’esecuzione fosse stata preparata solo dalle 15 alle ore 20 precedenti all’esecuzione stessa;

– l’indizio dedotto dalla conversazione del 4/10/2004, intervenuta tra M.N. e R.D. – che renderebbe conto di una pistola fornita dal L.M. – sarebbe paradossale, oltre che illogico, non avendo i pretesi componenti di un "gruppo dì fuoco" necessità di farsi "spiegare anche come funziona";

– era illogico che mentre gli imputati ( M. e R.) stavano per preparare l’omicidio, si trovassero a gestire i propri figli, avessero difficoltà di posteggio di una delle autovetture di appoggio, e contattassero colui che avrebbe dovuto fornire indicazioni sull’arrivo della vittima;

– la Corte non avrebbe dovuto attribuire alcuna valenza probatoria alle intercettazioni telefoniche ed ambientali, essendo state effettuate su soggetti che ben avrebbero potuto depistare le indagini attraverso i loro colloqui, in quanto sapevano, ovvero temevano, di essere sottoposti a intercettazione;

– appariva paradossale che gli imputati effettuarono il sopralluogo proprio il giorno dell’omicidio, pur conoscendo in modo approfondito i luoghi;

– le ulteriori argomentazioni sviluppate in sentenza, al fine di avvalorare la tesi di un preordinato contatto con il L.M., non erano che frutto di illazioni;

– la ricostruzione congetturale delle motivazioni che indussero il M. ed il R. – e cioè che si erano recati fuori dal perimetro urbano verso le ore 16,30 per effettuare una ricognizione dei luoghi dove avrebbero dovuto abbandonare i mezzi adoperati per l’agguato – non era suffragata da alcuna emergenza probatoria;

– l’affermazione secondo la quale il M. tenne acceso uno dei due telefonini per comunicazioni di estrema importanza, perchè non voleva che qualcuna delle sue donne gli telefonasse per evitare di essere localizzato, era illogica perchè un’eventuale chiamata, proveniente da altri soggetti, avrebbe comunque comportato la localizzazione dell’imputato;

– era illogico che il M., alle ore 19, rappresentasse l’opportunità di avvisare il L.M. di quanto stava per accadere nonostante l’accordo fosse già stato precedentemente concluso. In realtà, nessun elemento certo consentiva di ritenere che il M., nel lasso di tempo intercorrente fra le ore 19,15 e le ore 20,45, si trovasse sul luogo del delitto ed il fatto che il R., verso le ore 20, si trovava nel raggio di operatività di una cella telefonica nella quale si trova il luogo dell’omicidio, non era elemento idoneo a chiarire dove si trovassero gli altri due imputati.

Infine, il panorama probatorio non poteva dirsi completato dall’interpretazione fornita dal C. ad un’espressione del viso del L.M., ovvero da un colloquio tra il R. ed il M. intervenuto il giorno successivo. p.2.1.3. Violazione dell’art. 603 c.p.p.: il ricorrente, sostiene che erroneamente la Corte non aveva concesso la rinnovazione dell’istruttoria tesa ad individuare chi fosse effettivamente il soggetto indicato quale "cugino" nel colloquio intervenuto tra il M. ed il T. alle ore 19,13 del (OMISSIS) nonchè il ruolo eventualmente svolto dai proprietari delle autovetture rubate in pari data, trattandosi di circostanze che avrebbero potuto incidere direttamente sul percorso valutativo svolto ai fini dell’affermazione della penale responsabilità e di conseguenza anche sulla contestata aggravante della premeditazione. p.2.2. F., nei due ricorsi (l’uno in proprio, l’altro a mezzo del proprio difensore), ha dedotto i seguenti motivi:

p.2.2.1. ILLOGICITA’, CARENZA E CONTRADDITTORIETA’ della sentenza in ordine ai seguenti elementi ritenuti dalla Corte territoriale come indizianti:

1. movente omicidiario attribuibile unicamente a P.F., uomo facente, a sua volta, capo a Pr.Be.. Rileva il ricorrente che, nonostante la stessa Corte avesse sostenuto che l’omicidio era maturato, nell’ambito di Cosa Nostra, già da prima del 2004, essendosi il G. inimicato boss del calibro di V.C. e L.M.G., tant’è che, nel 2003, era stato incaricato Sc.Sa. di eseguirlo, compito che non potè portare a termine perchè arrestato, poi, con motivazione illogica, la stessa Corte aveva ritenuto che l’omicidio fosse stato deliberato, autonomamente dal P. nel corso del colloquio con il M. avvenuto il 17/09/2004: su di che, però, non vi era alcuna risultanza processuale. In realtà, dallo stesso tenore del colloquio, si desumeva che il P. non aveva ancora deciso cosa fare con il G. per il cui omicidio occorrevano comunque il via libera di V.C. e di Pr.Be. con i quali si era riproposto di parlare. Ma di tali incontri non solo non vi era certezza alcuna, ma vi era la prova che non erano mai avvenuti come desumibile dal fatto che i servizi di appostamento della Polizia non registrarono alcun incontro. La decisione della Corte, secondo la quale, i suddetti incontri si sarebbero comunque verificati, era, quindi, apparente e priva di ogni riscontro.

2. Il conferimento dell’incarico omicidiario da parte del P. al M.: contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte territoriale, dal tenore del colloquio si desumeva che il M. non aveva accettato l’incarico, subordinandolo, appunto, al via libera di V. e di Pr., consenso che non venne mai dato non essendovi mai stato alcun incontro.

3. L’accettazione dell’incarico da parte del M.: sostiene il ricorrente che il passo del colloquio in cui la Corte aveva ravvisato la volontà del M. di eseguire l’omicidio avvalendosi solo delle sue forze, era illogico e contraddittorio atteso che non era stata data la prova della disponibilità di tanti uomini (non meno di 14 persone) e mezzi – tutti necessari al compimento dell’omicidio – in capo al M.. La Corte, poi, anche a voler condividere il suo ragionamento, non aveva spiegato l’assenza di contatti telefonici con gli altri membri del gruppo omicidiario, nonostante il traffico telefonico fosse stato attentamente vagliato.

4. Vicenda dei telefonini spenti: nonostante la Corte territoriale avesse attribuito una notevole portata indiziaria al fatto che il ricorrente effettuò l’ultima chiamata alla ore 19,03 per poi tornare a farne uso alle ore 20,45, in realtà non era mai stato deciso e comunque mai rispettato alcun black out.

5. Vicenda della pistola di R.D.: la Corte aveva fornito di un colloquio intercettato in data 4/10/2004 – in base al quale il M. raccomandava al R. di avvisare L.M. perchè andasse a prendere "quella certa cosa che lui sa e di portarla in agenzia facendosi spiegare come funziona" – un’interpretazione illogica nel ritenere che "la cosa" fosse la pistola che sarebbe servita per l’omicidio perchè: a) sarebbe strano che M. avesse detto al R. di farsi spiegare dal L.M. come funzionava la pistola; b) il giorno dopo, quando cercavano il L. M., con il quale avevano l’appuntamento concordato per le ore quindici, lo stesso doveva portare di nuovo "quella cosa". Il fatto che il R., l’indomani e cioè il (OMISSIS), durante l’attesa del L.M. (che avrebbe dovuto portare "quella cosa") si lasciò sfuggire una frase nella quale diceva di avere la pistola, sarebbe incompatibile con l’indizio secondo il quale il L.M. avrebbe dato il suo contributo alla consumazione dell’omicidio.

6. Dichiarazioni di C. in ordine all’incontro con L. M.: il ricorrente, in ordine all’indizio desunto dalla Corte sulle dichiarazioni rese dal C. sull’incontro casuale che ebbe con il L.M. proprio nello stesso momento in cui era stato consumato l’omicidio, obietta che il ragionamento sarebbe incongruente e contraddittorio sia perchè basato su una mera impressione del C. sia perchè quando costui, in un secondo momento, si incontrò con il L.M. al Bar (OMISSIS) già sapeva che ad essere stato ucciso era stato il G., perchè aveva riconosciuto il figlio della vittima che gridava "papa": nessun elemento, quindi, escludeva che anche il L.M., nella more fra il primo e secondo incontro con il C., avesse appreso, in modo occasionale, che la vittima era il G.: il che portava ad escludere che il L.M. sapesse in anticipo chi fosse la vittima.

7. Estraneità del F. all’omicidio: il ricorrente, poi, quanto al suo personale coinvolgimento nell’omicidio, contesta il ragionamento della Corte ritenendolo affetto da illogicità perchè basato su una serie di concatenati indizi e presunzioni privi di ogni riscontro. E così, quanto alle dichiarazioni rese dal C. in relazione all’incontro che costui ebbe con il F. dopo l’omicidio, nel corso del quale il ricorrente, dopo essere stato sarcasticamente "ringraziato" per avere commesso l’omicidio vicino all’abitazione della madre di esso C., se ne uscì con una semplice scrollata di spalle, si obietta che la suddetta reazione non aveva nulla di strano nè di indiziante anche perchè la Corte non aveva spiegato quale avrebbe dovuto essere.

8. Il telefonino di F.I. e la sua presenza al (OMISSIS) unitamente al fratello A.; sostiene il ricorrente che è pacifico, avendone dato atto la stessa Corte, che egli aveva lasciato il cellulare spento all’interno dell’autovettura Bmw parcheggiata a (OMISSIS). Non vi era però certezza sul fatto che la persona che si trovava in compagnia del M., sulla suddetta autovettura alle ore 20,32, fosse proprio esso ricorrente perchè non vi era alcuna prova che la persona che canticchiava era proprio lui. Il fatto che il M. ricevette una telefonata da parte di F.A., fratello di esso ricorrente, stava solo a significare che I., sprovvisto di cellulare, aveva chiesto al fratello A., con il quale si trovava al (OMISSIS), si chiamare il M. perchè lo informasse del posto dove si trovava. p.2.2.2. violazione dell’art. 603 c.p.p., lamenta il ricorrente che erroneamente la Corte territoriale aveva disatteso la richiesta di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale in ordine: a) all’omicidio Pe.; b) alla presenza di esso ricorrente all’interno della Bmw; c) ai motivi per cui esso ricorrente si trovava nei pressi del luogo dove crebbero stati trovati i mezzi abbandonati ed utilizzati per l’omicidio, tutte prove decisive stante la lacunosità della sentenza impugnata. p.2.3. R. ha dedotto l’illogicità, contraddittorietà della motivazione sotto i profili di seguito indicati. L’imputato, dopo avere contestato l’attendibilità del C. in ordine alle dichiarazioni da questi rese sull’appartenenza di esso ricorrente ad un preteso gruppo di fuoco facente capo al M. (cfr pag. 8-9 ricorso), sostiene che la Corte, quanto ai possibili moventi del delitto, non aveva fornito una spiegazione adeguata e logica a fronte dei possibili quattro moventi che erano stati prospettati (cfr pag.

11 – 22 ricorso) ed infine contesta la concludenza, ai fini processuali, delle dichiarazioni rese dal Gi. atteso che costui, essendo stato arrestato nel 2002, nulla poteva sapere delle dinamiche di Cosa Nostra e, tanto meno del delitto in questione (pag.

22). Il ricorrente, poi, stigmatizza la sentenza nella parte in cui aveva ritenuto che le tre auto rubate e la moto rinvenute incendiate dopo l’omicidio fossero servite per l’agguato atteso che nulla consentiva di ritenere che i proprietari delle suddette auto avessero dichiarato il falso in ordine all’ora in cui le suddette auto erano state rubate, e cioè in un momento successivo all’omicidio (pag. 25- 32 ricorso).

Il ricorrente, quindi, concentra tutti i suoi sforzi difensivi nell’analisi della fase esecutiva dell’omicidio (pag. 213 ss sentenza impugnata) atteso che prima di tale momento non esisterebbe alcun indizio che lo riguardi direttamente.

La tesi difensiva, infatti, prende in esame le ed due "proiezioni" ossia i sopralluoghi che il giorno dell’omicidio i tre imputati, secondo la tesi accusatoria, eseguirono da (OMISSIS) a (OMISSIS) e ritorno, sopralluoghi ricostruiti incrociando una serie di elementi probatori costituti da intercettazioni ambientali e telefoniche, tabulati telefonici, rilevazioni satellitari promananti da un dispositivo GPS collocato sull’autovettura Bmw del M..

