Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 11-03-2011, n. 5887 Lavoro subordinato

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con ricorso del 4-11-2004 S.P., premesso di essere stata dipendente della s.p.a. Poste Italiane con qualifica di quadro 2^ livello, esponeva: che il 25-6-2001 la società aveva comunicato alle OO.SS. ed al Ministero del lavoro l’avvio della procedura di licenziamento collettivo di 9.000 lavoratori ritenuti in eccedenza e che con lettera del 19-11-2001 le era stato intimato il licenziamento con decorrenza 1-1-2002 per "gli accordi collettivi raggiunti con le OO.SS. del 17, 18 e 23 settembre 2001"; che detto licenziamento era nullo, inefficace, illegittimo, e/o annullabile, tra l’altro per la genericità e insufficienza della comunicazione di avvio della procedura.

La ricorrente chiedeva, quindi, che, dichiarata la nullità, inefficacia o illegittimità e/o annullabilità del licenziamento, la società fosse condannata a reintegrarla nel posto di lavoro, con ristoro di tutte le retribuzioni maturate dalla risoluzione del rapporto, a titolo di risarcimento del danno, oltre rivalutazione e interessi. Chiese inoltre la condanna della società al risarcimento del "danno biologico conseguente alla delusione ed ai patimenti psichici subiti in conseguenza del licenziamento".

La società si costitutiva e resisteva al gravame.

Il Giudice del Tribunale di Roma con sentenza del 11-18/5/2005, rigettava il ricorso ravvisando la volontà risolutiva della S. per il tempo trascorso dalla impugnativa del licenziamento alla messa a disposizione delle energie lavorative ed alla proposizione del ricorso, accompagnato dal ritiro delle spettanze di fine rapporto e dalla riscossione del beneficio pensionistico.

La lavoratrice proponeva appello avverso la detta sentenza chiedendone la riforma con l’accoglimento della domanda.

La società si costituiva e resisteva al gravame.

La Corte d’Appello di Roma, con sentenza depositata il 4-7-2008, in riforma della pronuncia di primo grado, dichiarava l’inefficacia del licenziamento intimato alla S. e (avendo quest’ultima già compiuto i 65 anni, essendo nata il 10-11-1941) condannava la società al pagamento, a titolo di risarcimento del danno, di un’indennità commisurata alla retribuzione globale di fatto dalla data del licenziamento al compimento del 65^ anno di età, oltre rivalutazione e interessi, ed al versamento dei contributi assistenziali e previdenziali per lo stesso periodo. Respingeva altresì la domanda di risarcimento del danno biologico e condannava la società al pagamento delle spese del doppio grado.

A sostegno della decisione la Corte di merito, respinta l’eccezione di risoluzione del rapporto per mutuo consenso tacito, osservava che la lettera di avvio della procedura di mobilità doveva ritenersi carente con riferimento all’obbligo, previsto dalla citata L. n. 223, art. 4, comma 3, della indicazione della collocazione aziendale e dei profili professionali coinvolti nella procedura. Tale carenza finiva col ripercuotersi sulla concreta applicazione del criterio della vicinanza al pensionamento, astrattamente razionale e non di per sè discriminatorio, in quanto il criterio concordato si limitava ad individuare una categoria di personale eccedentario, indipendentemente dalla preventiva definizione della collocazione aziendale degli esuberi; ciò comportava la riferibilità della applicazione del criterio alla totalità del personale, coinvolgendo, quindi, nella programmata riduzione del personale, in contraddizione con le cause dichiarate della procedura, anche posizioni di lavoro per settori in cui non si registravano esuberi di dipendenti.

Per la cassazione di tale sentenza la s.p.a. Poste Italiane ha proposto ricorso con quattro motivi, corredati dai quesiti di diritto ex art. 366 bis c.p.c., che va applicato nella fattispecie, ratione temporis.

La S. ha resistito con controricorso.