Sostiene il ricorrente (pag. 43 ss ricorso) che la ricostruzione effettuata dalla Corte territoriale delle due "proiezioni", sarebbe affetta da "palese errore" sia in ordine alle strade e ai percorsi indicati nella motivazione (pag. 45 ss ricorso), sia in ordine alle distanze dal luogo dell’omicidio (in particolare nulla consentirebbe di ritenere che il ricorrente utilizzò il telefonino mentre si trovava a pochi metri dal luogo del commesso omicidio: pag. 56 ss ricorso).

Il ricorrente, poi, contesta l’interpretazione che la Corte ha dato delle intercettazioni che lo riguardano (pag. 66 in ordine alla telefonata delle ore 16:02:39 – pag. 78-79-85-110 ss) sostenendo che la sentenza "viola il principio di diritto secondo il quale l’indizio, da cui far discendere un fatto ignoto, dev’essere preciso e dimostrare il fatto noto".

Infine, il ricorrente, nell’affrontare la questione del ed black out dei telefonini durante l’esecuzione dell’omicidio, circostanza alla quale la Corte annette molta importanza, contesta che si trovasse nel quadrante della cella telefonica che copriva il luogo dell’omicidio (pag. 87 ss ricorso).
Motivi della decisione

p.3. MOTIVI PROCESSUALI PRELIMINARI. p.3.1. violazione dell’art. 271 c.p.p.: Il M. (con il ricorso principale e con i motivi di cui alle memorie depositate in data 28/10/2010 e 6/12/2010) ed il F. (con la memoria depositata il 24/11/2010), hanno sollevato eccezione di inutilizzabilità delle seguenti intercettazioni:

1. Decreto n. 1820/2004 relativo all’intercettazione ambientale all’interno dell’autovettura BMW;

2. Decreto n. 13030/03-24 relativo all’intercettazione ambientale all’interno di un capanno adibiti alla custodia di attrezzi;

3. Decreti n. 1792/03 – n. 1760/04 (reiterativo del n. 1792/03 in quanto "per mero errore non si è provveduto ad inoltrare al G.i.p. la richiesta autorizzativa di proroga") relativi ad intercettazioni telefoniche;

4. Decreto n. 2204/03 relativo ad intercettazioni ambientali all’interno di un immobile nella disponibilità di M.N. e dell’autovettura tg (OMISSIS) in uso al suddetto M.;

5. Decreti n. 1539/04 – 1560/04 relativi ad intercettazioni telefoniche di utenze in uso al M.;

6. Decreti n. 288/04 – 289/04 relativi ad intercettazioni telefoniche di utenze in uso al M..

La doglianza è infondata per le ragioni di seguito indicate.

DECRETO N. 1820/2004: sostiene il ricorrente M. che il suddetto decreto sarebbe illegittimo perchè il P.M. avrebbe omesso di motivare "in ordine alla insufficienza e inidoneità delle apparecchiature installate presso i propri uffici" atteso che "il decreto del P.M. ed il successivo provvedimento di convalida, motiva per relationem richiamando una precompilata certificazione…" (pag.

3 ricorso principale). Aggiunge, poi, il ricorrente che "il decreto dispone che l’esecuzione del provvedimento venga effettuato presso una sala d’ascolto diversa, precisando che non vi è una insufficienza bensì l’inidoneità degli apparati di questa Procura":

il che non permetterebbe di verificare la sussistenza dei requisiti che consentono "attività captative in sede differenti in quanto e la carenza di postazioni in dotazione alla Procura non risulta certificata e la presunta inidoneità non è sostenuta da alcuna motivazione" (pag. 6 memoria 28/10/2010).

Il decreto in questione è così motivato: "rilevato che, come attestato da certificazione allegata al presente decreto tutte le postazioni in dotazione alla Procura della Repubblica sono già impegnate nell’ascolto e registrazione di intercettazioni attive nell’ambito di indagini tutt’ora in piene svolgimento; che pertanto gli impianti situati presso la sala ascolto della Procura della Repubblica risultano insufficienti… p.q.m. dispone l’intercettazione presso la sala ascolto della Squadra Mobile… stante l’inidoneità degli apparati di questa Procura".

In punto di diritto va osservato che, quanto all’inidoneità e insufficienza degli impianti captativi in dotazione all’ufficio di Procura, la motivazione non può certo limitarsi a dare atto dell’esistenza di tale situazione, ma deve specificare la ragione dell’inidoneità o dell’insufficienza, sia pure mediante un’indicazione sintetica, purchè questa non si traduca nella mera riproduzione del testo della norma, ma dia conto del fatto storico, ricadente nell’ambito dei poteri di cognizione del pubblico ministero (Cass., Sez. Un. 26 novembre 2003, n. 919, rv. 226485; Cass., Sez. Un. 29 novembre 2005, n. 2737, rv. 232605; Cass, Sez. Un. 12 luglio 2007, n. 30347, rv. 236754).

Ora, dalla lettura del suddetto decreto appare del tutto evidente che l’utilizzo di impianti esterni a quelli in dotazione della Procura fu disposto non per l’inidoneità degli impianti ma per la loro insufficienza, come risulta dall’ampia ed univoca motivazione addotta dal P.m.: pertanto, la circostanza che, nel dispositivo, si faccia riferimento all’inidoneità e non all’insufficienza, va ritenuta una semplice discrepanza irrilevante ai fini della legittimità del decreto. Ciò che rileva, infatti, è la motivazione come si evince con chiarezza dal disposto dell’art. 268 c.p.p., comma 3, che parla di "provvedimento motivato".

D’altra parte, il decreto risulta ampiamente motivato avendo il P.M. dato atto che "tutte le postazioni in dotazione alla Procura della Repubblica sono già impegnate nell’ascolto e registrazione di intercettazioni attive nell’ambito di indagini tutt’ora in piene svolgimento", ossia una situazione che, di fatto, rendeva indispensabile il ricorso ad apparecchi esterni: in terminis Cass. 6297/2010;

DECRETO N. 13030/03-24: sia il M. che il F. ne hanno eccepito l’inutilizzabilità in quanto l’intercettazione – autorizzata "all’interno di un capanno adibito alla custodia di attrezzi agricoli sito in contrada (OMISSIS)" – fu eseguita in un luogo diverso ed esattamente all’esterno del suddetto capanno "precisamente mentre P. e M. si trovavano sotto un albero in prossimità (più esattamente, a circa 20 metri) del capanno stesso" (pag. 3 memoria F.).

In punto di diritto, va premesso che "a differenza delle intercettazioni di conversazioni o comunicazioni effettuate mediante l’uso del telefono, che presuppongono l’esistenza di una specifica apparecchiatura o di un particolare sistema da sottoporre a intercettazione, in modo tale che per ciascuna operazione di intercettazione i dati di identificazione siano precisati nei rispettivi decreti autorizzativi, le intercettazioni delle comunicazioni tra presenti, di cui all’art. 266 c.p.p., comma 2, che per la loro intrinseca natura non necessitano della individuazione degli apparecchi, ma si riferiscono ad ambienti in cui deve intervenire la captazione, devono considerarsi legittime, con possibilità di piena utilizzazione dei risultati, anche quando in corso di esecuzione intervenga una variazione dei luoghi in cui deve svolgersi la captazione, purchè rientrante nella specificità ambientale oggetto dell’intercettazione autorizzata. Si tratta di un principio che la giurisprudenza in varie occasioni ha applicato con riferimento ad intercettazioni autorizzate sull’autovettura dell’indagato e che ha ritenuto di poter proseguire, senza ulteriore autorizzazione, su una diversa autovettura utilizzata dalla persona oggetto del controllo (Sez. 1^, 3 giugno 1999, n. 4561, Lonoce)" (in terminis Cass. 15396/2008 in motivazione che, in aderenza al suddetto principio, ha ritenuto utilizzabili i risultati delle intercettazioni di comunicazioni tra presenti anche quando nel corso dell’esecuzione intervenga una variazione dei luoghi in cui deve svolgersi la captazione, purchè rientrante nella specificità dell’ambiente oggetto dell’intercettazione autorizzata: fattispecie in cui l’autorizzazione dell’intercettazione tra presenti aveva ad oggetto la sala colloqui della casa circondariale in cui si trovava l’imputato e le operazioni di captazione erano proseguite presso la sala colloqui della casa circondariale in cui lo stesso era stato successivamente trasferito).

E’ evidente che il suddetto principio di diritto, al quale va dato continuità, ben può essere applicato anche al caso di specie tanto più ove si consideri che il luogo dove fu captato il colloquio fra il M. ed il P., distante dal capanno, secondo l’assunto della difesa, appena venti metri, va ritenuto una mera pertinenza che, secondo la stessa definizione che ne da il codice civile (art. 817 e ss.), non può essere considerata un luogo del tutto diverso da quello dell’immobile cui accede, proprio perchè, benchè presenti una sua autonomia, è destinata a servire la cosa principale con la quale, quindi, sia sotto il profilo fattuale che giuridico, è destinata a formare un tutt’uno (cfr art. 818 c.c., comma 1).

Alla stregua di quanto appena detto, può pertanto, enunciarsi il seguente principio di diritto: "in tema di intercettazione ambientali ex art. 266 c.p.p., comma 2, l’intercettazione, una volta autorizzata in un determinato luogo, è consentita anche nelle pertinenze del medesimo, senza necessità di alcuna specifica autorizzazione atteso che la pertinenza non può considerarsi un luogo diverso da quello della cosa principale relativamente alla quale l’attività captativa sia stata legittimamente autorizzata".

DECRETI N. 1792/03 – N. 1760/04: sostiene il M. che i suddetti decreti (così come quello di convalida del g.i.p.) sarebbero privi di alcuna motivazione sia in ordine alla indisponibilità delle postazioni in dotazione della Procura della Repubblica ("poichè non si rinviene, agli atti del processo" la certificazione "dalla quale dovrebbe emergere l’insufficienza degli impianti situati presso la sai d’ascolto"), sia in ordine all’urgenza.

I decreti in questione sono così motivati: "rilevato che, come attestato da certificazione allegata al presente decreto tutte le postazioni in dotazione alla Procura della Repubblica sono già impegnate nell’ascolto e registrazione di intercettazioni attive nell’ambito di indagini tutt’ora in piene svolgimento; che pertanto gli impianti situati presso la sala ascolto della Procura della Repubblica risultano insufficienti. Ritenuto che non può attendersi la prossima disponibilità di postazioni ivi collocate, atteso che sussistono obiettive ragioni di urgenza che impongono l’immediata attivazione dell’intercettazione e che dette ragioni paiono inoltre eccezionali (eccezionaiità determinata dalla natura dei reati per i quali si procede, dalla constatazione che l’attività criminosa è pienamente in corso, ed infine dall’imminente pericolo che ogni ulteriore ritardo possa pregiudicare l’acquisizione di importanti e determinati elementi probatori)(….)".

Ora, richiamati i principi di diritto sopra enunciati (supra sub decreto n. 1820/2004), la doglianza del ricorrente deve ritenersi infondata. Il fatto che nel decreto sia indicata come allegata una certificazione che avrebbe dovuto attestare che gli impianti erano tutti impegnati, e che la certificazione, poi, non risulta essere stata allegata, non rende di certo inutilizzabile l’intercettazione.

Infatti, l’art. 268 c.p.p., richiede, come unica condizione, che il P.m. motivi sulla insufficienza degli impianti: il che, come risulta dal tenore testuale della motivazione, è stato fatto in modo ampio.

La circostanza che il P.m. abbia richiamato una certificazione, poi, però, non allegata, non incide minimamente sulla legittimità del decreto perchè, il medesimo, risulta motivato e quella certificazione sarebbe stata null’altro che un di più. Diversa sarebbe stata l’ipotesi in cui il P.M., con semplice motivazione per relationem, si fosse riportato alla suddetta certificazione: in questo caso, in effetti, poichè la ragione dell’insufficienza sarebbe stata contenuta nel certificato, mancando questo, la motivazione sarebbe stata inesistente. Ma, per quanto detto, così non è nel caso di specie, perchè il P.m. ha autonomamente e ampiamente motivato in ordine alla insufficienza degli impianti della Procura, sicchè quella certificazione deve ritenersi del tutto superflua. Quanto, infine, alla pretesa mancanza di motivazione del decreto di convalida del g.i.p., va osservato che il suddetto decreto, benchè sintetico, deve ritenersi rispondente al criterio di cui all’art. 267 c.p.p., comma 2, in quanto con esso il g.i.p., nel condividere la motivazione del P.M., ha mostrato di aver effettuato un controllo sulla medesima. Quanto alla pretesa mancanza di motivazione in ordine all’urgenza, deve rilevarsi che, secondo un consolidato orientamento, il presupposto dell’urgenza mentre deve sussistere nell’ipotesi in cui il compimento delle operazioni mediante impianti in dotazione della polizia giudiziaria sia determinato dall’insufficienza degli impianti esistenti presso la procura della Repubblica, non deve ricorrere nel caso in cui tale utilizzo sia dovuto all’inidoneità degli impianti presso la procura, dal momento che il ricorso ad uno strumento di ricerca della prova non può essere condizionato dal tempo necessario all’ufficio giudiziario per dotarsi di attrezzature più efficienti (ex plurimis Cass. Sez. 5^ 9 maggio 2002, n. 43464, P.M. in proc. Pinto; Sez. 5^, 11 maggio 2004, n. 24141, Mancuso; Sez. 5^, 29 settembre 2006, n. 36090, Santangelo; Cass. 15396/2008 cit.). Ne consegue che qualora lo strumento della captazione sia funzionale ad evitare la commissione di altri delitti, come nel caso di specie in cui si procedeva per il reato di cui all’art. 416 bis c.p., l’urgenza di procedere utilizzando impianti diversi da quelli presenti negli uffici di procura è desumibile dallo stesso contesto del processo e dalla natura delle imputazioni, potendo cioè essere desunto anche implicitamente. Peraltro, nel caso di specie, il P.M. ha disposto il ricorso ad apparecchiature esterne non solo perchè quelle in dotazione della Procura erano insufficienti (il che già di per sè giustificava l’urgenza) ma anche per ulteriori ed ampi motivi desumibili oltre che dalla motivazione anche dalle richieste della P.G. allegate ai decreti. Infine, va rilevato che il ricorrente non ha chiarito nè specificato il contenuto delle intercettazioni e che rilevanza abbiano, ai fini processuali: il che, rende inammissibile la doglianza per mancanza di specificità e/o carenza di interesse.

DECRETI N. 2204/03 – 1539/04 – 1560/0 – 4288/04 – 0289/04: il ricorrente M., anche in relazione ai suddetti decreti ribadisce le stesse doglianze e cioè che: sarebbero privi di motivazione in ordine alla insufficienza degli impianti della Procura, ai motivi per cui veniva disposta l’attività captativa, alla necessità di persistere nell’attività di indagine; non era stata allegata la certificazione attestante l’insufficienza delle postazioni in Procura; i decreti di convalida erano privi di motivazione. Sennonchè va replicato che:

– tutti i decreti del P.m. risultano ampiamente motivati sia in ordine all’insufficienza degli impianti della Procura che in ordine all’urgenza: vale, mutatis mutandis, quanto detto in precedenza;

– la mancanza di certificazione attestante l’insufficienza degli impianti in Procura, è irrilevante;

– la necessità delle proroghe risulta ampiamente dalle note della Questura di Palermo prodotte dalla stessa difesa; – sulle convalide del g.i.p., vale, mutatis mutandis, quanto già detto. Infine, anche per i suddetti decreti, va osservato che il ricorrente non ha chiarito nè specificato il contenuto delle intercettazioni e che rilevanza abbiano, ai fini processuali: il che, sotto questo ulteriore profilo, rende la doglianza inammissibile per mancanza di specificità e/o carenza di interesse. p.3.2. violazione dell’art. 603 c.p.p. (motivo sub 2.1.3. ricorso M. e motivo sub 2.2.2. ricorso F.): la Corte territoriale, investita dalle richieste di rinnovazione dell’istruttoria, le ha disattese con amplissima motivazione (ritrascritta a pag. 100 – 106 della sentenza impugna), spiegando, sia in diritto – con il puntuale richiamo alla giurisprudenza di questa Corte – che in fatto le ragioni per le quali non riteneva di accoglierle.

In questa sede, i ricorrenti hanno censurato la suddetta decisione ma va replicato che la doglianza è generica in quanto non adduce argomenti, nè in diritto nè in fatto, tali da far ritenere che l’ordinanza sia affetta da errori interpretativi dell’art. 603 c.p.p., o da illogicità, carenze o contraddittorietà in ordine all’iter motivazionale. p.4. MOTIVI COMUNI. p.4.1. ILLOGICITA’ – CARENZA E CONTRADDITTORIETA’ DELLA MOTIVAZIONE (motivo sub 2.1.2. ricorso M. – motivo sub 2.2.1. ricorso F. – motivo unico ricorso R.): tutti e tre i ricorsi, sebbene con diverse argomentazioni, hanno censurato l’impugnata sentenza contestandone l’iter motivazionale sia nelle premesse (descrizione del contesto in cui maturò l’omicidio e, quindi, del movente) sia nell’interpretazione che la Corte ha dato degli indizi a carico di ognuno dei singoli imputati.

Per evitare, quindi, inutili ripetizioni e sovrapposizioni, le censure che hanno ad oggetto argomenti omogenei saranno valutate unitariamente, mentre separatamente saranno analizzate le doglianze che riguardano i singoli imputati. p.4.1.1. il CONTESTO ED il MOVENTE: si è già anticipato in parte narrativa che a questo argomento la Corte ha dedicato ampio spazio (da pag. 115 a pag. 178) e che, sulla base di molteplici riscontri, è giunta alla conclusione che l’omicidio G. va classificato come un omicidio di mafia, perchè voluto e deliberato da P. F. – boss mafioso legato a Pr.Be. – il quale non sopportava che il G., con il suo attivismo, gli togliesse spazio e lavoro nel mondo degli appalti. Tutti e tre i ricorrenti – come si è sinteticamente illustrato in parte narrativa ( M.:

pag. 5/13 ricorso – F.: pag. 3/12 ricorso in proprio – R. pag. 7/22 ricorso) – contestano la ricostruzione effettuata dalla Corte sostenendo, sotto vari profili, che la medesima sarebbe affetta da illogicità e contraddittorietà atteso che:

– si fonda sulle dichiarazioni di soggetti ( B. – S. e Gi.) le cui conoscenze delle dinamiche di Cosa Nostra si fermavano ad anni prima del delitto, essendo stati arrestati ben prima del fatto per cui è processo;

– era contraddittorio ed illogico attribuire la decisione dell’omicidio al solo P., sia perchè l’istruttoria aveva evidenziato che il G. aveva numerosi nemici molto potenti ed influenti nell’ambito di Cosa Nostra, sia perchè il P., nel luglio del 2004, e quindi pochi mesi dell’omicidio, si era riappacificato con il G. avendo concordato di spartirsi i lavori della metropolitana, sia perchè, se era vero che il P. era il referente di Pr., non era pensabile che il delitto venisse deliberato senza l’approvazione di costui e senza il consenso del boss V. nel cui territorio di competenza doveva essere eseguito;

– non era stato con certezza escluso che il movente fosse un altro dei quattro prospettati dalla difesa.

Le suddette censure, non colgono nel segno, in quanto i ricorrenti, chi in un modo chi un altro, si limitano ad isolare singoli punti dell’ampia motivazione della sentenza, per meglio confutarla e far risaltare, quindi, una pretesa contraddittorietà e/o illogicità. Ma così non è per le ragioni di seguito indicate. p.4.1.2. Dichiarazioni di B. – S. e Gi.: la Corte territoriale non ha affatto fondato la sua decisione sulle sole dichiarazioni dei suddetti collaboranti: molto più semplicemente, se ne è avvalsa per dimostrare che il G., anche negli anni in cui i suddetti collaboranti erano ancora esponenti di spicco di Cosa Nostra, si era creato numerosi nemici a causa della sua intraprendenza nel mondo degli appalti (lavori di metanizzazione in territorio di Altavilla Milicia – lavori relativi al c.d. pennello a mare di Casteldaccia: cfr pag. 117 sentenza), tant’è che il B., al quale faceva capo il G., dovette intervenire personalmente per evitare che venissero prese nei confronti di costui "gravi sanzioni": il P., infatti, già in quegli anni, aveva minacciato di morte il G. (cfr pag 117/118/122 sentenza). E la Corte ha cura di precisare che le suddette dichiarazioni erano attendibili non solo perchè furono rinvenuti dei ed pizzini provenienti dal Pr. con oggetto la questione G. (cfr. pag. 119 ss), ma anche perchè i suddetti collaboratori avevano riferito, appunto, solo fatti relativi al periodo in cui facevano parte di Cosa Nostra e, quindi, di cui erano a conoscenza diretta, non avendo nessun motivo di astio con gli attuali imputati che ai loro occhi erano dei perfetti sconosciuti essendo le nuove leve del sodalizio mafioso affermatisi dopo il loro arresto: amplius, per ulteriori riscontri, cfr pag. 157 ss in cui la Corte da atto degli esiti della sentenza, passata in giudicato il 14/10/2009, del processo c.d. Grande Mandamento.

La verità è, quindi, che, nell’economia della motivazione, la Corte ha utilizzato le dichiarazioni di B., S. e Gi. non per dimostrare la colpevolezza dei prevenuti, ma, molto più semplicemente, per ricostruire il contesto nel quale era sorta la decisione di uccidere il G., decisione che veniva, appunto, da lontano e che trovava la sua genesi nel fatto che la vittima era un imprenditore che, sebbene anch’esso colluso con la mafia, cercava di inserirsi in zone di competenza che erano sotto l’influenza diretta di famiglie mafiose a lui ostili e delle quali non faceva parte: non vi è, quindi, su questo punto, alcuna contraddittorietà o illogicità nella motivazione della Corte territoriale. p.4.1.3. Il RUOLO DI P.: come si è detto in parte narrativa, la Corte territoriale attribuisce la decisione omicidiaria al P. e desume tale fatto da un colloquio intercettato in data 17/09/2004, nel corso del quale il suddetto P. dette mandato di eseguirla al proprio figlioccio nonchè astro nascente del Gotha mafioso, M.N..

Tutti e tre i ricorrenti, chi in un modo chi un altro, si dolgono della suddetta conclusione sostenendo che sarebbe illogica perchè il G. era malvisto non solo dal P. ma anche da altri boss, fra cui il Pr. ed il V.. Di conseguenza, poichè non vi era prova alcuna che costoro avessero dato il loro benestare all’omicidio, non era pensabile che P. potesse averlo deciso da solo. Il solo R., poi, continua a sostenere che la Corte non avrebbe adeguatamente smentito gli ulteriori ed alternativi moventi fra cui quello dell’omicidio passionale.

Anche le suddette censure vanno disattese.

Quanto alle c.d. piste alternative ancora adombrate dal R., va osservato che la Corte territoriale le ha prese ampiamente in esame e le ha confutate con motivazione ampia, congrua ed aderente agli evidenziati elementi probatori (cfr pag. 151/155 quanto al movente passionale; pag. 156 quanto all’omicidio attuato da un altro gruppo di mafia), sicchè, anche a fronte di una doglianza del tutto generica ed assertiva, essendo priva di alcuna puntuale motivazione, la medesima non può che essere respinta.

Quanto al ruolo del P. ed ai suoi rapporti con il Pr., va osservato quanto segue.

La Corte territoriale, in diverse pagine della sentenza (pag. 123 ss – 129 ss), sulla scorta di precisi riscontri probatori, ha cura di descrivere e focalizzare la figura del P. – descritto come un doppiogiochista ("tragediatore") – fin da quando, astro nascente di Cosa Nostra in quanto creatura di P., piano piano, tramando nell’ombra ed approfittando dell’arresto dei boss Sp. e Sc., era riuscito a diventare il boss del mandamento Misilmeri – Belmonte – Mezzagno nel quale aveva assunto una figura centrale grazie al fatto che era il referente di Pr..