La società ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c..
Motivi della decisione

Con il primo motivo la ricorrente, denunciando violazione dell’art. 1372 c.c., comma 1, e art. 100 c.p.c., censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha respinto l’eccezione di inammissibilità della domanda per intervenuta risoluzione del rapporto per mutuo consenso, resa palese dal contegno di prolungata ed ininterrotta inerzia assunto dalla S. dopo la cessazione del rapporto dedotto in giudizio.

In particolare al riguardo la ricorrente evidenzia che nella fattispecie la prolungata inerzia della S. si è protratta per due anni e mezzo e che è stato percepito il TFR e il trattamento pensionistico.

Il motivo risulta infondato.

Posto che il rapporto di lavoro può risolversi, tra l’altro, anche per risoluzione per mutuo consenso tacito, risultante da comportamenti concludenti delle parti e da circostanze significative tali da dimostrare una chiara e certa comune volontà delle parti stesse di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo, più volte questa Corte ha affermato che all’uopo non è di per sè sufficiente la mera inerzia o il semplice ritardo nell’esercizio del diritto (cfr. Cass. 28-9-2007 n. 20390, Cass. 10-11-2008 n. 26935, Cass. 1-2-2010 n. 2279) e che, in ogni caso, la valutazione del significato e della portata del complesso degli elementi di fatto compete al giudice di merito, le cui conclusioni non sono censurabili in sede di legittimità se non sussistono vizi logici o errori di diritto" (cfr. Cass. 10-11-2008 n. 26935, Cass. 28-9-2007 n. 20390, Cass. 17-12-2004 n. 23554, Cass. 11-12-2001 n. 15628, Cass. 2-12-2000 n. 15403, da ultimo v. anche Cass. 11-11-2009 n. 23872).

Nella fattispecie la Corte territoriale, ha considerato che "i circa 2 anni e mezzo trascorsi" dall’impugnativa del licenziamento ben possono "giustificarsi con la necessità di prendere consapevolezza della propria posizione giuridica e di assumere le conseguenti azioni legali". Nel contempo la Corte di merito ha rilevato che nella stessa lettera di licenziamento la appellante "era stata espressamente invitata a valutare la possibilità, prevista nell’allegato 1 dell’accordo sindacale, di risolvere consensualmente il rapporto beneficiando dei trattamenti di incentivazione all’esodo aziendalmente in atto, sicchè la circostanza che la S. non abbia ritenuto di avvalersi di tale offerta esclude, anche indipendentemente dalle sue condizioni patologiche, che, nel breve tempo successivo, abbia deciso comunque di fare acquiescenza al recesso senza avere alcun beneficio economico". Quanto, poi, alla percezione delle competenze di fine rapporto e del trattamento pensionistico la Corte d’Appello ha ritenuto che "si tratta di atti necessitati dalla esigenza di provvedere al proprio mantenimento e che di per sè non sono indicativi di una volontà di recesso dal precedente rapporto di lavoro".

Tale accertamento di fatto, conforme ai principi sopra richiamati, risulta altresì congruamente motivato e resiste alla censura della società ricorrente.

Con il secondo motivo la s.p.a. Poste Italiane, denunciando violazione e falsa applicazione della L. n. 223 del 1991, art. 4, comma 3, nonchè vizio di motivazione, sostiene che la Corte territoriale è pervenuta alla conclusione circa l’insufficienza della comunicazione di avvio della procedura di licenziamento collettivo per l’effetto di una errata interpretazione rigoristica della norma. Secondo la società il Giudice di appello, laddove ha ritenuto che la indicazione contenuta nella comunicazione iniziale dell’azienda delle qualifiche "quadro di 1^ livello e di 2^ livello", nonchè delle c.d. Aree professionali di inquadramento non integri la indicazione dei "profili professionali" del personale eccedente di cui alla citata L. n. 223, art. 4, comma 3, si sarebbe attenuto ad una concezione estremamente formalistica del precetto legale, trascurando il carattere atecnico e quindi generico dell’espressione "profilo professionale" e che l’adeguatezza della comunicazione si sarebbe dovuta valutare in relazione alle finalità che il legislatore le assegna.