La Corte, poi, prende in esame i rapporti fra il G. ed il P. (pag. 140) e, sulla base di precisi ed analitici riscontri probatori (pag. 141 ss) giunge alla conclusione che era stato il P. a decidere l’omicidio e a dare mandato al M. perchè lo eseguisse. La Corte, prende anche in esame la tesi difensiva della necessità del consenso di Pr. e V. e la confuta sulla base del seguente iter motivazionale:

– doveva ritenersi provato che il Pr. aveva mostrato ostracismo nei confronti della richiesta del G. che, all’uopo, aveva richiesto anche l’intermediazione di altri boss mafiosi, di rientrare nel giro degli appalti: cfr pag. 159 sentenza;

– la conflittualità fra il P. ed il G., nel 2004, si era ancor di più acuita come dimostrato anche dal fatto che il M., dietro richiesta del P., aveva fatto pressioni sulle ditte che si avvalevano del G. e che ricadevano nella zona di influenza del P., finalizzate a non farlo più lavorare: cfr pag. 164 e 170 sentenza;

– la decisione di uccidere il G. risaliva a più di anno prima e non era stata portata a termine perchè lo Sc., che avrebbe dovuto eseguire l’omicidio, era stato arrestato (pag. 166):

da questo dato di fatto la Corte trae la conclusione che, poichè a succedere allo Sc. nella reggenza del mandamento Belmonte Mezzagno – Misimeri che estendeva la sua influenza anche sul mandamento Villabate – Bagheria (dove operava il G. e dove venne ucciso), era stato il P., non poteva che essere stato costui ad impartire l’ordine di uccidere il G. perchè a lui spettava, secondo le regole dell’organizzazione criminale, adottare le sanzioni nei confronti di coloro che avevano cagionato un danno (pag. 167); – è vero che dal contenuto dell’intercettazione del colloquio fra il P. ed il M., avvenuto il 17/9/2004, si desumeva che il P. ed il M. avrebbero dovuto incontrarsi con il V. ed il Pr., ma è anche vero che la circostanza che i servizi di appostamento non rilevarono i suddetti incontri, non escludeva che non avvennero, tanto più che vi erano concreti indizi che deponevano in tal senso sia per l’incontro con V. (cfr pag. 194) sia per l’incontro con P. (cfr pag. 195/197);

– in realtà, "contrariamente all’assunto difensivo è assolutamente pacifico, in ogni caso, che il P. non aveva affatto in mente di chiedere al Pr. di essere autorizzato ad uccidere il G." (pag. 197): sul punto la Corte si dilunga con dovizia di particolari e di riscontri a spiegare le ragioni per le quali il P., in realtà, da quel doppiogiochista che era, aveva solo intenzione di "ottenere dal P. una sorta di ratifica ex posi fermo restando che l’uccisione del G. dovrà essere prospettata al boss corleonese in modo che siano altre componenti di Cosa Nostra a doversene intestare la paternità" (pag. 199), ossia il boss V. al quale il G. aveva fatto uno sgarbo e L. M.G..

Ora, è chiaro che, alla stregua della suddetta motivazione, le censure dedotte vanno ritenute del tutto fuorvianti e non pertinenti.

Innanzitutto, non è vero che, quanto all’incontro con V. e Pr., la motivazione sia apodittica ed illogica. Al contrario, la Corte svolge una doppia motivazione: 1) il fatto che i servizi di appostamento non rilevarono gli incontri, non significava che non vi furono: questa è una semplice, quasi banale osservazione sicchè non si vede il motivo per cui dovrebbe essere ritenuta illogica tanto più che il P. era latitante e di certo non si può sostenere che era sottoposto a sorveglianza. In altri termini, si vuoi dire, l’osservazione della Corte territoriale avrebbe potuto essere tacciata di illogicità e/o contraddittorietà se vi fosse stata la certezza che il V. ed il Pr. erano sottoposti a sorveglianza 24 ore su 24: ma siccome ciò non è, allora la motivazione non si presta ad alcuna censura sul piano logico. 2) In secondo luogo, la Corte ha anche motivato indicando precisi indizi che facevano ritenere che, in realtà, i suddetti incontri vi erano stati: sul punto nei ricorsi ne verbum quidem, il che, già di per sè consente di ritenere la censura aspecifica essendo ben noto che in presenza della ed. doppia motivazione (ossia una motivazione composta da due o più argomenti di fatto e/o giuridici ognuno dei quali, essendo autonomo dagli altri, giustifica e sorregge da solo la decisione), il ricorrente, in aderenza al principio della specificità ( art. 581 c.p.p.), deve censurare la motivazione in tutti quei profili di fatto e di diritto che presentano una loro autonomia e non limitarsi a censurare solo alcuni dei motivi addotti dal giudice. Infatti, quand’anche si ritenesse la fondatezza della doglianza proposta solo relativamente ai profili della motivazione censurata, resta il fatto che l’accoglimento della censura non sarebbe idonea a travolgere i diversi profili addotti nella motivazione dal giudice a sostegno della propria decisione, i quali, corretti o sbagliati che siano, non essendo stati sottoposti ad alcuna censura, devono ritenersi passati in giudicato. In secondo luogo, la tesi difensiva, non fa alcun cenno a quella che, in realtà, come si è illustrato, è la tesi portante fatta propria dalla Corte territoriale e cioè che il P. decise l’omicidio senza chiedere il consenso preventivo nè al P. nè al V.. La censura, pertanto, anche sotto questo profilo, va ritenuta manifestamente infondata per le stesse ragioni dianzi indicate e cioè per mancanza di specificità rispetto all’argomento principe addotto dalla Corte territoriale che, quindi, deve ritenersi definitivamente accertato non essendo stato fatto oggetto di alcuna specifica doglianza. p.4.1.4. RIAPPACIFICAZIONE FRA P. E G. NEL LUGLIO DEL 2004: come si è detto in parte narrativa, la stessa Corte territoriale, da atto che G.R., figlia della vittima, aveva dichiarato che, nell’estate del 2004, aveva visto il padre mentre aveva un incontro con il P. presso il bar (OMISSIS).

Successivamente il padre le aveva "confidato che questo incontro poteva essere foriero di un ritorno alla grande nel settore degli appalti, potendo agevolare la sua introduzione nel grande affare della Metropolitana di (OMISSIS), cui pure il P. era interessato".

Prendendo spunto da tale fatto, la difesa del M. osserva che, allora, sarebbe illogico che ad ordinare l’omicidio fosse stato il P. atteso che, da appena pochi mesi, i due si erano riappacificati. In realtà, ancora una volta, la difesa si sofferma solo su una singola parte della motivazione senza avere cura di analizzarla e valutarla nel suo complesso.

In realtà, la Corte territoriale si pone il problema della compatibilità fra il comportamento amichevole tenuto dal P. nell’incontro del luglio 2004 ed il successivo mandato omicidiario affidato al M. nel settembre dello stesso anno.

La Corte, infatti, sul punto, scrive: "… Assai significativo appare, soprattutto, che, come risulta processualmente accertato, dopo essere stato estromesso dalle commesse della (OMISSIS), il G. avesse raggiunto un nuovo accordo con l’ Al. che prevedeva la ripresa delle forniture il giorno dopo di quello in cui ebbe a verificarsi il fatto omicidiario. E poichè, com’è logico, era stato il P. il soggetto che aveva premuto sull’ Al. per la estromissione del G., è da escludere, a meno che si reputi il titolare della impresa di calcestruzzi operante nel piccolo centro di (OMISSIS) una sorta di kamikaze, che questi avesse potuto contraddire l’ordine ricevuto dal capomafia locale, addivenendo ad un nuovo contratto di fornitura con il G., senza l’autorizzazione dello stesso P.. Ed allora non vi è chi non veda che l’apparente avvicinamento del G. al P. è stato sapientemente sfruttato da quest’ultimo per precostituirsi, da quell’abile tragediatore che era, un alibi di tutto rispetto. Ed invero, chi, senza la intercettazione di contrada Mendola, avrebbe mai potuto sospettare di lui se aveva perfino consentito che il povero G. tornasse a lavorare in (OMISSIS) e cioè in quello che era il cuore del suo impero".

Ora, è chiaro che la censura sarebbe fondata se la Corte, in modo apodittico, avesse tratto la conclusione che quell’incontro era stato un alibi che il P. aveva inteso precostituirsi. In realtà, come si può notare dalla lettura dell’intero brano, la Corte è pervenuta a quella conclusione dopo aver analizzato ed interpretato un altro dato storico (e cioè che, contemporaneamente, il P. estrometteva dalle commesse, il G.) alla luce del quale la motivazione va ritenuta logica, adeguata e coerente tanto più che il M. nulla ha dedotto in merito alla suddetta circostanza. p.5 MOTIVI M.. p.5.1. ATTENDIBILITA’ DICHIARAZIONI DI C.: come si è detto in parte narrativa, la Corte territoriale ha desunto un corposo indizio a carico del ricorrente dalle dichiarazioni del C..

Il ricorrente, quindi, in questa sede, ha cercato di minare le suddette dichiarazioni, sostenendo, sostanzialmente, che il C. era inattendibile.

La censura va disattesa per le ragioni di seguito indicate.

La Corte territoriale prende in esame in più parti della sentenza le dichiarazioni del C. che utilizza sia per corroborare quanto scritto a proposito del contesto in cui l’omicidio era maturato sia come indizi diretti a carico del ricorrente per il delitto.

L’attendibilità del C. è vagliata positivamente dalla Corte a pag 165 (con il rinvio, sul punto, alla sentenza del processo "Grande Mandamento" passata in giudicato), e, funditus, a pag. 208 ss.

In questa sede, il ricorrente, pur contestando, se pure in modo assolutamente generico, il giudizio di attendibilità effettuato dalla Corte, si concentra nel tentativo di confutare, sul piano storico – fattuale e su quello logico, le seguenti dichiarazioni del C.: – quelle con cui costui aveva dichiarato che il P., nel 2003, aveva incaricato dell’omicidio tale Sc. – mosso da un movente personale – che, però, non potette portarlo a termine essendo stato arrestato. Sennonchè, obietta il ricorrente, era palese che il movente personale dello Sc. non era compatibile con il fatto che l’omicidio era maturato all’interno di Cosa Nostra ed era illogica la sentenza che collocava l’operato del P. – ossia il conferimento del mandato omicidiario al M. – al momento dell’arresto dello Sc. avvenuto il 6/10/2003, per poi contestualizzarlo al 17/09/2004 ossia un anno dopo, quando, nel luglio del 2004, era già avvenuto un accordo tra il P. ed il G. sulla spartizione dei lavori della metropolitana;

– quelle con cui il C. aveva riferito di avere appreso dallo stesso M. che aveva ricevuto il mandato di uccidere il G.: sul punto il ricorrente osserva che non potevano ritenersi attendibili sia perchè il C. aveva riferito circostanze apprese genericamente e autonomamente interpretate – come aveva riconosciuto la stessa sentenza in cui si parlava di "personali deduzioni e congetture del collaborante" – sia perchè nutriva, nei confronti del M., un particolare astio;

– quelle in ordine all’incontro che il C. ebbe con L. M. subito dopo l’omicidio: sul punto, sia il M. che il F., obiettano che il ragionamento della Corte sarebbe incongruente e contraddittorio sia perchè basato su una mera impressione del C. sia perchè quando costui, in un secondo momento, si incontrò con il L.M. al (OMISSIS) già sapeva che ad essere stato ucciso era stato il G., perchè aveva riconosciuto il figlio della vittima che gridava "papa": nessun elemento, quindi, escludeva che anche il L.M., nella more fra il primo e secondo incontro con il C., aveva appreso, in modo occasionale, che la vittima era il G.: il che portava ad escludere che il L.M. sapesse in anticipo chi fosse la vittima. Le censure, nei termini in cui sono state dedotte, sono destituite di fondamento per le ragioni di seguito indicate. p.5.1.1. Incarico dell’omicidio G. a Sc.: la Corte prende espressamente in esame la suddetta obiezione a pag. 166 ss e la disattende con amplissima motivazione. La censura, quindi, va ritenuta generica ed aspecifica proprio perchè il ricorrente non ha speso una sola parola per confutare, sul piano della logicità, contraddittorietà o carenza, la motivazione addotta dalla Corte, essendosi limitato solo a riproporre quella stessa doglianza ampiamente presa in esame e disattesa dalla Corte territoriale. p.5.1.2. Confidenza ricevuta dallo stesso M. in ordine AL MANDATO OMICIDIARIO: si tratta dell’argomento trattato a pag. 208 ss della sentenza con il quale la Corte territoriale – dopo aver dato atto del fatto che alcune parti delle dichiarazioni del C. destavano perplessità – spiega, in modo accurato, alla luce di oggettivi riscontri, il motivo per cui il C. doveva ritenersi attendibile e perchè non vi era ragione di ritenere che, al momento in cui il C. aveva ricevuto la suddetta confidenza, fra i due esistessero dei dissapori che, invece, maturarono tra l’agosto ed il settembre del 2004 determinando la rottura di ogni rapporto (pag.

210). Orbene, a fronte di tale ampia motivazione, ancora una volta, il ricorrente, lungi dal dedurre censure specifiche, si limita ad una generica doglianza sostenendo l’inattendibilità del C. e facendo leva sul fatto che nutriva dell’astio nei suoi confronti, ma ignorando del tutto quella parte della sentenza in cui la Corte ha spiegato che la suddetta confidenza venne fatta quando fra i due vi era piena armonia. p.5.1.3. Incontro del C. con il L.M. subito dopo l’omicidio: di tale argomento, la Corte territoriale tratta funditus a pag. 280 ss. della sentenza dove viene confutata la stessa identica tesi difensiva riproposta in questo grado e di cui si è dato atto (cfr pag. 281/282).

Non resta, quindi, che ritenere anche la suddetta doglianza affetta da mancanza di specificità essendosi i ricorrenti M. e F. limitati solo a riproporre quella stessa doglianza ampiamente presa in esame e disattesa dalla Corte territoriale senza dedurre o evidenziare alcun vizio di legittimità. p.5.2. COLLOQUI INTERCETTATI DEL 30/7/2004 (FRA PI. E VI.) E QUELLO DEL 6/10/2004 (FRA I CUGINI VI.): questo argomento è trattato dalla Corte sia in parte narrativa (a pag. 33 ss) che in parte motiva (a pag. 171 ss) e riguarda "gli ultimi avvenimenti che fanno da sfondo al mandato omicidiano impartito il 17 settembre 2004 da P. al suo figlioccio" M.. In sostanza, la Corte, interpretando l’intercettazione del 30/7 alla luce di quella del 6/10, afferma che "con riguardo alle commesse della calcestruzzi di Casteldaccia, gli interessi del Mi. di favorire il proprio nipote n.d.r.: Ra.Fr. e quelli del P. di vedere estromesso da qualsiasi lavoro il suo nemico giurato n.d.r: il G., possono essere andati di pari passo, senza che della questione sia stato messo al corrente il Mo. ndr: il reggente la famiglia mafiosa di Bagheria sotto la cui ala protettrice – in cambio di tangenti e favori – il G. si era messo per cercare di ampliare e/o mantenere il suo giro di affari".

In altri termini, la Corte, dalle suddette intercettazioni trae un ulteriore argomento per sostenere che il P. era l’acerrimo nemico del G. tant’è che, grazie alla longa manus del M., cercava di estrometterlo dalle commesse minacciando i fornitori che ancora si servivano dell’impresa che faceva capo al G..

Sennonchè il ricorrente obietta che i suddetti colloqui erano non solo inconcludenti ma erano anche stati interpretati in modo illogico e contradditorio. Infatti, quanto al colloquio del 30/07/2004 si desumeva chiaramente che altri soggetti – Mi.Gi. e Mo.On. – erano interessati a che il G. fosse estromesso dal mondo degli appalti. Quanto al colloquio del 6/10/2004, in cui si parlava dell’unico accordo intervenuto tra il G. ed il Mo., nulla escludeva che nell’estate del 2004 il G. avesse concluso con altri soggetti, altri accordi. Alla suddetta doglianza si deve replicare quanto segue:

– la stessa Corte da preliminarmente atto che Pi. e Vi.

– mafiosi stigmatizzati come "di modesto spessore" dai quali il G. aveva, senza alcun successo, cercato tutela – "non avevano ben compreso… chi vi fosse dietro il diktat imposto alla S.I. di I. e s. di non far lavorare il G., se è vero che indicano il solo Mi., e dietro di lui Mo.On.";

– la Corte, subito dopo, precisa che, da una intercettazione ambientale del 12/7/2004 fra Mo. e B., "sembra ricavarsi che il capo della famiglia di Bagheria ndr: Mo. era estraneo al veto nei riguardi di G.T. che un certo N., pacificamente identificabile in M.N., aveva fatto ad I., titolare della calcestruzzi di (OMISSIS)";

– la Corte, poi, scrive che a "far definitiva chiarezza al riguardo" era, appunto, il colloquio intercettato il (OMISSIS) (quindi dopo l’omicidio) dal quale si desumeva che "in quella estate del 2004 l’unico effettivo chiarimento vi era stato fra il Mo. ed il G…." e che, proprio per questo i due cugini erano rimasti sorpresi dall’omicidio in quanto "era a posto a Bagheria come dire sull’unico versante dal quale credevano che il G. avesse motivo di temere seriamente";

– infine, la Corte, conclude che "con riguardo alle commesse della calcestruzzi di (OMISSIS), gli interessi del Mi. di favorire il proprio nipote e quelli del P. di vedere estromesso da qualsiasi lavoro il suo nemico giurato, possono essere andati di pari passo, senza che della questione sia stato messo al corrente il Mo.".

Alla luce della suddetta ampia, articolata e complessa motivazione, è del tutto evidente che la censura proposta in questa sede appare di poco momento perchè non fa altro che – per smentire la circostanza che nell’estate del 2004 il P., tramite il M., faceva pressioni sui vari fornitori per estromettere il G. dal mondo degli appalti – far leva solo sul colloquio fra il Pi. ed il Ve. ossia quei due mafiosi "di modesto spessore" che, essendo ai margini delle dinamiche e dei giochi di potere dei veri boss di Cosa Nostra, avevano capito ben poco di quello che stava succedendo. La suddetta motivazione, quindi, va ritenuta, da una parte, congrua ed adeguata rispetto agli oggettivi dati storici analizzati sotto il loro sviluppo cronologico e, dall’altra, logica e coerente nell’interpretazione che ne ha dato: di conseguenza, non essendo rawisabile alcuna delle contraddizioni o illogicità che il ricorrente lamenta, la censura va disattesa. p.5.3. COLLOQUIO DEL 17/09/2004: come si è rilevato in parte narrativa, è questo il più corposo degli indizi (rectius: prova specifica: infra 7.) che la Corte addebita al M. in quanto nel corso del colloquio intercettato emerge con chiarezza che il P. da mandato al M. di uccidere il G., incarico che il M. accetta ponendo come unica condizione il fatto che ad organizzarlo doveva essere lui con i suoi esclusivi mezzi non intendendo coinvolgere altre famiglie: l’argomento è trattato dalla Corte a pag. 179 ss della sentenza.

In questa sede, il ricorrente ha obiettato che:

– l’interpretazione che la Corte aveva dato del suddetto colloquio era soggettiva, ambigua e contraddittoria;

– in realtà, la versione fornita da esso ricorrente – secondo il quale quel colloquio andava interpretato solo come una mera richiesta alla quale egli "per viltà" non aveva saputo opporsi, ma al quale non era stato dato alcun seguito – forniva la vera chiave interpretativa del criptico linguaggio usato dagli intercolutori come dimostrato anche dal fatto che, nonostante i controlli ai quali erano sottoposti sia il P. che il M., non era mai stato registrato un incontro fra costoro ed il V. ed il Pr. senza il cui consenso l’omicidio non avrebbe potuto essere commesso. La doglianza, nei termini in cui è stata dedotta, è infondata. Quanto al preteso travisamento del contenuto del colloquio che, a dire del ricorrente, sarebbe criptico, deve ribattersi, che, al contrario, dalla lettura della sentenza, non traspare nullo di criptico in quanto, come ha chiarito la Corte (cfr pag. 183 ss), ad un certo punto, il P. ed il M., appartatisi, affrontarono l’argomento G., conclusero che bisognava passare ad altro ed il M. rappresentò che se spettava fare a lui il "lavoro", lo avrebbe fatto con uomini da lui personalmente scelti, senza legami ("incucchiamenti") con nessuno, intendendo con ciò il V..

D’altra parte, che il contenuto del colloquio fosse chiaro ed inequivoco, la Corte lo desume anche dal fatto che il M., nel corso del dibattimento di secondo grado, sentì il bisogno di rendere, sul punto, dichiarazioni spontanee con le quali, pur non contestando il contenuto del colloquio, e pur negando di avere commesso l’omicidio, sostenne che accettò l’incarico di uccidere il G. "per viltà", ossia perchè non ebbe la forza di dire no al suo padrino: il che, però, non significava che, poi, avesse portato a termine l’incarico ricevuto. In questa sede, il ricorrente torna a sostenere che il contenuto di quel colloquio andrebbe interpretato secondo le sue dichiarazioni, ossìa che aveva acconsentito ad uccidere il G. solo perchè non aveva avuto la forza di dire no al P. ma che, poi, in concreto, non eseguì il mandato anche perchè l’esecuzione era subordinata al nulla osta del V. e del Pr. che, però, non venne mai. Sennonchè si deve ribattere quanto segue:

– quanto al fatto che l’incarico fu accettato solo "per viltà", la Corte lo confuta in modo talmente ampio e con un profluvio di argomenti desunti dal tenore testuale della conversazione intercettata (cfr pag. 182 ss) che, davvero, non si capisce sulla base di quali motivi (neppure prospettati) si dovrebbe dar credito alla tesi difensiva del ricorrente ritenendo questa logica ed illogica e contraddittoria quella sostenuta dalla Corte;

– l’unico argomento che, in realtà, viene speso è quello secondo il quale in quel colloquio la decisione di uccidere il G. non era stata ancora presa perchè occorreva il nulla osta del Pr. e del V.: ma, anche questa tesi, come si è già detto (antea sub p.4.1.3.), e stata ampiamente confutata dalla Corte territoriale. p.5.4. MODALITA’ Di ESECUZIONE DELL’OMICIDIO: la Corte, a pag. 205 ss, ricostruisce i momenti immediatamente antecedenti e seguenti all’omicidio, quasi in tempo reale, minuto per minuto, avvalendosi delle intercettazioni ambientali del (OMISSIS) (captate sull’auto Bmw condotta dal M. e a bordo della quale si trovavano il F. ed il R.), delle intercettazioni telefoniche e delle risultanze del rilevatore GPS che permise di ricostruire, momento per momento, il tragitto che la Bmw fece il giorno dell’omicidio (cfr pag. 213 ss). Sulla base del suddetto compendio probatorio, la Corte, letti in modo unitario tutti gli indizi, è giunta a ritenere che ad eseguire l’omicidio fu un gruppo di fuoco composto dai tre attuali ricorrenti ed altre persone non identificate che utilizzarono una moto ed altre auto di appoggio trovate poi incendiate.

Il ricorrente, in questa sede, ha cercato di confutare i singoli elementi indiziali, sostenendo che fossero ambigui e non avessero la dignità di prova sufficiente a far ritenere che egli, nell’arco temporale intercorrente fra le ore 19,20 e 20,32, si trovasse sul luogo dell’omicidio.