Con il terzo e quarto motivo la società denuncia violazione e falsa applicazione della citata L. n. 223 del 1991, art. 5 e vizio di motivazione, con riguardo alla determinazione dell’ambito di applicazione dei criteri di scelta dei lavoratori da collocare in mobilità ed alla individuazione dei settori aziendali interessati alla procedura di cui all’art. 4 della medesima legge.

Con tali restanti motivi, in sostanza, la società censura la impugnata sentenza nella parte in cui ha ritenuto carente la comunicazione, in data 25-6-2001, di avvio delle procedura in ordine alla indicazione della collocazione aziendale e dei profili professionali coinvolti nella procedura, con conseguente ripercussione sulla determinazione dell’ambito di applicazione del criterio di scelta adottato.

Orbene rileva il Collegio che, sotto altro e diverso profilo, la sentenza impugnata ha affermato che "risulta, poi, da un successivo documento, ovvero il prospetto delle eccedenze alla data del 1/8/2001, che le stesse sono scese nel Lazio a 1436 dipendenti, dei quali 1407 nell’Area operativa e 36 nell’Area di base, essendo nel frattempo intervenuto addirittura un decremento del numero dei lavoratori nell’Area Quadri 1 e 2. Sennonchè, nonostante tale mutata situazione, nell’accordo del 17-10-2001 le parti sociali hanno convenuto la risoluzione del rapporto di lavoro di tutto il personale risultante, alla data del 31-12-2001, già in possesso dei requisiti per il diritto alla pensione…" e la società ha provveduto alla individuazione dei lavoratori da licenziare in base a tale diverso "criterio esterno".

Tale autonoma ratio decidendi, chiaramente espressa dalla Corte di merito non è stata specificamente impugnata dalla ricorrente, le cui censure si sono concentrate soltanto sui diversi temi sopra richiamati.

Ne consegue la inammissibilità dei motivi secondo, terzo e quarto.

Nella giurisprudenza di questa Corte, infatti, è consolidato il principio secondo cui, "posto che il ricorso per cassazione non introduce una terza istanza di giudizio con la quale si può far valere la mera ingiustizia della sentenza impugnata, caratterizzandosi invece come un rimedio impugnatorio a critica vincolata ed a cognizione determinata dall’ambito della denuncia attraverso il vizio o vizi dedotti" (v. Cass. 5-6-2007 n. 13070), "qualora la sentenza di merito si fondi su più ragioni autonome, ciascuna delle quali logicamente e giuridicamente idonea a sorreggere la decisione secondo l’iter logico-giuridico seguito sul punto in questione nella sentenza impugnata, l’omessa impugnazione, con ricorso per cassazione, anche di una soltanto di tali ragioni determina l’inammissibilità, per difetto di interesse, anche del gravame proposto avverso le altre, in quanto l’eventuale accoglimento del ricorso non inciderebbe sulla ratio decidendi non censurata, con la conseguenza che la sentenza impugnata resterebbe pur sempre fondata su di essa" (Cass. 27-1-2005 n. 1658, Cass. 4-5-2005 n. 9279, Cass. 23-2-2006 n. 3989, Cass. 18-9-2006 n. 20118, Cass. 11-1-2007 n. 389, Cass. 5-3-2007 n. 5051).

Il ricorso va così respinto e la ricorrente, in ragione della soccombenza, va condannata al pagamento delle spese in favore della S..
P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente a pagare alla S. le spese liquidate in Euro 23,00 oltre Euro 3.000,00 per onorari, oltre spese generali, I.V.A. e C.P.A., con distrazione in favore dell’avv. Dino Lucchetti.

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