Nel richiamare i motivi di gravame dedotti dal ricorrente e riportati nella presente parte narrativa, le doglianze, in ordine agli indizi alla fase esecutiva, possono essere raggruppate e riassunte nei seguenti termini. p.5.4.1. Intercettazione del (OMISSIS) (quindi il giorno ANTECEDENTE AL’OMICIDIO) FRA M. E R.: nella Suddetta intercettazione, il M., rivolgendosi al R., gli raccomanda di avvisare il L.M. "perchè vada a prendere quella certa cosa che lui sa, e di portargliela poi all’agenzia, facendosi spiegare come funziona". Da questa intercettazione, la Corte (pag.

218) trae la conclusione che già dal giorno prima cominciò a svilupparsi la fase preparatoria del delitto e che "la cosa" era, appunto, una pistola come si poteva desumere anche dal fatto che lo stesso R., all’indomani "si lascia sfuggire propria davanti casa del L.M., allorchè, nel momento in cui viene constatata l’assenza di quest’ultimo, esclama: ah! Ma io haiu…a pistola… ".

La Corte da atto, poi, della tesi difensiva ma la confuta in modo approfondito. In questa sede, il ricorrente, non ripropone neppure quanto sostenuto in grado di appello, ma si limita a ribattere che l’interpretazione della Corte sarebbe illogica non avendo i pretesi componenti del gruppo di fuoco, alcuna necessità di farsi spiegare come funzionava una pistola. Sennonchè si deve ribattere che l’obiezione, come si suoi dire, prova troppo per la semplice ragione che non solo non è provato che il R. (o lo stesso M.) avessero una perfetta conoscenza di tutti i tipi di pistola ma anche perchè, molto più banalmente, risponde alla logica e alla comune esperienza che chi consegna una pistola ad un altro soggetto si premuri, anche se il consegnatario è un esperto, di spiegargli, appunto, come funzioni, ed illustrane le caratteristiche e quant’altro serva per evitare inconvenienti dell’ultimo momento.

D’altronde, lo stesso ricorrente, abbandonata la tesi difensiva proposta in appello, non offre alcuna valida spiegazione alternativa a quella fornita dalla Corte che ne evidenzi vizi di legittimità. p.5.4.2. Esistenza di un gruppo di fuoco: la Corte, sulla base di una serie di circostanziati, univoci e convergenti indizi, sostiene che ad eseguire l’omicidio fu il gruppo di fuoco che faceva capo al M. e che l’omicidio fu eseguito non solo dai tre ricorrenti ma anche da altre persone, rimaste in parte sconosciute, che utilizzarono una moto e delle auto di appoggio che vennero, poi incendiate. Il ricorrente, ribatte che:

a) l’esistenza del gruppo di fuoco sarebbe il frutto di illazioni;

b) quand’anche fosse vero, sarebbe stato illogico che, pur conoscendo bene i luoghi dove l’omicidio avrebbe dovuto essere compiuto, fosse stato effettuato un sopralluogo solo il giorno dell’omicidio e poche ore prima;

c) non vi era alcuna prova che i mezzi trovati incendiati fossero quelli utilizzati per commettere l’omicidio perchè non vi era alcuna certezza nè in merito ai veicoli utilizzati nè in merito al numero di persone che vi avevano partecipato.

Anche la suddetta doglianza è destituita di fondamento.

Quanto alla censura sub a), la Corte (pag. 206 ss) sostiene l’esistenza di un gruppo di fuoco sulla base delle dichiarazioni rese dal C. e da tale c., confutando, in modo accurato la tesi difensiva tendente a svilire le dichiarazioni del C..

In questa sede, il ricorrente, al di là di ribadire che si tratterebbe di mere illazioni, non adduce alcuna censura dalla quale si possano arguire i vizi di legittimità dalla quale sarebbe affetta la motivazione addotta, sul punto, dalla Corte territoriale.

Quanto alla censura sub b), non può che ripetersi che si tratta di un argomento che prova troppo perchè, a livello logico, non è chiaro il motivo per cui gli imputati, sebbene conoscessero perfettamente il territorio, non avrebbero dovuto effettuare un sopralluogo: anzi, il fatto che l’abbiano eseguito poche ore prima dell’agguato, presidiando il luogo dove l’omicidio avrebbe dovuto essere eseguito, in pratica, fino all’esecuzione, è indice di professionalità perchè la scena del delitto sarebbe potuta mutare, all’improvviso, per imprevisti dell’ultima ora, specie se si considera che la stessa Corte ha cura di rilevare che – come risultava dalle preoccupazioni espresse dal F. – all’ora in cui il G. avrebbe dovuto essere colpito (ore 20), vi era, solitamente, un intenso traffico sulla strada che la vittima avrebbe dovuto percorrere a bordo del proprio motociclo.

Quanto alla censura sub c), va osservato che la Corte si occupa dell’argomento delle persone facenti parti del gruppo di fuoco e dei mezzi adoperati, in varie parti della sentenza (pag. 149 ss – pag.

224 – 227 – pag. 264 ss) e, sulla base di numerosi riscontri (sopralluogo eseguito dai tre imputati, il pomeriggio dell’omicidio proprio sul luogo dove poi vennero rinvenuti mezzi incendiati;

intercettazioni dalle quali si desumeva che presenti sul luogo erano anche altre persone non identificate; intercettazione del M. che, riferendosi alle auto rubate diceva che "le denunzie" di furto andavano fatte; dichiarazioni spontanee rese dal M. nel corso del processo di appello ritenute assolutamente inverosimili anche perchè smentite da una conversazione intercettata: cfr pag. 215) giunge alla conclusione che l’omicidio richiese "un forte spiegamento di forze" (pag. 264) e che i mezzi trovati incendiati non potevano che essere quelli utilizzati per l’agguato, non essendo affatto credibile la denuncia che uno dei proprietari dell’auto fece sostenendo che era stata rubata in un orario successivo all’omicidio.

Non è vero, quindi, che la Corte ha espresso incertezze in merito ai veicoli utilizzati e sul numero delle persone che parteciparono all’omicidio. Al contrario, la Corte, con motivazione ampia, congrua ed adeguata rispetto agli evidenziati elementi fattuali, sostiene che furono utilizzati mezzi rubati (tre auto ed una moto) per eseguire l’omicidio e mezzi "puliti" (ossia l’auto del M. e quella del R.) per la successiva fuga e che il gruppo di fuoco era composto da oltre sette persone. Il fatto che gli altri componenti del gruppo non furono individuati nulla toglie e nulla aggiunge alla responsabilità dei ricorrenti. p.5.4.3. Incombenze familiari svolte dal M. e dal R. il pomeriggio dell’omicidio: dalle intercettazioni in atti, si desume che, dalle ore 17,25 alle ore 17,46 i due suddetti imputati furono occupati a prelevare i rispettivi figli minorenni e portarli a casa.

Sulla base di questo elemento, i ricorrenti hanno sostenuto che sarebbe illogico che essi stessero preparando un omicidio mentre contemporaneamente erano occupati a gestire i propri figli.

L’argomento è stato trattato dalla Corte territoriale a pag. 226 ed è stato ritenuto "palesemente inconsistente se si considera che quel che i tre imputati si accingevano a fare nell’immediato non conteneva in sè alcun rischio, consistendo in una semplice ricognizione dei luoghi, operazione questa che ben poteva essere compiuta con l’autovettura di proprietà del M., che sarebbe stata invece lasciata a (OMISSIS) allorchè fosse scattata l’operazione omicidiaria vera e propria". Pertanto, la censura dedotta in questa sede, essendosi limitata ad una mera riproposizione di quella già disattesa dalla Corte territoriale, va ritenuta manifestamente infondata non essendo stato evidenziato alcun vizio di legittimità nel ragionamento della Corte. p.5.4.4. Il black OUT TELEFONICO: la Corte territoriale, sulla base dei tabulati telefonici dei telefonini in uso al M. ed al F., osserva che, fra le ore 19,20 e 20,32, si verificò una sorta di black out nel senso che, mentre fino ad allora numerose erano state le telefonate in entrata ed in uscita, al contrario, in quel lasso di tempo corrispondente all’ora dell’agguato avvenuto alle ore 20, non si registrò alcuna chiamata. La Corte utilizza questo oggettivo dato storico come ulteriore elemento indiziario a carico dei ricorrenti. Sennonchè costoro ribaltano il ragionamento e sostengono che la Corte, in considerazione del vuoto probatorio attinente l’arco temporale intercorrente fra le ore 19,20 e le ore 20,32, era stata costretta a ricorrere ad illazioni e supposizioni prive di ogni riscontro e, quindi, illegittime sul piano giuridico.

La doglianza, nei termini in cui è stata proposta, ancora una volta, è infondata.

La Corte, da pag. 240 a pag. 260, si fa carico della suddetta tesi difensiva e, in modo minuzioso, prendendo in esame il traffico telefonico dei telefonini in uso ai ricorrenti, il contenuto dei colloqui intercettati sulle utenze del M. e del F., la posizione dell’auto, dimostra, con dovizia di particolari, che il suddetto black out fu ordinato dal M. proprio per evitare di essere disturbato nell’imminenza dell’azione delittuosa e che le dichiarazioni spontanee rese nel corso del dibattimento di appello – secondo le quali aveva impiegato "il lasso di tempo dalle ore 19,17 circa alle ore 20,32 del (OMISSIS) in compagnia di una donna misteriosa, nell’appartamento messogli a disposizione dal padre" – erano del tutto inverosimili non peraltro perchè smentite da una conversazione intercettata (cfr pag. 215). La Corte rileva anche che il R., contravvenne all’ordine del M. di spegnere il telefonino – avendo effettuato due telefonate alle ore 19,46 e 19,47 al fratello Nicola che si trovava appostato pronto a segnalare il momento in cui il G. si fosse mosso dal Bar (OMISSIS) dove si trovava per tornare a casa – e che le suddette telefonate "partono dalla zona di via (OMISSIS), praticamente a ridosso del luogo in cui di lì a qualche minuto sarebbe stato assassinato il povero G.".

A fonte di tale amplissima motivazione, suffragata da oggettivi riscontri, il ricorrente si limita ad obiettare che l’affermazione secondo la quale il M. tenne acceso uno dei due telefonini per comunicazioni di estrema importanza, perchè non voleva che qualcuna delle sue donne gli telefonasse per evitare di essere localizzato, era illogica perchè un’eventuale chiamata, proveniente da altri soggetti, avrebbe comunque comportato la localizzazione dell’imputato.

La censura, a fronte del suddetto oggettivo quadro probatorio è del tutto ininfluente ai fini della decisione per le ragioni di seguito indicate.

I dati oggettivi evidenziati dalla Corte sono i seguenti:

– sicuramente il M. dette ordine, ai suoi sodali, di spegnere i telefonini: tanto risulta dal contenuto di un’intercettazione nella quale si ascolta il M. ordinare ai suoi di lasciare "ddà" (là) ossia in auto i telefonini (pag. 240);

– era questa un’abitudine consolidata del M. che, durante l’esecuzione delle sue azioni criminali era, appunto, solito spegnere i telefoni: cfr pag. 240 – 243/244;

– il M. aveva dato ordine alla moglie e all’amante M. T. di non telefonargli e la Corte ne spiega il motivo: cfr pag.

234/235 – 242/243;

– l’imputato spense uno dei due telefonini in suo possesso ma ne tenne acceso un altro – peraltro lasciato in auto – perche "al tempo stesso, il M., non potendo rinunziare quantomeno all’uso di uno dei telefonini nella sua disponibilità, dovendolo tenere acceso in caso di comunicazione di estrema importanza, non voleva che qualcuna delle sue donne gli telefonasse oltre una certa ora per evitare di essere localizzato": ed infatti, dopo l’omicidio, quando si recò a casa dell’amante che aveva trasgredito l’ordine, le fece una furiosa scenata (pag. 242).

Ora, come risulta evidente, quello che rileva sono i fatti nella loro oggettività che, analizzati e valutati nel loro sviluppo cronologico, hanno portato la Corte alla conclusione che: a) i telefonini vennero spenti nell’arco temporale in cui venne consumato il delitto; b) il preteso alibi fornito dal ricorrente (di trovarsi con una fantomatica amante) era risultato assolutamente incredibile;

c) anche il telefonino rimasto acceso fu lasciato nell’auto.

E’ da tutte queste circostanze, unitamente lette con gli altri indizi, che la Corte ha desunto che, quando scattò l’ora X, tutti gli imputati si recarono sul luogo prestabilito per l’agguato privi dei telefonini al fine di evitare di essere disturbati e/o individuati.

La spiegazione che la Corte territoriale ha dato del motivo per cui il M. non spense uno dei telefonini nella sua disponibilità, non è illogica in modo conclamato ove si consideri che l’imputato non lo portò con sè ma lo lasciò pur sempre sull’auto, anche se si può dare atto che si potrebbero prospettare altre spiegazioni pure plausibili. Ma, il punto, non è questo perchè, anche ove fossero possibili altre spiegazioni o, in ipotesi, anche ove sì ritenesse che quella fornita dalla Corte è illogica, nulla cambierebbe in favore dell’imputato perchè si tratta di un elemento del tutto secondario ed irrilevante nell’ambito del complesso ed imponente quadro probatorio a carico dell’imputato.

P.5.4.5. Il coinvolgimento del L.M.: costui, pur non essendo mai stato imputato del delitto, è stato ritenuto dalla Corte territoriale come uno dei sicuri partecipi all’omicidio. La Corte è giunta a tale conclusione sulla base non solo dei continui contatti che il M. ebbe con il L.M. prima del delitto (esattamente il (OMISSIS): cfr pag. 218), il pomeriggio del delitto (cfr pag. 219/224 – 221 – 231) e subito dopo il delitto (e cioè quando fu visto dal C. nei pressi del luogo dove si trovava ancora il cadavere del G.). Il ricorrente, riferendosi al colloquio intercettato il (OMISSIS) alle ore 19,09, sostiene che sarebbe stato illogico avvisare il L.M. di quello che stava per succedere atteso che costui ne era già al corrente.

L’episodio è trattato a pag. 236 dalla Corte la quale, partendo da quello che lo stesso M. aveva detto in modo interrogativo agli occupanti dell’auto ("U (OMISSIS) ndr: L.M. un s’have…un s’have a chiamare?"), trae la conclusione che, essendosi lo stesso M. incontrato con il L.M. qualche ora prima al bar (OMISSIS), il suddetto M. aveva sentito la necessità di avvertirlo definitivamente che "l’agguato mortale sta per scattare, di lì a poco, nella zona di sua del L.M. competenza". La difesa del ricorrente, come si è detto, enfatizza questa pretesa contraddittorietà ma, ancora una volta, va rilevato che la censura è fuorviante. Infatti, non essendo chiaro se il L. M. fu avvisato (la sentenza, sul punto, tace), la deduzione della Corte non ha alcuna rilevanza nell’economia della decisione trattandosi di una mera ipotesi alla quale ben può contrapporsi anche quella del ricorrente senza che il medesimo se ne possa avvantaggiare perchè, sia accogliendo la tesi prospettata dalla Corte sia quella del ricorrente, resterebbe pur sempre confermato quello che è l’assunto principale della Corte e cioè che il L. M. era coinvolto nell’omicidio. p.5.4.6. Posteggio dell’auto condotta dal R.: si tratta dell’episodio descritto dalla Corte territoriale a pag. 230/231, sulla base dei rilievi GPS e delle intercettazioni ambientali. In pratica, la Corte, nel ricostruire, minuziosamente, il tragitto ed il movimento che il pomeriggio del (OMISSIS), gli imputati fecero, descrive ciò che successe alle ore 18 circa e cioè che il R. che conduceva un’auto, seguita dalla Bmw del M., la parcheggiò, con difficoltà, in via (OMISSIS), "suscitando il disappunto e le proteste di M.N., che evidentemente pensava di fare posteggiare l’auto in via (OMISSIS), o, comunque, in via (OMISSIS)… trattandosi del sito migliore che per chi nutrisse l’intenzione di tendere un agguato al G. nelle immediate adiacenze della sua abitazione e l’ultimo utile per entrare in azione".

La difesa, prendendo spunto da questo fatto, per contrastarne la valenza indiziaria, afferma che sarebbe "paradossale che il posteggio di un’autovettura strumentale all’agguato avvenga frettolosamente alle ore 18,00, nonostante la collocazione trovata non risulti idonea all’azione omicidiaria".

Si tratta di una censura di poco momento perchè, innanzitutto, non si trattò di un posteggio effettuato frettolosamente, laddove si consideri che l’agguato avvenne dopo oltre due ore, e, poi, perchè, se è vero che il M. avrebbe preferito che l’auto fosse posteggiata altrove, è anche vero che il luogo dove il R. la posteggiò non era del tutto inidoneo trovandosi pur sempre nelle vicinanze del punto preventivato dal ricorrente. Infatti, a pag. 221, la Corte precisa che l’auto venne posteggiata in un "posto strategico al fine di potere essere eventualmente utilizzata per la fuga(…)". p.5.4.7. Comportamento post delictum: la Corte, a pag. 274 ss, deduce un ulteriore indizio a carico del ricorrente, dal comportamento da questi tenuto subito dopo il delitto ed esattamente di quando, intorno alle ore 1,50 del 6/10/2004, trovandosi in compagnia di tale Ba., acquistò il "Giornale di Sicilia" che riportava la notizia degli omicidi del G. e di tale L.N.. La Corte, sulla base del colloquio intercettato, giunge alla conclusione che "lo stupore manifestato dal M. alla notizia dell’omicidio G. è affettato, apparendo se mai sincero l’interesse a conoscere subito i particolari editi del delitto, per comprendere quanto eventualmente gli investigatori sapevano in ordine alle modalità dell’omicidio" e motiva ampiamente questa affermazione.

Il ricorrente, in questa sede, si limita ad obiettare che "la sentenza sviluppa una mera congettura, tesa a smentire lo stupore per l’avvenuto omicidio, manifestato dall’imputato".

Sennonchè si deve replicare che la censura è assolutamente generica perchè non è vero che la Corte sviluppa una mera congettura: al contrario, partendo da un dato noto (contenuto dell’intercettazione ambientale) attraverso una serie di elementi, giunge al fatto ignoto e cioè che il M., al cospetto del Ba., fece una sorta di sceneggiata. p.5.4.8. Intercettazioni: infine il ricorrente, sostiene che la Corte non avrebbe dovuto attribuire alcuna valenza probatoria alle intercettazioni telefoniche ed ambientali, essendo state effettuate su soggetti che ben avrebbero potuto depistare le indagini attraverso i loro colloqui, in quanto sapevano, ovvero temevano, di essere sottoposti a intercettazione. Si tratta di un argomento davvero singolare, al quale la Corte, in realtà, a ben vedere, ha già dato una congrua risposta. Infatti, innanzitutto, non è ben chiaro in cosa sarebbe consistita l’opera di depistaggio perchè se fosse vera la tesi prospettata, allora bisognerebbe concludere che gli imputati, più che depistare gli investigatori, con il contenuto dei loro colloqui li indirizzarono verso di loro. In secondo luogo, la Corte spiega perfettamente che un dubbio che fossero intercettati gli imputati lo ebbero quando, mentre si trovavano a bordo della Bmw videro, verso le ore 17,46, accendersi una spia rossa (che era quella del Gps), sicchè, insospettiti, diventarono subito taciturni addirittura scendendo dall’autovettura quando avevano bisogno di far discorsi più espliciti: cfr pag. 226/227 e 276. Quindi, la censura non ha alcun fondamento. p.6. MOTIVI F..

La maggior parte delle doglianze proposte dal F. sono identiche e sovrapponibili a quelle dedotte dal M. e delle quali si è già trattato: ci si riferisce alle censure di cui al 2.2.1. sub 1-2-3-4-5-6.

Gli unici motivi che sono diversi da quelli del M. sono i seguenti:

p.6.1. Dichiarazioni di C.M.: uno degli indizi posti dalla Corte a carico del ricorrente è costituito dalla dichiarazione resa dal C. il quale ha riferito che, dopo l’omicidio, avendo avuto occasione di incontrare il F., lo ringraziò sarcasticamente di aver commesso il delitto proprio vicino l’abitazione di sua madre. Al che il Fontana se ne usci con una semplice scrollata di spalla. La Corte, ritiene che il comportamento tenuto dal F. nell’occasione vada interpretato come "tacita ammissione e quindi una conferma della ascrivibilità del delitto al gruppo di fuoco del M." (pag. 293).

Il ricorrente, in questa sede, minimizza l’episodio sostenendo che la reazione non aveva nulla di strano anche perchè la Corte non avrebbe spiegato quale avrebbe dovuto essere.

Ora, a parte che la Corte ha scritto che se il F. fosse stato estraneo al delitto "la sua reazione avrebbe dovuto essere ben altra che non una semplice scrollata di spalle", intendendo con ciò, ovviamente, una reazione di meraviglia, stupore o di negazione di quanto aveva sottinteso il C., il ricorrente sopravvaluta ed enfatizza il suddetto indizio.

Infatti, è la stessa Corte che scrive che il suddetto episodio "non fa altro che confermare vieppiù, se ancora ve ne fosse bisogno, la partecipazione del F. ad un fatto di reato che, in modo ampio e decisivo, si desume dall’esame dei movimenti compiuti da tale imputato il giorno del delitto e dall’univoco contenuto delle intercettazioni ambientali e telefoniche del giorno del delitto". In altri termini, il suddetto indizio non è altro che un piccolo tassello che si aggiunge al complessivo quadro d’insieme che colloca il F., il giorno e l’ora del delitto sulla scena del crimine e senza il quale la responsabilità del F. non potrebbe comunque essere messa in discussione proprio perchè ben altri sono gli indizi e le prove a suo carico. p.6.2. Il telefonino di F.I. e la sua presenza al Bar (OMISSIS) unitamente al fratello A.: sostiene il ricorrente che è pacifico, avendone dato atto la stessa Corte, che egli aveva lasciato il cellulare spento all’interno dell’autovettura Bmw parcheggiata a (OMISSIS). Non vi è però certezza sul fatto che la persona che si trovava in compagnia del M., sulla suddetta autovettura alle ore 20,32, fosse proprio esso ricorrente perchè non vi è alcuna prova che la persona che canticchiava era proprio lui. Il fatto che il M. ricevette una telefonata da parte di F.A., fratello di esso ricorrente, stava solo a significare che I., sprovvisto di cellulare, aveva chiesto al fratello A., con il quale si trovava al Bar Santa Rosalia, di chiamare il M. perchè lo informasse del posto dove si trovava. L’episodio è trattato dalla Corte territoriale a pag. 267 ss e la Corte, dopo una lunga disamina, conclude che, in effetti, non vi è certezza che quella persona fosse proprio il F., ma che si trattava di un indizio che nulla aggiungeva e nulla toglieva alla completezza del quadro probatorio (cfr pag. 272), convenendo la Corte anche sul fatto che la tesi difensiva poteva essere plausibile e cioè che il F., dopo essere separatamente tornato a (OMISSIS), "potesse effettivamente trovarsi presso il bar Santa Rosalia al momento della conversazione in discussione…" (cfr pag. 273).

Aggiungeva, però, la Corte che tale prospettazione nulla toglieva al fatto che l’imputato avesse partecipato all’omicidio, significando solo che il F. ed il M., così come era successo con il R., "dopo avere compiuto l’omicidio, si erano separati… anche per motivi di sicurezza, in modo da tornare, per vie e con mezzi diversi, al luogo o ai luoghi di provenienza".

Pertanto, la doglianza, nei termini in cui è stata dedotta, è infondata mancando il ricorrente di alcun interesse giuridicamente rilevante a proporla. p.7. MOTIVI R..

La complessa doglianza proposta dal R. è infondata sotto molteplici profili. In via preliminare, va osservato che il ricorso, a ben vedere, è strutturato come una complessa censura di merito, essendo stata la decisione della Corte confutata, in pratica, solo sotto il profilo dell’errata interpretazione dei dati ricavabili dagli accertamenti tecnici compiuti.

Infatti, tutta la difesa del R. è tesa a contestare, sotto il profilo tecnico, le ed "proiezioni" che lo collocano sulla scena del crimine ne giorno e nell’ora del delitto, anche perchè era stato l’unico dei tre a "bucare" la consegna del black out che il M. aveva ordinato e che lo aveva portato a telefonare, in rapida successione, due volte, al fratello N. appostato nei pressi del Bar (OMISSIS) per sincerarsi se e quando il G. era uscito dal Bar. Era stata, infatti, proprio grazie a quell’imprudenza che gli inquirenti avevano potuto accertare che il R. si trovava a pochi metri dal luogo dove era stato commesso l’omicidio. La censura, però, va ritenuta infondata perchè:

– tende, in modo surrettizio, ad ottenere una nuova valutazione di quegli stessi fatti già ampiamente valutati dalla Corte;

– fornisce una versione alternativa dei fatti;

– sostiene che la Corte avrebbe travisato le prove: sennonchè, sul punto, precisato che ci si trova di fronte ad una c.d. doppia conforme, si deve ribadire il seguente principio di diritto:

"nell’ipotesi di decisione di secondo grado difforme da quella di primo, il vizio di prova omessa (vizio di omessa pronuncia rispetto a un significativo dato processuale o probatorio), o di prova travisata, (palese divergenza del risultato probatorio rispetto all’elemento di prova emergente dagli atti processuali) assume rilevanza, nel giudizio di legittimità, soltanto quando l’errore disarticoli effettivamente l’intero ragionamento probatorio e renda illogica la motivazione per la essenziale forza dimostrativa del dato processuale/probatorio travisato. Qualora, invece, ci si trovi innanzi ad una c.d. doppia conforme (doppia pronuncia di uguale segno) il vizio di travisamento della prova può essere rilevato in sede di legittimità solo nel caso in cui il ricorrente rappresenti (con specifica deduzione) che l’argomento probatorio asseritamele travisato è stato per la prima volta introdotto come oggetto di valutazione nella motivazione del provvedimento di secondo grado.

Infatti, in considerazione del limite del devolutimi (che impedisce che si recuperino, in sede di legittimità, elementi fattuali che comportino la rivisitazione dell’iter costruttivo del fatto, salvo il caso in cui il giudice d’appello, per rispondere alla critiche dei motivi di gravame, abbia richiamato atti a contenuto probatorio non esaminati dal primo giudice) il sindacato di legittimità, deve limitarsi alla mera constatazione dell’eventuale travisamento della prova, che consiste nell’utilizzazione di una prova inesistente o nell’utilizzazione di un risultato di prova incontrovertibilmente diverso, nella sua oggettività, da quello effettivo". E, nel caso di specie, non è minimamente ipotizzabile che, sulla base delle doglianze dedotte dal ricorrente, si possa ictu oculi accertare il travisamento della prova: sul punto è sufficiente leggere la sentenza a pag. 248 ss, per avvedersi che quelle stesse doglianze, oggi riproposte nel presente ricorso, sono state ampiamente esaminate, discusse e disattese dalla Corte territoriale. Il R., nella memoria datata 26/11/2010, dopo avere ribadito le proprie doglianze in ordine ai pretesi travisamenti delle prove da parte della Corte territoriale (su di che non vi è nulla da aggiungere a quanto già illustrato), sostiene che, essendo il procedimento a suo carico di mera natura indiziaria, e, in assenza dei requisiti di certezza e precisione, la Corte avrebbe dovuto proscioglierlo.

Anche tale doglianza è infondata.

In punto di fatto, va dato atto che, in effetti, il compendio probatorio a carico del ricorrente R. è di natura indiziaria.

In punto di diritto, in ordine alla prova desunta dagli indizi, ex art. 192 c.p.p., la costante giurisprudenza di questa Corte, ha enunciato i principi di diritto di seguito indicati che vanno qui ribaditi.

Gli indizi sono quelle circostanze note non direttamente rappresentative del fatto da provare, circostanze che, se prese in considerazione, possono consentire di pervenire a conoscere l’esistenza di un fatto non noto indispensabile per la conclusione del giudizio. Si tratta, a ben vedere, della stessa regola di giudizio che è espressamente codificata all’art. 2729 c.c. (che consente, appunto, di risalire dal noto all’ignoto, quando le presunzioni sono gravi, precise e concordanti) che non comporta inversione dell’onere della prova, bensì l’applicazione di presunzioni di fatto sulla base di logica e di comune esperienza, collegata a dati obiettivi. Il fatto, quindi, che la legge impone di poter valutare, ai fini decisoli, le sole presunzioni, comporta, come conseguenza, che, così come nel giudizio civile, anche e a fortiori, nel giudizio penale è vietato il ricorso alla c.d. praesumptio de praeseumpto ossia desumere una presunzione da un’altra presunzione.

L’indizio, per essere utilizzato ai fini del convincimento del giudice, dev’essere certo – grave – preciso e concordante.

Il requisito della certezza, benchè non espressamente indicato dall’art. 192 c.p.p., è da ritenersi insito nella previsione di tale precetto. Con la certezza dell’indizio, infatti, viene postulata la verifica processuale circa la reale sussistenza dell’indizio stesso, posto che non potrebbe essere consentito fondare la prova critica (indiretta) su un fatto verosimilmente accaduto, supposto o intuito, inammissibilmente valorizzando – contro indiscutibili postulati di civiltà giuridica – personali impressioni o immaginazioni del decidente ai fini indicati dall’art. 192 c.p.p..

La precisione dell’indizio significa che il fatto noto (oltre che indiscutibile e certo nella sua oggettìvità: sotto questo profilo, si può affermare, che il requisito della precisione comprende in sè anche quello, non espresso, della certezza) non dev’essere suscettibile di altre interpretazioni, non essendo logicamente deducibile un fatto ignoto da un fatto a sua volta ipotetico ovvero anfibologico.

La gravità dell’indizio sta a denotare che il fatto noto deve avere una rilevante contiguità logica con il fatto ignoto e, quindi, un’elevata attendibilità e persuasività.

La concordanza, infine, sta ad indicare che gli indizi, precisi nel loro essere, prossimi logicamente al fatto ignoto, debbono muoversi nella stessa direzione, debbono essere logicamente dello stesso segno e non essere, quindi, in contrasto fra di loro.

La precisione e la gravità, inoltre, vanno accertate sottoponendo gli indizi a vaglio anzitutto separatamente e, in un secondo momento, soprattutto per quel che riguarda la gravità, congiuntamente, potendo la gravità degli uni acquistare spessore dalla accertata gravità degli altri, mentre la concordanza va valutata confrontando gli indizi e ponendo in evidenza se gli stessi sul piano logico convergano o divergano. Va infine rilevato che più sono gli indizi gravi, precisi e concordanti, più facile è il giudizio di probabilità.

Diversa è la prova ed rappresentativa – o, secondo altra terminologia, prova in senso stretto o prova specifica – che, consistendo, ad es. in una testimonianza, in un’immagine, in parole, in suoni ecc, fornisce, del fatto storico da accertare (reato), appunto, una diretta rappresentazione a mezzo del suddetto elemento fattuale (suono – testimonianza ecc.). In tali ipotesi, la problematica (eventuale) che pone il processo è quello di verificare l’attendibilità dell’elemento fattuale (la testimonianza è attendibile? L’immagine è quella reale o è stata alterata?).

La suddetta premessa dogmatica, si rivela utile ai fini della confutazione della censura dedotta dal ricorrente R.. Va rammentato che, se per il R. il compendio probatorio è di natura indiziaria, al contrario, a carico del M. sussiste una prova specifica costituita dall’intercettazione ambientale del 17/09 che capta, in maniera plastica, il momento in cui il P. dava mandato al suddetto M. di eseguire l’omicidio del G. ed il M. accettava l’incarico. Come si è visto dalla discussione e confutazione dei vari motivi dedotti dal M., la suddetta intercettazione deve ritenersi non una semplice ipotesi nè un incarico non portato a termine, ma un vero e proprio mandato al quale seguì l’omicidio, come dimostrato dai numerosi riscontri evidenziati nella sentenza impugnata (movente; omicidio eseguito dopo appena diciassette giorni; presenza del M. sul luogo e nell’ora del delitto).

Ora, la suddetta prova, benchè gravante direttamente sul solo M., inevitabilmente, è refluita, benchè solo come indizio, anche sul R. perchè, come si è visto, costui faceva parte del gruppo di fuoco alle dipendenze del M., venendo, nella gerarchia, subito dopo il F..

Il primo indizio dotato, quindi, della certezza, è quello costituito dal fatto che il R. faceva parte del ristretto gruppo di persone di cui il M. si serviva per compiere le sue azioni criminose.

Il secondo gruppo di indizi è costituito, come si è visto, dalla presenza del R. sul luogo del delitto, insieme al M. ed al F., il giorno e l’ora dell’omicidio.

Anche i suddetti numerosi indizi, devono ritenersi che abbiano il requisito della precisione e certezza proprio perchè risultano da dati oggettivi (intercettazioni – rilevamenti GPS – localizzazione tramite le celle telefoniche).

Ma, tutti gli indizi di cui si è detto, sono non solo precisi (e certi), ma anche gravi e concordanti, perchè, da una parte, hanno un’elevata attendibilità e persuasività, e, dall’altra, muovono tutti nella stessa direzione in quanto la motivazione dell’impugnata sentenza non indica (nè lo stesso ricorrente evidenzia alcunchè) altri indizi contrastanti o di segno opposto.

Sulla base di tale univoco compendio probatorio, la decisione impugnata non si presta, pertanto, alla generica censura dedotta, proprio perchè, nessun indizio di segno contrario smentisce la conclusione alla quale la Corte territoriale è pervenuta, attraverso un ragionamento logico, coerente ed adeguato rispetto agli evidenziati dati fattuali. p.8. CONCLUSIONI. In conclusione, tutti e tre i ricorsi vanno rigettati. Infatti, la sentenza, in modo minuzioso analizza, anche alla luce delle tesi difensive, ogni singolo elemento processuale collocandolo in un quadro d’insieme che viene ricostruito in modo logico ed adeguato rispetto alle evidenze processuali, e conclude fornendo una coerente spiegazione del movente e del mandante dell’omicidio nonchè una plastica ricostruzione momento per momento, degli spostamenti dei tre imputati, il giorno del delitto.

A fronte di tale complesso, compatto e coerente iter motivazionale, gli imputati, chi in un modo chi un altro, si sono limitati a dedurre:

– censure atomistiche riguardanti singoli elementi indiziari avulsi dal più ampio contesto in cui erano inseriti: il che deve ritenersi inammissibile avendo questa Corte reiteratamente stigmatizzato questa tecnica argomentativa, atteso che la rilevanza dei singoli dati non può essere accertata estrapolandoli dal contesto in cui essi sono inseriti, ma devono essere posti a confronto con il complesso probatorio, dal momento che soltanto una valutazione globale e una visione di insieme permettono di verificare se essi rivestano realmente consistenza decisiva oppure se risultino inidonei a scuotere la compattezza logica dell’impianto argomentativo, dovendo intendersi, in quest’ultimo caso, implicitamente confutati;

– censure irrilevanti ai fini della decisione;

– censure ininfluenti: sul punto,, va ribadito che l’illogicità della motivazione, come vizio denunciabile, dev’essere percepibile ictu oculi, dovendo il sindacato di legittimità essere limitato a rilievi di macroscopica evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze: ex plurimis SSUU 24/1999;

– censure tendenti a proporre versioni alternative: su di che va, però, data continuità al costante principio secondo il quale il controllo di legittimità operato da questa Corte è finalizzato a verificare, laddove il ricorrente proponga una diversa ricostruzione dei fatti, se le argomentazioni poste dal giudice di merito a fondamento della propria decisione siano compatibili con i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento.

Dal rigetto del ricorso consegue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali nonchè a quelle delle costituite parti civili come da dispositivo.
P.Q.M.

RIGETTA i ricorsi e CONDANNA i ricorrenti al pagamento delle spese processuali nonchè alla rifusione in favore delle costituite parti civili S.G. e G.F. delle spese di questo grado di giudizio sostenute da esse parti civili che si liquidano in complessivi Euro 3.600,00 oltre iva, epa e spese generali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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